"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Federico Zappini
371 persone ristrette. 280 con sentenza definitiva. 46 donne nella sezione femminile, quella che abbiamo visitato con maggiore attenzione. 108 i detenuti “protetti” (la cui provenienza è allargata all’intero triveneto), ossia quelli che si sono macchiati di reati particolarmente gravi, tali da metterli in pericolo rispetto alla reazione del resto della comunità penitenziaria. Un paio di decine le persone che accedono alla semilibertà o, attraverso l’art.21, a percorsi lavorativi all’esterno della struttura. Tre soli/e invece in permesso, nonostante il periodo ferragostano farebbe supporre un maggiore accesso possibile alla misura.
Siamo sempre più lontani dalle cifre che erano contenute nell’accordo tra Ministero della Giustizia e Provincia Autonoma di Trento collegato alla costruzione del nuovo carcere di Spini: 240 detenuti come limite massimo per poter gestire al meglio la struttura, non dovendo comprimere gli spazi e aumentare la tensione della convivenza obbligata.
Ci è stato fatto notare che stando ai nuovi criteri utilizzati per stimare la capienza massima della struttura si potrebbero addirittura aggiungere altri 50 detenuti e che il quasi raddoppio della popolazione della casa circondariale non ha aumentato contestualmente il personale, della polizia penitenziaria come dei servizi socio-culturali. Nel primo caso il deficit è cronico, sopratutto nelle figure intermedie del corpo. Nel secondo, finalmente, siamo tornati quasi a pieno organico dopo anni di grande fatica e lacune negli interventi di sostegno e cura.
Partire dai numeri aiuta a farci un’idea della situazione detentiva anche dentro la casa circondariale di Trento, con sullo sfondo la condizione nazionale che negli ultimi mesi ha assunto contorni ancora più tragici (se possibile) rispetto agli anni precedenti.
Sovraffollamento (quasi 15.000 detenuti oltre i posti disponibili) in strutture spesso fatiscenti. Carenza di personale – di polizia e sociale – con la conseguenza diretta di una gestione spesso di vera e propria emergenza. Un numero insopportabile di suicidi (quasi 70 da inizio anno) dentro una generale invivibilità delle carceri. La quasi totale assenza – esclusi pochi casi particolarissimi – di una programmazione di interventi rieducativi (formativi e orientati al lavoro, capaci di preparare al rientro in società) che sarebbero la premessa alla riduzione sistematicamente la recidiva di reato.
L’occasione di passare una mattina nella sezione femminile della casa circondariale di Trento ci ha permesso – insieme alla deputata Sara Ferrari, ai consiglieri provinciali Andrea De Bertolini, Francesco Valduga, Paolo Zanella oltre all’avvocato Fabio Valcanover – di accedere a una serie di biografie che, tra picchi di dolore e sporadiche scintille di speranza, confermano quelle che da tempo possiamo riconoscere come le principali urgenze che da detenuti e detenute vengono esposte.
In attesa che il Ministro Nordio condivida ipotesi più coraggiose e fattive per “umanizzare le carceri” (il decreto appena approvato poco fa in questa direzione) dobbiamo stringere le maglie delle reti di supporto e accompagnamento per chi sconta una pena detentiva e la cui traiettoria deve essere quella del re-inserimento in comunità.
E’ stato ribadita oggi la necessità – con il fine di avere maggiore permeabilità tra il dentro e il fuori – di far essere più efficace e puntuale (e contestualmente meno rigida) la relazione tra educatori che devono produrre le relazioni per detenuti e detenute e magistratura di sorveglianza, che le deve analizzare per attivare percorsi alternativi alla detenzione.
Per potersi muovere con maggiore forza in questa direzione altri due sono i fronti aperti sui quali possiamo e dobbiamo lavorare e riguardano impiego e alloggio.
Per il primo aspetto il tentativo deve essere quello di moltiplicare le opportunità di formazione e occupazione sia dentro (aggiungendo laboratori e progetti a quelli già presenti) che fuori, invitando il tessuto economico locale a farsi avanti, coniugando in maniera virtuosa impegno e inclusione sociale con gli sgravi fiscali previsti per l’assunzione di cosiddetti “lavoratori svantaggiati”. La prossima apertura di una pizzeria negli spazi antistanti il carcere (speriamo in una forma imprenditoriale/comunitaria che ne garantisca la piena sostenibilità) sarà un test importantissimo, per il quale siamo tutti chiamati ad impegnarci.
Per il secondo – in sintesi estrema – vanno aggiunti spazi nelle disponibilità delle realtà che si occupano di accompagnare detenuti e detenute nel faticoso momento del “fine pena”, lì dove un luogo sicuro e protetto è condizione necessaria per evitare il ritorno immediato ai contesti che in precedenza hanno caratterizzato l’azione criminosa.
Non c’è stata occasione di approfondire – servirà tornare nelle sezioni maschili, con più di 300 ristretti – le problematiche collegate a cure mediche (garantite anche di notte, ma sempre piuttosto precarie)e a malattie mentali e tossicodipendenze (in troppi casi “gestite” in cella, mentre invece servirebbero strutture dedicate).
Ci torneremo, promesso.
Apparentemente molto tecniche ma al contrario decisamente importanti per garantire attenzione costante e buone pratiche territoriali sarebbero le scelte a livello locale (il tentativo dovrebbe essere fatto su scala regionale) di richiedere l’istituzione di un provveditorato dedicato al Trentino-Alto Adige e non all’intero Triveneto e di affiancare al Garante dei detenuti provinciale anche un Garante cittadino, dalla cui unione delle forze potrebbero scaturire esiti più efficaci orientati al miglioramento dell’esperienza detentitiva e al suo più stretto collegamento con il contesto dentro cui avviene.
C’è un ultimo aspetto che merita di essere trattato, in conclusione. Contrapporsi alla cultura che possiamo descrivere per comodità con la frase “mettiamoli in galera e buttiamo la chiave” è oggi fondamentale e per farlo non abbiamo altra strategia se non quella di costruire occasioni di confronto (nelle scuole e nei quartieri, nelle istituzioni e negli spazi interni del carcere) che rimettano al centro il dettato costituzionale contenuto dall’art.27 e non tramuti il sistema penale e carcerario nello strumento con cui lo Stato si vendica dei propri cittadini e cittadine che – per mille motivi diversi – hanno commesso piccoli o grandi errori nella loro vita.
Se la Politica non raccoglie questa sfida di civiltà parte sconfitta in partenza.
* da https://pontidivista.wordpress.com/
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