"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Spero di far cosa gradita nel riportare il mio intervento in occasione del convegno “Terre Alte e Restanza. Buone idee e buone pratiche – L’esempio di Ostana” (Carbonare, 12 ottobre 2024)
di Michele Nardelli
Sono felice di essere qui. In primo luogo per l'argomento che stiamo affrontando, che ritengo di particolare attualità. E poi perché queste sono state e vorrei che continuassero ad essere occasioni di incontro generative, come lo è stato il convegno che svolgemmo proprio il 12 ottobre di cinque anni fa a Nosellari. In quella occasione incontrai Maurizio Dematteis con il quale nacque in seguito un sodalizio germinato in un libro come “Inverno liquido”, un lavoro a più mani che ha ispirato a sua volta la nascita di un “Collettivo di scrittura” per dar vita ad una Collana editoriale attorno al tema cruciale dell'impatto delle crisi sugli ecosistemi. In un passaggio di tempo segnato dall'incertezza e spesso dallo smarrimento si delineano così linee di pensiero, sintonie di azione e reti di persone che ci aiutano ad essere meno soli nella crisi dei corpi intermedi.
Grazie a questo Collettivo che coinvolge persone dalle Alpi alla Sicilia, sin qui riunitesi prevalentemente da remoto pur non rinunciando al piacere di incontrarsi in presenza come è avvenuto nel 2023 a Marettimo (Isole Egadi) e quest'anno a Puy de Champanesio (Val Varaita, Piemonte), sono oggi in gestazione tre nuove produzioni editoriali, affidate ad altrettanti gruppi di scrittura: l'energia come bene comune, il valore culturale delle comunità energetiche; le nuove geografie, fondate sugli ecosistemi; le nuove comunità montane, che nascono dall'incontro fra restanti e migranti.
La tesi di quest'ultimo lavoro1 la potremmo sintetizzare così: la rinascita delle terre alte come esito dell'incontro fra restanti e arrivanti o, meglio, fra chi decide di rimanere e i nuovi abitanti che immaginano nelle terre alte il loro futuro. Dove per nuovi abitanti si può intendere una vasta gamma di tipologie di mobilità, interna o con altri paesi, per periodi di tempo o per stagioni della vita, per alternanza fra studio e lavoro... o altro ancora.
E qui si apre una prima considerazione. Se ci pensiamo un attimo, ciascuno di noi è l'esito di arrivi e partenze, di migrazioni che hanno segnato la storia, la cultura, gli idiomi, la toponomastica dei luoghi, l'architettura, i saperi dei territori. Per rimanere al Trentino, la nostra è sempre stata terra di confine e di attraversamento e i segni li possiamo trovare nel racconto materiale delle nostre comunità e talvolta vedere ancora nitidamente, come nel quartiere “Turchia” di Moena, nelle forme architettoniche a Zortea nel Vanoi, nelle case del lungo Leno a Rovereto, per non parlare delle valli dove si parlano il cimbro, il ladino o il tedesco. E come non ricordare che negli insediamenti militari dell'impero asburgico il diritto di culto garantito dalla natura plurinazionale e multireligiosa vedeva la presenza di piccole moschee, a Ziano di Fiemme come a nord di Trento.
Tornando alla tesi del nostro nuovo lavoro editoriale (che poi è al fondamento dell'incontro di oggi), la montagna ha conosciuto nella nostra penisola decenni di abbandono. In particolare nel secondo dopoguerra con i processi di industrializzazione e di crescente inurbamento, lo spopolamento delle terre alte ha investito intere regioni alpine e appenniniche.
Nelle scorse settimane eravamo in Val Varaita, parallela alla Val Po di cui ci ha parlato nel suo intervento il sindaco di Ostana Giacomo Lombardo, per riflettere sulle nuove comunità montane a fronte di chi decide faticosamente di restare, ma anche di chi sceglie di ritornare o di vedere nelle terre alte l'opportunità di nuove professioni e di una migliore qualità della vita.
Nelle valli occitane l'abbandono è iniziato prima della rivoluzione della plastica, della formica e dell'alluminio lasciando i nuclei storici che oggi arrivano a noi nella loro bellezza di pietra a vista e di legno massiccio. Ma a fronte di un abbandono ancora presente, questi nuclei da qualche anno conoscono forme di restauro conservativo a tutela di un patrimonio di straordinaria bellezza. Ne abbiamo parlato con Dino Matteodo, per molti anni esponente di primo piano del Movimento Autonomista Occitano, con Cecco Dematteis, che fu tra i promotori di una cooperativa di comunità per favorire la restanza e il restauro, con Enrico Camanni, giornalista e scrittore di montagna e con un folto gruppo di giovani che hanno scelto di darsi una nuova possibilità per loro e per i loro figli.
Anche il Trentino è stato per tanto tempo terra di emigrazione. Pensiamo solo al fatto che nei quarant'anni che precedettero la prima guerra mondiale, per effetto di povertà, precarietà di vita, alluvioni e carestie se ne andarono più di un terzo della popolazione maschile in età da lavoro. Come se non bastasse il Trentino divenne teatro di guerra, una prima linea che determinò esodi di intere comunità sfollate da una parte o dall'altra del confine, uno scenario che proseguì con le opzioni e la seconda guerra mondiale e fino agli anni '70, tanto che ancora nel 1975 emigravano dal Trentino più di 1.500 persone ogni anno.
Le cose cambiarono solo con gli effetti dovuti all'approvazione del secondo Statuto di Autonomia (1972) ma anche qui, e mi riferisco anche a comunità come quelle dell'Altopiano, si è conosciuta la fatica del restare.
Gli amici dell'associazione #ioResto di Crotone ci hanno raccontato del loro incontro con lo storico e scrittore Vito Teti, divenuto membro onorario del loro sodalizio. Proprio in un suo libro di qualche anno fa dal titolo “Quel che resta”2, scrive: «La scelta dell'abbandono produce sempre uno scarto. La fuoriuscita non è mai pulita, netta, senza attriti. L'abbandono è un'esplosione, una detonazione lenta che frammenta, frattura, disintegra, incenerisce. L'abbandono pone in questione la struttura del mondo che si lascia; mette in tensione le relazioni; modifica la densità dei luoghi, cambia la morfologia dell'abitato e degli spazi; il loro aspetto formale e i loro usi. Soprattutto, qualcuno resta. Gli abitanti dei paesi calabresi dell'interno si aggirano come ombre e fantasmi in attesa del peggio. Gli ultimi abitanti che resistono sono spaesati nei paesi, esuli in patria, stranieri a loro stessi».
In Trentino la situazione è oggi migliore che non altrove, ma i nodi del rapporto fra urbanità e montagna vengono a galla, sia come effetto problematico laddove prevalgono le monoculture, dall'industria dello sci all'agricoltura intensiva, sia come necessità di garantire condizioni di vita favorevoli alla costruzione di comunità (obbligo scolastico, opportunità formative, sanità e servizi).
E arriviamo così al punto cruciale. Occorre un “patto per la montagna”.
In primo luogo, un patto sociale. Chi sceglie di restare e chi intende arrivare/ritornare sono persone con caratteristiche anagrafiche, culturali, indici di scolarità, famigliari diversi... portatori di esigenze nuove ma anche di resistenza al cambiamento.
Come sappiamo, il tasso di crescita naturale nel contesto occidentale è oggi negativo. Eppure il pianeta ha raggiunto soglie di crescita demografica mai raggiunte nella sua storia, pressoché esponenziali se pensiamo che un secolo fa il genere umano non raggiungeva i 2 miliardi e che nel 2022 abbiamo superato la soglia degli 8 miliardi. Nelle Terre alte questa contraddizione è ancora più evidente, per effetto di un inurbamento che porta al formarsi di megalopoli dove la qualità del vivere è per la quasi totalità delle persone sempre più precaria.
Un'inversione di questa tendenza e nuovo equilibrio si possono realizzare, in particolare a favore delle aree montane, nell'incontro fra “restanti” e “arrivanti”, un incontro ri-generativo delle nostre comunità montane fatto di ascolto e di reciprocità, insomma di solidarietà.
Un patto che diviene culturale. Che mette in crisi la lettura novecentesca, laddove le comunità di luogo erano sinonimo di interesse collettivo ma chiuso e le società urbane nelle quali prevaleva la dimensione individuale ma aperta ad una dimensione culturale di natura cosmopolita. Ma comunità e società non sono concetti alternativi: ecco che il patto per la montagna diviene comunità di progetto, come interazione con l'urgenza di un diverso rapporto fra genere umano e ambiente indotto dalla crisi climatica, dalla nascita di nuove forme economiche e nuovi mestieri, dall'insostenibilità di un vivere urbano dove ogni relazione è condizionata da una dimensione mercantile.
Tutto questo, per realizzarsi, richiede un patto politico. Perché un nuovo punto di equilibrio è possibile se tanto chi rimane, quanto chi arriva può riuscire ad intravedere un favorevole progetto di vita. Che richiede la presenza di servizi essenziali alla persona, dall'infanzia alla salute, dalla scuola ai trasporti; di reti in grado di garantire forme di collegamento con un mondo sempre più globalizzato, dalla casa a un nuovo assetto territoriale che possa permettere il riuso del patrimonio urbanistico (riordino fondiario) e della terra. E politiche che favoriscano forme di aggregazione comunitaria.
Per questo occorrono politiche per la montagna, investimenti ma anche ripensare una dimensione turistica che valorizzi le caratteristiche del territorio evitando, come dicevamo, di piegarsi all'omologazione delle monoculture. E serve un cambiamento di approccio, un nuovo paradigma in grado di riassumere tutto questo: si chiama cultura del limite. Quel senso della misura che le società rurali ben conoscevano e che spesso abbiamo smarrito nel delirio della crescita senza limiti. Quella bellezza del limite che ci riporta ad un diverso e rispettoso rapporto con la natura di cui, peraltro, siamo un'infinitesima parte.
1 Nel gruppo di scrittura ci stanno lavorando in particolare Maurizio Dematteis, Rita Salvatore, Luca Serenthà e Tonino Perna.
2Vito Teti, Quel che resta, L'Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni. Donzelli, 2017
3 commenti all'articolo - torna indietro