"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Qualche domanda sull'autonomia differenziata. E la proposta di un duplice movimento.

Paul Klee

di Federico Zappini

E' difficile avvicinarsi al tema autonomia differenziata senza farsi cogliere da un doppio pregiudizio. Il primo riguarda il Ministro Roberto Calderoli, già noto per aver nominato la legge elettorale da lui stesso ideata Porcellum. Nomen omen. Il secondo invece deriva dalla storia della Lega Nord, che affonda le sue radici in un progetto politico apertamente secessionista. In crisi l'opzione nazionalista di Matteo Salvini si torna alle origini, con il nord (il lombardo-veneto come ambito geografico di riferimento) a rivendicare il proprio primato sul resto del Paese. Prima noi, giusto?

Due pregiudizi non bastano però se si analizza la questione con gli occhi di un territorio autonomo come il Trentino-Alto Adige. Non si possono scrollare le spalle dicendo che la riforma non ci riguarda direttamente o che per preservare il nostro status sarà sufficiente occuparsi della cosiddetta clausola dell'intesa, oggi alle prese con le fibrillazioni della compagine di Governo, a Roma come nelle due giunte provinciali. Autonomia non può significare mai, per nessuno, disinteresse per ciò che ci circonda. Questo approccio, per così dire difensivo, rischia di perdere di vista le implicazioni più ampie e strutturali dell'impianto proposto dalla norma in oggetto che riguarda l’intero assetto dello Stato, colpendo nel vivo il suo già fragile equilibrio istituzionale e socio-economico.

Non è corretto neppure a mio modo di vedere dire che questa Autonomia differenziata altro non è che la prosecuzione di un percorso (attivatosi su input di diversi governi di centro-sinistra a cavallo della fine del millennio) che ha nella riforma del Titolo V del 2001 il suo punto di svolta, che opporsi a tale presunta continuità significa tradire quella tradizione autonomistica e che sostenere il percorso referendario contribuisce ad affossarne ogni possibile evoluzione a favore di un rinnovato centralismo statalista.

Tornerò tra poco sul rischio incombente di semplificazione, ma mi preme qui sottoporre qualche domanda a chi di quella fase di sviluppo federalista – penso a Giorgio Tonini, ma non solo – è stato promotore e appassionato protagonista.

Cosa è andato storto se a due decenni di distanza da quegli interventi di revisione costituzionale le dinamiche di governo tra Stato, Regioni e Comuni (le Province intanto le abbiamo abolite, in nome di una populistica idea di riduzione della spesa) rimangono ancora così disordinate e caratterizzate da pericolose e crescenti disuguaglianze territoriali? Dove si è incagliato l'impegno per la definizione (sia in termini di standard, che di risorse, infrastrutture e meccanismi perequativi) degli ormai famosi LEP – livelli essenziali di prestazione – e degli strumenti per garantirne il raggiungimento su tutto il territorio italiano? E ancora, cosa si è fatto nello stesso periodo per rinforzare le fondamenta dello Stato – fisco e debito pubblico, sanità e welfare, istruzione e politiche per il lavoro solo per elencare i principali – senza le quali ogni ipotesi di autogoverno territoriale rischia di risultare velleitaria o, peggio, ingiusta?

Mi si dirà che per ognuno di questi quesiti c'è una risposta che conferma la bontà di ciò che si è fatto fin qui, ma ai miei occhi la realtà complessa formatasi negli ultimi anni (la crisi Covid così come le tensioni geopolitiche globali hanno lasciato segni profondi) richiede una ridefinizione profonda e puntuale del rapporto tra i diversi livelli amministrativi.

Un dibattito che sappia e voglia includere tutte queste variabili è reso quasi impossibile da un contesto politico pesantemente polarizzato. La campagna referendaria già in corso renderà ancora più nette le posizioni (alla fine la scelta si riduce a un Sì o un No) e più diretti gli slogan, senza lasciare spazio a un ragionamento che prenda in considerazione le molteplici sfumature dell'argomento.

Non è detto che in assoluto – nel tempo dell'iperpolitica, come la definisce Anton Jager in un importante libro di prossima pubblicazione – questo sia lo scenario migliore possibile nel quale lavorare.

Arrivati a questo punto la posizione più convincente mi sembra quella espressa recentemente da Gaetano Azzariti su Il Manifesto. Serve immaginare la mobilitazione in corso come composta da un duplice movimento. Bloccare il peggio (il referendum agisce esclusivamente sull'abrogazione integrale della legge n°86/2024) preparando lo spazio per "costruire il meglio", che per Azzariti significa impegnarsi per la piena applicazione della carta costituzionale e su di essa poter edificare una diversa forma di federalismo dal carattere solidale e non competitivo, coesivo e non egoista. Una nuova stagione – aggiungo io – che si riconosce in una geografia territoriale ed europea e in un rinnovato spirito cooperativo/comunitario.

Questo significa che l’Autonomia va intesa come uno strumento utile alla costruzione di un sistema di governo in cui tutto il variegato ecosistema degli enti locali – indipendentemente dalla loro forza economica – possano contribuire al benessere collettivo, rafforzando la coesione sociale e garantendo diritti e opportunità, oltre che servizi di qualità, su tutto il territorio nazionale. In altre parole, l’Autonomia deve essere uno dei meccanismi istituzionali e culturali per rendere la cura della cosa pubblica e del bene comune davvero più prossima ai cittadini e cittadine in termini di equità e giustizia sociale, responsabilità condivisa e richiamo alla partecipazione diffusa.

Rimettere questo ambizioso obiettivo riformatore al centro della discussione in corso dovrebbe essere il contributo che un territorio come il nostro offre all'Italia intera. Sarebbe il modo più corretto e lungimirante di farsi carico della manutenzione dell'intuizione autonomistica degasperiana, raccogliendone il testimone e rigenerandone (con lo sguardo necessariamente rivolto a un futuro pieno di incognite, oggi quasi come al termine della seconda guerra mondiale) la carica profetica.

Lo si deve fare per e, soprattutto, con le comunità ci ricorderebbe lo statista di Pieve Tesino. Un esercizio di immaginazione e di costruzione di futuro che solo la Politica può assumersi. Se ne è ancora capace.

 

0 commenti all'articolo - torna indietro

il tuo nick name*
url la tua email (non verrà pubblicata)*