"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Collettivo di scrittura
Puy de Champanesio (CN), 5 - 8 settembre 2024
A quasi un anno dall'incontro di Marettimo, nel magnifico scenario di Puy de Champanesio, si è svolto nei primi giorni di settembre un nuovo incontro in presenza del Collettivo di scrittura nato intorno alla realizzazione e alle presentazioni del libro “Inverno liquido”.
La biodiversità delle terre alte alpine, i piccoli borghi abbandonati che stanno con fatica rinascendo, memoria materiale di saperi e di ingegno antichi, oggi coniugati con la sensibilità di conservare un patrimonio altrimenti destinato all'incuria e al degrado: questo sono Puy de Champanesio e gli altri insediamenti sui monti della Valle Varaita, in provincia di Cuneo.
Quindi un grande ringraziamento a Maurizio Dematteis per averci proposto questa scenografia, per la deliziosa ospitalità e per averci dato l'opportunità di incontrare tante belle persone impegnate nella rinascita di quei luoghi.
Sarà stata la magia del luogo o l'alchimia che talvolta si crea fra il pensiero e il vissuto delle persone, ma l'incontro del Collettivo di scrittura – malgrado la pioggia e le difficoltà di partecipazione – è stato molto proficuo. Tanto è vero che anche le persone che mano a mano ci hanno raggiunto (e che del Collettivo non conoscevano nemmeno l'esistenza), si connettevano con naturalezza alla nostra discussione, che ruotava nella mattinata del venerdì attorno ai temi dell'energia come bene comune e del futuro delle comunità delle terre alte e dei nuovi montanari.
Ad un certo punto la pur spaziosa cucina della baita di Maurizio non riusciva più a contenerci e persino i giovani cuochi ai quali avevamo chiesto di preparare il pranzo con i prodotti del territorio sono diventati parte del confronto che abbiamo dovuto interrompere intorno alle 13.30. E che abbiamo potuto riprendere a pomeriggio inoltrato sul terzo tema oggetto del nostro programma, quello delle nuove geografie, proseguito fino a tarda sera.
Insomma, un confronto intenso da indurci a rivedere l'indice delle nuove pubblicazioni a cui stiamo lavorando per dare seguito all'impegno di dar vita ad una vera e propria collana editoriale attorno all'impatto delle crisi sugli ecosistemi. Per il cui merito vi rimandiamo agli allegati.
Il sabato mattina l'abbiamo dedicato alla conoscenza della montagna intorno a Puy. Una passeggiata verso il Monviso fin oltre duemila metri di altitudine, oltrepassando la chiesetta della Madonna della Neve, mentre con Lorenzo e Gigliola ci siamo dedicati alla ricerca dei funghi, un raccolto abbastanza copioso che è bastato per il pranzo (mazze di tamburo impanate) come per la cena (polenta, finferli e porcini).
Nel pomeriggio, dopo un po' di relax, ci siamo invece interrogati sulle modalità di funzionamento del nostro collettivo. L'obiettivo è quello di trovare forme più partecipate e coinvolgenti.
Tre gruppi di scrittura hanno iniziato a lavorare su altrettante pubblicazioni, immaginando – almeno per i primi due (“l'energia come bene comune” e “le nuove comunità di montagna”) l'uscita nel corso del 2025, mentre per il terzo (“le nuove geografie”) l'obiettivo è di realizzare la stesura entro la fine del 2025 per uscire nel 2026. In questi gruppi sono coinvolte una dozzina di persone. Fermo restando che sarebbe opportuno si mettessero in moto anche gli altri gruppi di scrittura previsti.
Il confronto è avvenuto quindi su come il Collettivo nel suo insieme (parliamo di una trentina abbondante di persone con età, genere, storia e sensibilità diverse) possa riuscire a mantenere forme di scambio permanente e una connotazione culturale condivisa. E questo malgrado ambiti di impegno sociale, culturale e politico diversi. Senza perdere di vista il senso di scopo del Collettivo, quello di raccontare l'impatto delle crisi sugli ecosistemi.
E allora, oltre ai libri che possono diventare – come è accaduto per “Inverno liquido” – nel percorso di scrittura come nelle presentazioni, l'occasione per interagire con tante persone, quello dei “racconti ecosistemici”, rubriche che potrebbero dare un ritmo riconoscibile, attraverso la casa editrice “Derive Approdi” e la sua rivista “Machine” ma anche altre esperienze editoriali con cui ognuno di noi è in relazione.
Non dovendo costruire una “casa”, l'immagine che abbiamo evocato è quella del cuculo, il cui nido proprio non c'è, laddove la femmina deposita l'uovo nel nido di altri. Apolidi, liberi dall'ossessione dell'appartenenza, senza balaustra direbbe la Arendt, cerchiamo di immaginare lo spazio ecosistemico come approccio verso il nostro tempo, praticando così quel cambio di paradigma di cui da tempo andiamo parlando.
Oltre alle parole scritte, abbiamo sottolineato la forza del viaggio. La relazione con i luoghi e le persone dà uno spessore particolare alla conoscenza e non sarebbe male – oltre all'incontro annuale di seppur breve residenzialità – prevedere la realizzazione ogni anno di un viaggio formativo nel cuore di uno dei tanti limes che hanno a che fare con i nostri ambiti di ricerca.
Libri e rubriche, incontri e viaggi... caratterizzati da un segno comune. Altre idee sono le benvenute. A Puy de Champanesio si è parlato anche di possibili linee di finanziamento, che però non vorremmo ipotecassero l'informalità del Collettivo. (m.n.)
A seguire i tre allegati che raccontano del confronto avuto.
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Allegato n.1
Energia bene comune
A otto minuti dal sole.
(a cura di Alessandro Mengoli)
Alessandro Mengoli espone brevemente il documento che aveva postato come spunto di riflessione e che vorremmo portasse ad una visione comune nel Collettivo dei termini generali della transizione energetica e del riscaldamento globale, da cui partire per affrontare i temi specifici che il Gruppo di scrittura ha immaginato per la pubblicazione.
Il confronto è iniziato partendo dalle domande che si ponevano nel documento. In primo luogo abbiamo l’obbligo di dire la verità, senza nascondimenti o toni apocalittici, anche quando questa verità è dolorosa per una sinistra che si è fondata sulle magnifiche sorti e progressive dello sviluppo. A chi si rivolge il libro? A chi non si rivolge? La risposta più efficace detta è senz’altro quella di rivolgersi a chi vuole ascoltare. E quando si dice a chi è disposto ad ascoltarti si dice di cercare di uscire dall’orizzonte di quelli che già la pensano come te, per interloquire con la gran parte delle persone che le domande sul futuro nemmeno se le pongono ma anche con quelli che sono contrari ai tuoi ragionamenti, prendendo sul serio le loro obiezioni, misurandosi con le loro ragioni.
Si è poi sviluppata una discussione attorno ad alcuni nodi di fondo che il libro dovrebbe affrontare.
Si ripete sovente l’esortazione a cambiare stili di vita. Ma per cambiare stili di vita non serve un richiamo moralistico, occorre costruire una nuova cultura e il nostro contributo può essere quello di offrire storie. Per costruire un nuovo immaginario collettivo dobbiamo sforzarci di raccontare storie di esperimenti riusciti, di nuove relazioni all’interno delle quali prevalgono nuovi valori.
Ci rivolgiamo agli individui sapendo comunque che la responsabilità dell’impatto e la capacità di apportare un cambiamento è attualmente distribuita in modo molto diseguale, sia tra grandi holding e governi, sia tra le comunità e gli individui. Il cambiamento richiesto a tutti dovrà investire lo stile di vita e di consumo, che necessariamente avrà un impatto diverso fra le fasce più ricche e quelle più deboli della società.
C'è inoltre un altro ostacolo sempre di natura culturale al prendere corpo di una visione diversa della questione energetica. E' l'idea molta radicata dello Stato verticale, paternalistico e centralizzato, che si traduce in quest'ambito nel rapporto che abbiamo fatto nostro dell'energia come un servizio cui si accede tramite un interruttore e il pagamento della bolletta.
Sembra quasi che tutto quel che dell'energia non è immediatamente percepibile sia questione per addetti ai lavori. Rovesciare questo approccio e rapportarsi all'energia come ad un bene comune, come l'acqua, come un pascolo o come la foresta, potrebbe determinare un'attenzione diversa, non più legata – com'era almeno in parte avvenuto con il nucleare – alla paura. L'energia alla portata del singolo cittadino o di una piccola comunità può aprire un diverso orizzonte.
Per intercettare quello che sarà il dibattito del futuro presente, si è detto dell’importanza di recuperare la storia dell’energia. Ad iniziare da quella degli idrocarburi presenti nel paese, dalla vulnerabilità energetica sempre avvertita ma mai risolta in termini di approvvigionamento. Si dovrà ripercorrere la storia del nucleare dal tentativo partito dagli anni ’60 in Italia, alla forte opposizione incontrata, agli esiti di una tecnologia dismessa che ancora continua a gravare sulle casse dello Stato e che a distanza di 60 anni ancora non ha trovato una soluzione definitiva per lo stoccaggio delle scorie.
A questo approccio corrisponde una soluzione “classica” fatta di impianti centralizzati, di una produzione verticalizzata, di infrastrutture, di lunghi tempi di costruzione, di militarizzazione del territorio, con l’aggiunta delle incognite del decommissioning e delle scorie, e il corollario dei rischi sicurezza. E' qui che il nostro contributo potrà essere diverso: quello di mostrare, attraverso le comunità energetiche, una tecnologia disponibile, di facile e rapida realizzazione, di scarso impatto e rischi nulli, di costi certi. Messe a confronto le due opzioni, l’opzione fotovoltaico si mostra più accettabile dal punto di vista ambientale e democratico, da presentare come elemento di forza per sostenere l’opposizione delle comunità locali alla realizzazione di grosse centrali.
«In effetti, c’è molta energia sporca nel pianeta. Sporca, certo, per le troppe fonti fossili e non rinnovabili; ma anche sporcata dall’ingiustizia, da guerre che nascono e si alimentano dalla fame di energia; sporcata da rapporti di lavoro ingiusti, da concentrazioni di enormi profitti in poche mani, da ritmi di lavoro insostenibili che inquinano le relazioni aziendali e l’anima delle persone. L’energia buona non è soltanto una questione tecnologica: bisogna che la produzione e il consumo diventino sempre più equi e inclusivi. La sfida della inclusività, includere. In effetti, l’inclusione energetica, la democrazia energetica, è oggi una sfida a più dimensioni. Non si può essere cittadini sovrani se si resta sudditi energetici. Ecco perché merita di essere sostenuta e incoraggiata la diffusione delle comunità energetiche, quelle nuove espressioni di cittadinanza integrale e di democrazia che, con fatica, si stanno sviluppando anche in Italia. E questo è buono».
Questo è un estratto dal discorso di fine agosto che Papa Francesco ha tenuto ai dirigenti e dipendenti di Terna, la SpA che gestisce la rete elettrica, per rimarcare la lucidità con la quale Francesco parla del tema dell’energia.
L’energia buona non è soltanto una questione tecnologica, ed è questo uno degli aspetti toccati nella discussione nell'incontro del Collettivo. Smarcare le rinnovabili da una ristretta visione tecnologica che porta a pensare che l’energia rinnovabile sia buona di per sé, è una battaglia che alcuni di noi conducono da anni e che fatica ad essere recepita anche negli ambienti che si occupano di Comunità Energetiche, dai gruppi che si autorganizzano, dagli ambienti universitari, dalle amministrazioni locali.
… bisogna che la produzione e il consumo diventino sempre più equi e inclusivi e questo sta a fondamento della giustizia energetica, altro tema che va recepito. Perché la discussione è ferma alla lista delle buone intenzioni: la nuova figura di prosumer, la gestione condivisa, la povertà energetica. E questo è cosa dobbiamo fare, ma nessuno parla di come farlo. Uno dei compiti del libro sarà anche questo.
Insomma, diffondere in maniera giusta le comunità energetiche è buono: siamo arrivati in alto, abbiamo la benedizione del Santo Padre.
Nel confronto sono intervenuti: Maurizio Dematteis, Luca Serenthà, Michele Nardelli, Silvia Nejrotti.
Allegato n.2
Le nuove comunità montane
(a cura di Maurizio Dematteis)
Maurizio Dematteis introduce l’argomento proponendo queste considerazioni.
Oggi nelle poche aree montane in cui si assiste ad un aumento della popolazione, in linea di massima e salvo rarissime eccezioni, ci si trova in presenza di un tasso di crescita naturale negativo a fronte di tassi migratori positivi.
Le nuove comunità montane nascono dall’incontro, e tal volta dallo scontro, tra una componente locale, quelli che vengono definiti i “restanti”, che hanno continuato a sopravvivere in qualche modo nelle borgate di montagna o per necessità o per scelta, e l’arrivo di migranti “nazionali” o “internazionali”.
Questo cosa vuol dire? Che nei comuni di montagna in cui c’è forte dinamismo siamo anche in presenza di fenomeni di discontinuità, dove arrivano nuove figure di montanari che mettono in crisi la storica e rassicurante lettura novecentesca della contrapposizione tra comunità e società (Weber, ecc.), che vedeva la dicotomia tra una comunità montana mossa dall’interesse collettivo e una società cittadina mossa dall’interesse del singolo.
Come ci ricorda Arnaldo Bagnasco (1999), l’idealtipo comunitario si basa sull’idea di una solidarietà organica, cementata dal comune sentimento di appartenenza e dal prevalere dell’interesse collettivo sugli interessi dei singoli componenti. L’idealtipo della società moderna corrisponde invece a un aggregato di individui tenuti insieme da una solidarietà “meccanica”, orientata al perseguimento razionale degli interessi dei singoli. Il primo idealtipo si riferisce principalmente a comunità di luogo, relativamente chiuse entro spazi rurali di prossimità, mentre il secondo ha come principale referente la società urbana aperta al resto del mondo.
Orfani dell’ennesima rappresentazione novecentesca (citta-montagna/margine-centro ecc.) oggi assistiamo al crescere dell’interdipendenza e degli scambi tra la montagna rurale e le città (vedi la teoria metromontana), dove comunità e società non sono più in alternativa fra loro. Alberto Magnaghi ci spiegava come oggi sia possibile ricuperare i patrimoni identitari delle vecchie comunità nella progettazione di nuove comunità, intese come “società di persone che sanno e che possono mettere a fuoco interessi comuni, collaborando per trasformarli in azioni sul mondo”. Si tratta cioè di combinare certi valori che circolano nelle reti globali con quelli che si sono formati nell’interazione di lunga durata storica delle vecchie comunità con l’ambiente dei loro luoghi di vita. Ereditando questi luoghi e interagendo con essi, le neo-comunità di progetto potranno riprendere e continuare in forme nuove il processo co-evolutivo del passato, creando una sorta di meticciato che non dimentica quanto di buono può offrire il passato sedimentato in tradizione, ma nemmeno rigettano l’innovazione che su quei singoli territori oggi funziona.
Ma cosa spinge verso le nuove comunità montane meticce?
Fermo restando che le nuove comunità montane, come premesso, sono l’incontro del vecchio e del nuovo, un’alchimia che si viene a creare tra i cosiddetti “restanti” e i nuovi arrivati, proviamo ad analizzare quali sono le spinte della risalita a salmone (per citare Aldo Bonomi).
Una delle componenti che spinge il fenomeno migratorio verso la creazione delle nuove comunità montane, l’abbiamo detto, è l’aumento della consapevolezza di uno squilibrio dei rapporti tra uomo e ambiente nelle giovani generazioni. Ma ci sono anche altre spinte, in senso opposto rispetto a quelle dell’inurbamento che hanno caratterizzato il Secolo Breve che a questa si sommano. Spinte che con una piccola forzatura non priva di possibili dimenticanze, possiamo raccogliere in tre categorie:
- crisi del lavoro salariato/precariato/costi in aumento in città;
- bassa qualità della vita/possibilità di sviluppare nuovi mestieri;
- opportunità di potersi realizzare.
Chi sono gli artefici delle nuove comunità montane meticce?
Crisi del lavoro salariato/precariato/costi in aumento in città spingono i “montanari per forza” a cercare rifugio nelle aree di mezzo, quelle tra una città e l’altra, soprattutto collinari o montane, dove la vita costa meno ma ci sono ancora opportunità di lavoro.
Bassa qualità della vita/possibilità di sviluppare nuovi mestieri spingono invece i “montanari per scelta”, quelli con una forte coscienza ambientale e sociale che grazie alla tecnologia, alla riattualizzazione di vecchi mestieri legati al territorio o alle materie prime secondo nuovi parametri più sostenibili o grazie alla vera e propria invenzione di nuovi lavori legati al turismo, alle fonti di energia rinnovabili o alla valorizzazione dei servizi ecosistemici, riescono a portare avanti progetti di vita in montagna.
L’opportunità di potersi realizzare spinge infine una nuova categoria crescente verso le aree interne, i “montanari per un po’”, cioè quelli che pur sposando l’idea di “via dalla città” non sono disposti a sposare per sempre le sorti di un singolo nella buona e nella cattiva sorte, ma nonostante questo nei comuni montani ci vivono e si spendono, magari per anche solo per qualche anno (facendo la tesi di dottorato su progetti di sviluppo locale), oppure per alcuni mesi all’anno (facendo un doppio lavoro o lavorando in remoto), passando comunque una significativa parte della loro esistenza in montagna.
Categorie che si trovano ad interagire con quella dei “restanti”, e quando riescono a trovare un punto di equilibrio danno per l’appunto origine alle nuove comunità montane.
Come avviene la costruzione di nuove comunità montane meticce?
La costruzione delle nuove comunità in territori montani richiede innanzitutto il superamento della contrapposizione tra la montagna rurale e la città. Secondo i risultati di una recente ricerca realizzata dall’Associazione Dislivelli (Associazione Dislivelli, Servizi metromontani per le famiglie e le imprese delle terre alte”, 2024), chi oggi vuole andare o restare a vivere in montagna è attratto da stili di vita di tipo urbano, che richiedono l’accesso in tempi ragionevoli alle città vicine per fruire di servizi qualificati come quelli medico-ospedalieri specialistici, scuole superiori, teatri, cinema, centri commerciali, discoteche e quant’altro di desiderabile le città e le loro periferie offrono a chi vi risiede, comprese le opportunità di lavoro. Le nuove comunità montane possono quindi essere una valida alternativa agli agglomerati urbani solo se ai vantaggi dell’ambiente naturale e della vita comunitaria (seppur in discontinuità) si aggiunge la possibilità di partecipare alla vita delle città vicine.
Due considerazioni finali
- Le nuove comunità montane sono in linea di massima molto fragili, legate spesso a decisioni dei singoli e poco supportate dalle politiche locali. Forse questa osservazione si basa su concetti anche qui novecenteschi di comunità locale, radicata e duratura, mentre oggi potrebbero avere senso anche di fenomeni di “comunità per un po’”. Ma allora tutto questo come si può connettere con lo sviluppo locale di quel singolo luogo geografico?
- Le nuove comunità montane, salvo poche eccezioni, come si evince dai dati demografici, nascono prevalentemente nelle parti basse o medie delle valli o comunque nelle aree ben collegate con il resto dell’area metromontana. Questo vuol dire che sono un fenomeno positivo ma limitato a un’area definita della montagna stessa, mentre il restante territorio delle alte valli o delle diramazioni laterali rispetto all’asta valliva principale, in linea di massima e salvo rare eccezioni, è destinato a vedere un perdurare di uno spopolamento irreversibile, e a diventare un territorio di regola non più abitabile che dovrà essere gestito come un patrimonio soggetto a regole di conservazione e di trasformazione relative all’uso delle sue risorse energetiche, minerarie, idriche, forestali e dei suoi servizi ecosistemici, compresi quelli “culturali”, che comprendono quelli ricreativi, turistici e sportivi.
Alcune domande aperte
Il fenomeno migratorio verso i comuni montani – è evidente – non sembra essere del tutto casuale. E allora da cosa è dettato? Amministrazione illuminata? Bellezza del luogo? Clima? Opportunità lavorative? O cos’altro?
Nel momento in cui questi luoghi vengono ripopolati, pensiamo ad Ostana, o Gagliano Aterno o altri simili, quali sono gli elementi di discontinuità? E quelli in continuità?
Che peso hanno i “nuovi montanari” per scelta, per forza e per un po’?
Tra i montanari “per forza”, quanti vengono da paesi extracomunitari?
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Ne è seguito un ricchissimo confronto nel quale sono intervenuti: Luca Serenthà, Dino Matteodo, Cecco Dematteis, Michele Nardelli, Enrico Camanni, Lorenzo Berlendis, Bruno Morella, Arianna Di Paolo.
Riportiamo qui la sintesi di alcuni degli interventi.
Dino Matteodo (già sindaco di Frassino, comune della Valle Varaita) riconosce il fenomeno anche sul suo territorio ma sottolinea l’estrema fragilità di questi modelli. Che in Valle Varaita è comune a tutte le nascenti nuove comunità montane, e la sola che forse si può dire più forte è quella di Rore (che vedrà successivamente un testimone raccontarne la nascita, Cecco Dematteis).
Allargando la discussione Dino sottolinea la fragilità più generale del territorio montano, ormai rimasto orfano di qualsiasi strumento di governo, fatto salvo per i Comuni che però non sono in grado né di portare avanti progetti di pianificazione di area vasta, né di sedersi ai tavoli dei decisori come rappresentanti della montagna stessa perché troppo deboli.
Dino Matteodo ha ricordato le tappe storiche fondamentali del governo della montagna prima della Legge Delrio che ne ha sancito definitivamente la fine:
Nel 1945 la scrittura della Carta di Chivasso (in Piemonte) da parte di alcuni padri costituenti sull’opportunità dell’autonomia cantonale della montagna. Nel 1950 la nascita in Piemonte dei Consigli di Valle. Nel 1955 la nascita dei BIM (Bacini imbriferi montani). Nel 1977 il costituirsi delle Comunità montane.Nel 1994 l'approvazione della Legge Carlotto sulla Montagna seguita l'anno successivo dall'istituzione del Fondo per la montagna. Nello stesso anno (1995) arrivano sui territori i fondi dell'Unione Europea.
Dino Matteodo ha poi ricordato l’importante momento storico – erano gli anni '70 – in cui è nato e si è sviluppato nelle valli occitane il Movimento Autonomista Occitano, arrivando alle elezioni del 1979 in cui ottenne un risultato apprezzabile. Sostanzialmente il MAO rivendicava:
- l'autonomia e l'autogoverno delle valli alpine occitane;
- il riconoscimento dell’occitano come lingua;
- la proprietà delle risorse montane.
Di tutte le rivendicazioni ha ottenuto solo il riconoscimento della lingua, con la legge n. 482 del 1999 recante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche-storiche” che riconosce dodici minoranze: albanese, catalana, germanica, greca, slovena, croata, francese, franco-provenzale, friulana, ladina, occitana e sarda. Ma forse la cosa più importante è stata di aver acceso la speranza, di aver trasformato il paradigma del territorio montano perdente a territorio di valore.
Cecco Dematteis ha ricordato la storia della comunità di Rore (https://www.terreoltre.it/il-modello-valle-varaita/) e il lavoro realizzato attraverso lo strumento cooperativo nella manutenzione e nella ristrutturazione dei borghi e delle baite abbandonate.
Enrico Camanni concorda con la presentazione di Maurizio Dematteis ma sostiene ci siano un range di nuove comunità montane che vanno da quelle senza futuro come quelle che si sviluppano intorno ai modelli dello sci da discesa (vedi Cervinia) a quelle forzate come alcuni modelli che hanno guadagnato la ribalta ma che in realtà sono molto deboli e tenute in piedi a forza di contributi e altro. Propone di individuare quei modelli capaci di futuro e che coinvolgono oltre che i nuovi montanari anche i restanti sul luogo.
In un contesto di abbandono dei borghi di montagna potrebbe sembrare che la residenzialità costituisca un tema marginale. Ma non è così. Ce lo pone un giovane musicista di Melle che ci racconta di quanto sia difficile trovare casa nei comuni di montagna per chi come lui è venuto da fuori. Bisogna scendere nelle borgate più basse verso la pianura, altrimenti si trovano solo case da ristrutturare con 300 mila euro o seconde case che in genere non vengono affittate. Questo frena la nascita delle nuove comunità montane, che avrebbero invece una spinta dettata dalla città in cui ai giovani è stato rubato tutto e tutto continua ad essere ostaggio delle vecchie generazioni che non mollano.
Bruno Morella, giovane rifugista di Meira Paula sostiene che purtroppo anche nel suo ambito, il turismo dolce, non c’è attenzione da parte delle istituzioni che continuano invece a supportare e promuovere vecchi modelli legati al turismo di massa. Se si vogliono creare nuove comunità montane bisognerebbe cominciare dal fare delle scelte ed appoggiare le idee e le imprese capaci di futuro.
Allegato n.3
Ecosistemi e nuove geografie
Uno sguardo diverso sul nostro tempo
(a cura di Michele Nardelli)
«Se il mondo è una mappa (e soltanto perché il mondo è una mappa), destra e sinistra, occidente e oriente sono direzioni stabili e univoche, come per tutta l'epoca moderna in effetti sono state. Ma la globalizzazione, qualunque cosa con essa si voglia intendere, implica comunque e anzitutto la comprensione letterale del termine, e significa prima d'altro che non è più possibile contare, nel rapporto con la realtà, sulla potentissima mediazione cartografica che, riducendo ad un piano la sfera terrestre, ha fin qui permesso di evitare di fare i conti con la Terra così come essa davvero è, con il globo.
Ma se il mondo è un globo le direzioni non corrispondono più a relazioni fisse fra una parte e l'altra ma sono invece indicazioni mobili ed intercambiabili, a seconda di come si sposta il soggetto, che davanti alla carta resta immobile ma al cospetto del globo è invece costretto a muoversi.
Proprio perché questi conti non possiamo più rimandarli, dobbiamo allora urgentemente iniziare a reinventare la Terra stessa, attraverso altre logiche e altri modelli, anche se oggi è molto più difficile – come avrebbe detto Kant – “orientarsi nel pensare”: in nome di tutti gli esseri umani che tenendosi per mano continuano a girare in tondo e sono l'umanità»1.
Così il geografo Franco Farinelli descrive il passaggio d'epoca che nella globalizzazione l'umanità intera sta attraversando. Una sorta di nuova rivoluzione copernicana che dovrebbe indurci a riconsiderare le nostre categorie interpretative con le quali leggiamo il nostro tempo. Questo però non sta avvenendo o, meglio, avviene solo in ambiti marginali rispetto alle istituzioni pubbliche preposte al governo dei processi globali, evidenziando in questo modo un enorme ritardo nell'approccio verso le grandi crisi che investono la contemporaneità.
Non si tratta “solo” di re-immaginare la descrizione del mondo e nemmeno di ricalibrare la visione che ne abbiamo, sin qui dettata da logiche di supremazia come è stato dalla rappresentazione del cartografo fiammingo Mercatore (1569) in poi e parzialmente corretta solo nel 1973 da Arno Peters con una diversa proiezione fatta propria dalle Nazioni Unite. Come non è sufficiente rovesciare il pianeta, come viene talvolta proposto con buoni propositi, che pure ci aiuta a comprendere come anche solo un diverso posizionamento potrebbe indurci ad un altro racconto del pianeta.
“Reinventare la Terra” significa non solo riconsiderare le proporzioni delle vecchie geografie politiche attraverso le quali si giustificavano egemonie ed assetti di dominio. Significa rivedere gli strumenti interpretativi che informano il nostro racconto del mondo: come ebbe a scrivere tempo fa Ilvo Diamanti, servono nuove mappe per raccontare gli avvenimenti, atlanti per capire i processi in corso e bussole per sapersi orientare2.
Le geografie politiche sono sempre state mutevoli – pensiamo al fatto che in seguito alla caduta del muro di Berlino nella sola Europa sono scomparsi 4 paesi (DDR – Germania dell'est, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Unione Sovietica) e ne sono comparsi 22 di nuovi3 – ma oggi è la geografia fondata sugli stati detti sovrani ad essere in discussione per effetto dei processi messi in moto proprio dall'interdipendenza globale.
Peraltro, sarebbe tempo di riflettere sull'effetto avuto dal formarsi – recente, se ragioniamo sulla storia del pianeta – degli stati nazionali, sull'impatto che le guerre fra le “nazioni” e i nazionalismi hanno avuto nel corso degli ultimi due secoli e del Novecento in particolare, nel suo tragico primato di morti in guerra rispetto a tutti i secoli che l'anno preceduto.
La globalizzazione ha inoltre cancellato le stratificazioni geopolitiche con cui abbiamo letto il pianeta nel recente passato: nord e sud del mondo, sviluppo e sottosviluppo, paesi ricchi – paesi poveri – paesi in via di sviluppo. Sotto quest'ultima categoria, negli anni '60 del secolo scorso, venivano allineati paesi come la Cina, l'India e il Brasile, che dal terzo mondo sono passati ad essere vere e proprie tigri dello sviluppo. Dovremmo, ad esempio, riflettere sul fatto che gran parte della cooperazione internazionale viene declinata ancora oggi (e colpevolmente) in cooperazione allo sviluppo. Senza comprendere che ricchezza e povertà sono ormai a-geografiche e che anzi più un paese è ricco di materie prime più è a rischio di impoverimento. Per dire di come questo cambio prospettico riguarda anche i mondi della solidarietà e della vicinanza agli ultimi della Terra che, a ben vedere, albergano nelle nostre periferie o nel nostro condominio.
L'urgenza di ripensare il nostro sguardo investe anche le categorie e le istituzioni del diritto internazionale ferme a Carte invecchiate e rese obsolete tanto dai processi di cambiamento quanto dall'ipocrisia di chi – facendosene retorico paladino – ne ha fatto strame, come suggerisce Michel Serres, proponendo un umanesimo “narciso e povero di mondo”4. Laddove principi sovraordinati come autodeterminazione e sovranità si sono rivelati contraddittori e dove la loro applicazione è avvenuta secondo una doppia morale, quando in gioco erano gli interessi e l'operato dei potenti della terra. Mettendo in rilievo l'impellente necessità di quella Costituzione della Terra di cui ci ha recentemente parlato Luigi Ferrajoli5.
In sintonia con la linea editoriale della collana che “Derive Approdi” ci ha messo a disposizione – l'impatto delle crisi sugli ecosistemi – il terreno della nostra riflessione (e del libro che intendiamo proporre sulle nuove geografie) vorrebbe indagare le crisi epocali con le quali l'umanità si trova a dover fare i conti. Nella consapevolezza che nessuna di queste crisi – climatica, ambientale, sanitaria, alimentare, idrica, energetica, demografica, migratoria, bellica... oltre che economica e finanziaria – è più affrontabile nella scala degli stati-nazione ovvero delle vecchie geografie, richiedendo invece un approccio diverso, territoriale, sovranazionale e globale.
Ecco che l'approccio ecosistemico ci viene in aiuto: perché è questa la dimensione geografica che può aiutare ad andare oltre i nazionalismi ma che soprattutto ci propone una nuova chiave per abitare il nostro tempo, scevra dal primatismo, portatrice di un diverso rapporto fra esseri umani e natura. Capace di indicare identità plurime e meticce (si può essere contemporaneamente – per rimanere al mio modo di sentire – trentini, dolomitici, alpini, adriatici, danubiani, italiani, europei, mediterranei, cittadini del mondo e tante altre cose ancora), delle quali ciascuno di noi è espressione e portatore.
Gli ecosistemi come chiave per abitare il nostro tempo. E proprio da qui siamo partiti, in particolare dal recente incontro di Dosoledo (nel Comelico, provincia di Belluno) che aveva come oggetto “la Regione che non c'è” ovvero quella Dolomitica, divisa in cinque regioni oggi molto diverse anche sul piano dei riferimenti linguistici (italiano, tedesco, ladino oltre ai dialetti locali), storico-culturali, economici e amministrativi, nel tentativo di “mettere a terra” un diverso approccio ecosistemico, che ci possa aiutare a ridisegnare l'Europa. Quel pezzo di mondo che prende il nome dalla principessa figlia di Agenore, re di Tiro, città della Fenicia, che nasce dall'altra parte del Mediterraneo. In fondo non particolarmente diverso da quel “demanio planetario” di cui ci parla Ferrajoli.
Un approccio, quello ecosistemico, che già va profilandosi (ma purtroppo all'incontrario) in una postmodernità segnata dai poteri senza controlli del capitalismo finanziario, dalla fine del monopolio degli Stati nell'uso della violenza, dall'applicazione che verrà fatta dell'intelligenza artificiale, dalla criminalità economica globalizzata e, a pensarci bene, dal “terrapiattismo” e dalle altre forme esoteriche di dominio culturale.
Il libro, inoltre, si propone di mantenere lo schema narrativo che abbiamo già sperimentato con “Inverno liquido”, attraverso il racconto di “geografie scomparse” sotto l'incalzare dei nazionalismi ma che ci parlano di conflitti non elaborati che continuano ad incombere sul nostro presente (ogni proposta è benvenuta).
Su questo canovaccio abbiamo iniziato a confrontarci nel gruppo di scrittura dedicato, mentre nell'incontro di Puy de Champanesio ci siamo limitati ad esporre i titoli di un lavoro ancora solo abbozzato che, prevedibilmente, ci impegnerà negli ultimi mesi del 2024 e lungo tutto il 2025, con l'obiettivo di uscire (se ne saremo capaci) all'inizio del 2026. Un lavoro del quale – è stato rimarcato da tutti i presenti – non sfugge la complessità.
1 Franco Farinelli, L'invenzione della Terra. Sellerio, 2016
3Armenia, Azerbajan, Bielorussia, Bosnia Erzegovina, Repubblica Ceca, Croazia, Estonia, Georgia, Lettonia, Lituania, Macedonia del Nord, Moldavia, Montenegro, Russia, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Ukrajna. Ed inoltre Kosovo, Abkhazia, Ossezia del sud e Transnistria (quand'anche non riconosciuti dal diritto internazionale).
4Michel Serres, Il mancino zoppo. Bollati Boringhieri, 2016
5Luigi Ferrajoli, Per una Costituzione della Terra. Feltrinelli, 2022
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