"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Ferdinando Cotugno *
«Mugugnare», verbo intransitivo, derivato da mugugno – «brontolare, bofonchiare, borbottare per scontentezza, senza profondo e grave risentimento». Questa è la definizione della Treccani, tienila a mente, ci tornerà utile.
Quattro anni fa, per le vie di Glasgow, durante le due settimane di COP26, sfilarono centomila persone sotto il temporale. Molti erano arrivati in treno, attraversando l'Europa, c'era chi era arrivato dagli angoli più remoti del mondo, tutti portando con sé rabbia, inquietudine, ma anche speranza.
Tutti condividevano l'idea che ciò che accadeva nella conferenza ONU sul clima fosse rilevante, che meritasse attenzione. In fondo, anche la rabbia è una forma di attenzione. Tutto questo era tre autocrazie fa.
A Glasgow, apprendemmo che la COP successiva si sarebbe tenuta in Egitto, e quella dopo ancora a Dubai, luoghi dove tutto questo non sarebbe stato possibile: niente cortei oceanici, solo sorveglianza e repressione. L'unico spazio per manifestare in modo sicuro e libero da allora è stato all'interno delle COP, che sono suolo concesso alla sovranità delle Nazioni Unite per la durata dell'evento e amministrato dalla sua agenzia per il clima, il segretariato di UNFCCC.
Nonostante la segregazione rispetto al contesto e il fatto che solo gli accreditati potessero manifestare, le proteste erano intense, commoventi, urlate. In Egitto, ai manifestanti si unì anche Mona Seif, la sorella di Alaa Abd El-Fattah, il prigioniero politico più famoso del paese, sigillando l'alleanza tra i movimenti per il clima del Nord globale e le battaglie per la libertà politica nei regimi del Sud globale.
In nessun altro contesto come nelle COP le proteste sono così strutturali per la riuscita finale. Questa non è la conferenza dei paesi, ma la conferenza delle parti, cioè dei paesi più altri soggetti chiamati a partecipare al processo di lotta ai cambiamenti climatici: sindacati, scienza, popoli indigeni, società civile.
Non solo alle COP si protesta (fuori e, negli ultimi due anni, anche dentro), ma protestare è un ingranaggio fondamentale del negoziato, che per andare avanti deve avvertire la pressione esterna della società civile.
Il sabato della prima settimana, di solito, è il giorno delle manifestazioni, grandi o piccole che siano. Quindi oggi era il giorno della verità per la libertà politica a COP29. Per la libertà politica, o quel poco che ne rimane alle COP.
Questo è il sesto giorno della COP29. Il più triste, il più importante, il più complesso da raccontare. Cominciamo.
(Ah, l'Italia oggi ha vinto il Fossil of the Day, il premio ironico assegnato al paese più compromesso con i combustibili fossili. Che dire. Sono soddisfazioni).
E quindi abbiamo mugugnato
Da quando le COP sono ospitate dalle autocrazie e ogni protesta può svolgersi solo al loro interno, siamo venuti a conoscenza del rigido cerimoniale messo in piedi dall'UNFCCC per le manifestazioni: bisogna registrarsi, prenotare, chiedere l'autorizzazione, e si ottiene uno slot orario per palesarsi in una specie di piccolo recinto all'ingresso, dove si può fare quello che è il cosplay di una protesta, la sua rarefazione più estrema. Ci sono rigide regole sul nominare singoli paesi e singole aziende, e alla fine dell'ora prestabilita ci si ritira in ordine.
Poi, il sabato, c'è la possibilità di replicare all'interno della sede della COP la grande manifestazione che solitamente si svolge all'esterno, per le vie della città. Qui a Baku, come a Dubai o Sharm el-Sheikh, di fare un corteo pubblico non se ne parla nemmeno, ma quest'anno a Baku non è stato consentito nemmeno il corteo all'interno della COP.
La motivazione? Lo spazio è troppo stretto.
L'Azerbaijan, forse non casualmente, ha scelto di organizzare la conferenza sul clima in uno spazio completamente chiuso, dove non si vede mai la luce del sole. La COP ha come venue lo stadio olimpico di Baku, ma in realtà non stiamo dentro lo stadio: siamo in una serie di capannoni intorno allo stadio, collegati da corridoi stretti. Uno spazio non sicuro per tenere un corteo vero e proprio, che non è stato concesso.
E quindi, «come e dove manifestiamo?», si sono chiesti i rappresentanti delle organizzazioni ambientaliste. Il primo compromesso è stato concedere loro una sala plenaria, la Caspian, la meno ufficiale delle due di questa COP. Anche lì dentro per loro c'era solo uno spazio dietro un cordone, con un piccolo podio e poche centinaia di persone, a protestare contro le ingerenze degli interessi privati, per la giustizia climatica, le solite, necessarie cose. Questa sala non era aperta ai destinatari di questi messaggi, cioè i delegati, e c'erano regole rigide e un po' bizantine anche per l'accesso della stampa. Era una protesta praticamente nascosta.
Così hanno chiesto di uscire, per poter avere un impatto, seppur minimo, sulla COP29. Gli è stato negato. C'è stata una trattativa con l'UNFCCC, che ha mostrato una flessibilità tale da far rimpiangere la Digos. La pretesa degli organizzatori è stata: non potete urlare, non potete dire niente ad alta voce, perché siete troppi e disturbate. Il che sarebbe, in fondo, lo scopo di una manifestazione.
E così il punto di caduta della trattativa è stato: potete disporvi in silenzio, schioccare le dita e mugugnare a bocca chiusa quello che avreste urlato e cantato. Insomma, è venuto fuori una via di mezzo tra Beckett, Ionesco e Orwell. I manifestanti si sono disposti nei corridoi, si sono seduti per terra e hanno fatto ciò che gli è stato concesso: hanno schioccato le dita e mugugnato gli slogan che un tempo avrebbero potuto almeno cantare.
È stato un lungo cammino da Glasgow 2021, quando quella manifestazione sembrava (e forse era) il picco di una di quelle forze storiche che determinano l'umore delle epoche. Il movimento per il clima è stato quella cosa lì, enorme e potente. Non lo sapevamo, non ce ne rendevamo conto, ma Glasgow è stata l'ultimo grande capitolo di quella storia, almeno per quanto riguarda il rapporto tra movimento climatico e COP. Chissà cosa avremmo fatto, se lo avessimo saputo.
Le COP sono diventate così rilevanti anche per quell'aspettativa e quell'accompagnamento. Poi, in una sinistra metafora della siccità, l'invaso della partecipazione si è prosciugato sempre di più, per i costi esorbitanti del seguire questi eventi (questo è un posto dove nutrirsi costa quanto un ristorante a Singapore), per la riduzione degli spazi democratici, per la paura che si respira intorno alle COP. E così, arriviamo alla scena di oggi: triste, ma anche potente. Gli ultimi rimasti dei centomila di Glasgow, ai quali è stato lasciato solo questo: schioccare le dita e mugugnare quelli che solo tre anni fa erano slogan in bocca a centinaia di migliaia di persone.
Impossibile non notare una serie di cose. La prima è la voragine di potere che si è aperta in uno spazio politico nato per cercare di ricucire il divario tra inquinatori e inquinati. Il Guardian ha scritto che la presidenza ha steso il red carpet ai lobbisti più illustri, gli amministratori delegati del mondo oil & gas (tra cui Descalzi di Eni). Sarà anche legittimo comportarsi come se petrolio e gas fossero doni di Dio; per qualcuno certamente lo sono.
Il problema è che oggi è stata negata anche la possibilità di dire la cosa opposta, nell'unico modo in cui avrebbe avuto impatto: in un gruppo organizzato di persone che la urlano tutti insieme, perché la politica è anche questo. La seconda considerazione è la continuità tra il bavaglio imposto dall'ONU ai movimenti e la repressione che vediamo in Italia, in Europa e in generale nelle democrazie. Fanno parte dello stesso accerchiamento alle ragioni dell'ecologia. La terza è che questo tipo di restrizioni legittimano la sfiducia, la stanchezza, la frustrazione nei confronti di un processo al quale si fa sempre più fatica a credere.
Quello di oggi è un precipizio a cui siamo aggrappati. Per questo motivo, sono felice che a Roma ci sia il Climate pride, grazie a chi è andato. Non dobbiamo abbassare l'interesse intorno alla COP. Action Aid e gli Stati Generali dell'Azione per il Clima hanno lanciato questa campagna su Instagram che mi sembra importante e utile. Condividila, se puoi.
«Net zero è stato forse il singolo concetto più importante nella storia della scienza del clima», spiega Giacomo Grassi, uno dei massimi esperti al mondo del rapporto tra foreste e clima e membro senior dell'IPCC, il gruppo intergovernativo fondato dall'ONU nel 1988 per sistematizzare la scienza della crisi e metterla a disposizione della politica.
L'idea di fondo dietro il successo del concetto di net zero è che non tutte le emissioni potranno essere azzerate, ma se raggiungeremo in tempo utile un equilibrio tra una massiccia riduzione delle emissioni di carbonio e gli assorbimenti da parte di foreste, oceani e suoli, potremo ugualmente stabilizzare il clima e contenere l'aumento delle temperature.
Tutto l'accordo di Parigi si basa su questa idea, secondo cui correggere la traiettoria climatica è una questione algebrica di sottrazioni e addizioni, tra riduzione delle emissioni e assorbimenti naturali. La riduzione delle emissioni è una scienza piuttosto esatta, poiché si fonda sul misurare gli effetti di tecnologie umane. Grassi, però, ha da tempo segnalato una discrepanza nei conteggi sui quali ci affidiamo per calcolare l'altra parte del calcolo, gli assorbimenti, che sono invece più complessi perché dipendono dalle dinamiche degli ecosistemi naturali. Se questa discrepanza non verrà corretta in tempo, rischia di far deragliare i nostri sforzi di decarbonizzazione.
La questione è stata sollevata durante la COP29 in un evento molto seguito organizzato dall'IPCC, introdotto dal capo dell'organismo scientifico ONU Jim Skea, segno dell'attenzione che la comunità scientifica sta prestando a questo tema.
Skea l'ha definita la «Grassi issue» («problema Grassi»), dal nome dello scienziato che per primo l'ha segnalata. Il punto di partenza è che esistono diversi modi per calcolare gli assorbimenti di carbonio da parte degli ecosistemi naturali. I nostri obiettivi climatici sono stati fissati in base ai calcoli dei modelli computerizzati su vasta scala, che considerano la Terra nella sua interezza, mentre i progressi climatici verso quell'obiettivo vengono misurati paese per paese, secondo i metodi dei singoli inventari forestali nazionali, compilati tramite osservazioni sul campo, con una grande variabilità di metodologie locali.
I due sistemi, quello con cui ci siamo dati gli obiettivi climatici e quello con cui li misuriamo, danno risultati diversi. Spesso, molto diversi. Tra i due conteggi ci sono differenze che vanno dai 5 ai 7 miliardi di tonnellate di CO2 all'anno, circa il 10 per cento del totale delle emissioni che dobbiamo azzerare.
Come spiega Grassi, «in questo caso non si tratta di incertezza scientifica, non c'è un metodo giusto e uno sbagliato per fare queste misurazioni, è semplicemente come calcolare la distanza dalla destinazione in chilometri o in miglia. Sono entrambe misure corrette, dovremmo solo metterci d'accordo su quale delle due seguire». Il problema è che la destinazione finale di questo percorso, l'unica cosa che conta, è la stabilizzazione del clima, e aver seguito nello stesso tempo due metodi diversi, confrontando scale di misurazione differenti, ci ha portato a una serie di discrepanze di calcolo che rischiano di compromettere il raggiungimento degli obiettivi dell'accordo di Parigi.
Lunedì sarà pubblicata su Nature una ricerca che parte proprio da queste premesse, e che chiederà di ripensare dalle basi il concetto di net zero. La cosa interessante è che la ricerca è stata firmata da alcuni degli stessi scienziati che vent'anni fa hanno ideato il concetto di net zero. Secondo questa armonizzazione dei calcoli, potremmo scoprire di avere un budget di carbonio – cioè una quota di CO2 che possiamo ancora emettere – inferiore a quella che pensavamo di avere.
Cosa fare, a questo punto? «La strada è andare oltre l'idea di net zero, che potrebbe non bastare per stabilizzare il clima, e puntare ad arrivare a emissioni negative».
Le implicazioni di queste ricerche sono enormi, dal momento che da un lato già facciamo fatica a ridurre le emissioni per arrivare a net zero entro metà secolo, dall'altro scopriamo che nemmeno il net zero potrebbe bastare per stabilizzare il clima.
Al momento questa correzione non è ancora entrata nella conoscenza ufficiale del clima da sottoporre ai decisori politici, ma l'IPCC farà queste valutazioni in vista del suo settimo rapporto, che è previsto però solo nel 2029. Entro quell'anno si tenterà di implementare metodologie che uniscano i modelli e gli inventari, per arrivare a una sola misura.
Domani la COP29 è chiusa, serrata, bloccata, e per giuste ragioni: delegati, osservatori, lobbisti e giornalisti si riposano. Areale dalla COP tornerà nella tua posta lunedì sera, per la seconda settimana di lavori.
Grazie per tutto, buona domenica.
* da Areale, newsletter settimanale di Domani.
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