"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Giorgio Cavallo
(27 gennaio 2025) Sta rapidamente scemando l’interesse della pubblica opinione per il caso del generale libico ricercato dalla Corte Penale internazionale e riportato in patria dal governo italiano con un volo dedicato.
In uno stato di diritto come riteniamo sia l’Italia, ma anche in altre democrazie come ad es. Israele, siamo ormai abituati, quando serve qualcosa di particolare in termini di interpretazione di comportamenti “disumani”, a produrre normative che lo permettano. Sarà poi il sistema giudiziario e la verifica costituzionale a impedirne l’applicazione qualora si superino determinati limiti. In Italia il continuo tira e molla della legislazione (e della stessa regolamentazione) in materia di immigrazione ne è un esempio palese. Nessuno può mettere in dubbio che trasportare migranti in un porto lontano dall’area di ritrovamento è un atto “criminale” poiché diminuisce la quantità di ulteriori salvataggi di emergenza, ma fintanto che la norma non è contestata da una qualche magistratura abilitata, un dipendente pubblico pare costretto ad applicarla. E nessuno dubita che la norma esista (e probabilmente sia “valida”) perché c’è un popolo che democraticamente la sostiene in un quadro dove la “lotta alla immigrazione”, formalmente a quella clandestina ma di fatto in tutti i possibili campi di applicazione, è un elemento “identitario” della maggioranza eletta che governa l’Italia.
Analogo ragionamento può essere fatto in rapporto al comportamento dello stato di Israele nei confronti dei Palestinesi, sia che si tratti degli interventi dei coloni nella Cisgiordania, sia che riguardi le azioni militari di risposta (e di “certificazione” del nemico riconosciuto) al terrorismo di Hamas. Nello spazio del diritto israeliano le azioni che in molti nel mondo giudicano perlomeno “crimini di guerra” sono legittimate dalla normativa e contemporaneamente ricevono un sostegno popolare fortemente maggioritario. Anche in questo caso il diritto internazionale, qualora venga evocato da qualche corte, non trova sostegno reale per la sua applicazione.
Tra “interesse nazionale” e “ragione di stato”
La questione del generale Al-Masri è leggermente diversa, anche se va comunque inquadrata nel sostegno popolare in Italia alle azioni di contrasto della immigrazione. Si tratta di un caso di palese infrazione del sistema giuridico italiano nella sua interconnessione riconosciuta con uno strumento di gestione di un diritto internazionale attraverso la Corte penale internazionale. La decisione di liberare il generale è stata rapida e sicuramente non presa a cuor leggero. E’ stata una decisione prettamente politica alla cui base c’è una convinzione molto spesso richiamata dal Presidente del Consiglio: la guida “dell’interesse nazionale” quale riferimento supremo per la fatica di governo. La conferenza stampa di fine anno lo ha evidenziato chiaramente nell’ambito di una continua narrazione letteraria personale legata alla supremazia del concetto di “nazione”. Meloni non interpreta gli interessi dello “stato repubblicano” ma quelli della “nazione italiana”.
Per la verità nel caso in questione il governo ha finora evitato di giustificare la propria azione se non rivendicandone la correttezza amministrativa. Ma la cosa è talmente grossolana che sembra una dichiarazione del tipo: “l’abbiamo dovuto fare per evitare guai peggiori a voi italiani. Quindi abbiamo agito nell’interesse nazionale, non solo per una ragione di scorrettezza della procedura”.
Si tratta di due cose profondamente diverse, proprio se vengono declinate in rapporto alla questione Al-Masri. Lo Stato era in dovere di rispettare le proprie leggi trovando magari all’interno di queste gli strumenti per ammorbidire gli effetti internazionali di una azione considerata pericolosa per le reazioni libiche, mentre la palese scelta di prevenire il rischio di ricatto non ha fatto altro che dimostrare una debolezza intrinseca che nessuna foto di Giorgia accanto a Donald può nascondere.
Ma in cosa consiste “l’interesse nazionale” in questa vicenda. Può darsi che abbiano pesato la paura di rivelazioni compromettenti, o magari interessi legati a rapporti energetici o a interessi nella ricostruzione delle Libie contese, ma l'evidenza principale sta nella paura di doversi confrontare con una crisi migratoria e con la messa in discussione delle attuali politiche. In realtà quindi l’interesse nazionale appare soprattutto un interesse “politico” di gestione del consenso.
Per la verità nella storia della Repubblica democratica in molte situazioni i governi hanno applicato la “ragione di stato” nella gestione di particolari avvenimenti, di fatto secretandone le motivazioni. Andreotti in particolare è ancora oggi spesso interpretato come custode inviolato di molti segreti di stato, politica estera medio-orientale in primis. Forse il caso di Cecilia Sala potrebbe essere inquadrato secondo questa prospettiva. Ma non così la palese distruzione di uno spazio di diritto internazionale come la questione Al-Masri, dove la prevalenza dell’interesse politico interno appare evidente.
Ne nasce una considerazione di fondo che riguarda proprio la natura del dibattito politico, anche se purtroppo in Italia la confusione interpretativa dei termini “nazione” e “stato” è palese e riguarda un arco politico quasi generale. Parlare di interesse nazionale, come orgogliosamente fa Giorgia Meloni, significa oggi entrare in un terreno pericoloso per la democrazia proprio perché fondare l’azione politica su un valore ideale mutevole quale è la “nazione” rischia di estromettere le basi del concetto di stato repubblicano fondato sulla interpretazione del diritto costituzionale.
Ne nasce così una visione di sovranità che va oltre lo stesso sistema giuridico esistente ed è una partita persa in un mondo dove le interconnessioni e le relazioni regolate dovrebbero determinare i fondamenti della convivenza.
In questo orizzonte retrotopico c’è solo la ricerca di supremazie imperiali e la ragione della forza. E’ evidente che in questa prospettiva nulla ci impedisce di pensare alla riconquista della Tripolitania, se non il rischio della sconfitta militare. Per ora ci si può accontentare della amicizia di Trump e di Bin Salman, ma bisognerà prima o poi dimostrare di non essere solo una “baby gang”.
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