«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»<br/> Manifesto di Ventotene
Simone Malavolti
«Nazionalismi e “pulizia etnica” in Bosnia Erzegovina – Prijedor (1990 – 1995)»
Pacini Editore, 2024
«Nazionalismi e “pulizia etnica” in Bosnia Erzegovina – Prijedor (1990 – 1995)» è un libro di grande valore. Un lavoro rigoroso e raro, per la ricerca delle fonti e per l'accuratezza della ricostruzione di un passaggio storico manipolato dalla propaganda nazionalista e da narrazioni separate.
Scavare dentro i conflitti e le guerre non è mai un compito facile, richiede di prendersi una distanza anche emotiva dagli avvenimenti e dalla logica manichea che tende ad identificarsi con una parte. Questo non significa non saper distinguere fra aggressori ed aggrediti, senza però mai dimenticare che la guerra (come la sua fine, chiamata frettolosamente pace) non è mai giusta. In questo scavare dentro i conflitti (e le parole), con Mauro Cereghini parlammo di “equiprossimità”, il riconoscere la tragedia delle vittime a prescindere dalla loro appartenenza nazionale, religiosa o etnica1. A questo compito Simone Malavolti offre un contributo significativo, uno studio di caso per raccontare come sono andate le cose in una delle aree più segnate dalla “pulizia etnica” nella guerra dei dieci anni che ha segnato l'Europa alla fine del secolo scorso.
Per chi ha vissuto quella tragedia in prima persona, questo libro rappresenta una forma di risarcimento, nel riconoscimento del dolore delle vittime ma anche verso chi – a prescindere dalla propria appartenenza – si è opposto al delirio nazionalistico. Anche per questo, richiederebbe di venir tradotto in serbo-croato-bosniaco e presentato nei territori che facevano parte della Jugoslavia. Cosa non facile, se consideriamo che ancor oggi, a distanza di trent'anni dagli avvenimenti raccontati nel libro di Malavolti, ci sono aree nelle quali le autorità locali tendono a boicottare ogni narrazione diversa da quella ufficiale, ovvero quella di chi ha “vinto” nella separazione etnica della Bosnia Erzegovina. Ne sanno qualcosa quei pochi intellettuali che coraggiosamente hanno “tradito” le loro appartenenze o presunte tali.
C'è poi un'altra ragione che dà valore a questo libro. Perché se questa ricerca è certamente e in primo luogo il frutto del lavoro dell'autore, essa nasce da un impegno collettivo. Quello realizzato a Prijedor nel dopoguerra da una cooperazione che intendeva essere diversa, che chiamammo “di comunità” e che faceva dell'elaborazione del conflitto uno dei suoi tratti essenziali. Anni di lavoro al quale hanno concorso realtà associative come il Museo storico del Trentino, storici come Marcello Flores e Marco Revelli, scrittrici e filosofi come Nicole Janigro, Melita Richter e Ivan olović, sociologi come Aldo Bonomi. Ma soprattutto molte e molti volontari che hanno portato le loro idee, le loro competenze e la loro passione affinché la riconciliazione non rappresentasse una parola vuota e retorica. Fra loro Simone Malavolti, che con questo lavoro dà testimonianza della profondità e della serietà del percorso realizzato.
Difficile dire quanto questo percorso abbia lasciato in quella comunità. Quel che si può dire è che vi parteciparono in molti e di ogni nazionalità, che si alimentarono speranze là dove questa parola non aveva molta cittadinanza, che ci trovammo a fare i conti con il dolore ancora vivo di chi aveva perso i propri cari, con i pregiudizi e le resistenze culturali, con la reticenza nell'aprirsi all'altro a fronte di narrazioni ancora molto distanti. Demmo vita ad un Forum civico con l'obiettivo di investire la comunità tutta in questo percorso di elaborazione, si fecero cose improbabili come quando il 12 e 13 giugno 2004, in occasione del voto per il rinnovo del Parlamento Europeo, venne organizzato nella Municipalità di Prijedor un'espressione simbolica quale segno di appartenenza ad un'Europa che ancora riusciva a scaldare il cuore delle persone2. Votarono in migliaia nelle piazze come nelle sedi circoscrizionali appositamente aperte, ma ben presto ci si rese conto che il fiume scorreva in direzione opposta. Del resto, di che stupirsi se buona parte della stessa cooperazione internazionale, sui temi del conflitto, preferiva sorvolare. Era così anche fra noi: meglio non entrarvi, meglio pensare che lo sviluppo economico e il tempo averebbero aiutato a dimenticare ed altre banalità del genere. In assenza di elaborazione collettiva, le guerre non finiscono mai. Rimangono lì, sospese in attesa che, prima o poi, qualcuno non tocchi quelle corde. Basta guardarsi attorno, in Ucraina o in Palestina. Ma è così anche in Germania (pensiamo al voto per AfD nei territori un tempo della DDR) o negli Stati Uniti d'America, dove la geografia della guerra civile del 1861 fra stati Unionisti e Confederati è del tutto simile a quella del voto per le presidenziali, malgrado siano trascorsi più di centosessant'anni.
Il problema è che l'elaborazione del conflitto è un lavoro complesso, che fugge dalle dinamiche dell'aiuto e dell'emergenza, che le diplomazie (e i donatori) non amano perché significherebbe indagare sulle responsabilità di ciascuno, che prende in considerazione non solo la colpa criminale, ma che chiama in causa la colpa politica (ciascuno porta una parte di responsabilità riguardo al modo come viene governato) e quella morale (la responsabilità per le azioni che compie come individuo)3. E che, salvo rare eccezioni, semplicemente non si fa. Non i governi, non i tribunali internazionali, non le Ong che dai loro donatori dipendono.
Per comprendere tutto questo, la foto scelta per la copertina del libro è esemplare. Un murales apparso a Prijedor che mette uno accanto all'altro i simboli dell'epopea della battaglia del monte Kozara (1942) e il monumento eretto qualche anno fa a ricordo dei serbi caduti durante la “liberazione” della città (1992). Con sotto la scritta “Sempre dalla parte della libertà”. Una narrazione che associa, insomma, la resistenza al nazifascismo alla pulizia etnica degli anni '90. Tutto ciò mentre si cancella ciò che rimane del campo di concentramento di Omarska (uno dei campi realizzati nelle vicinanze di Prijedor nel 1992) e si nega persino un luogo della memoria per i 102 bambini uccisi a Prijedor negli anni '90.
C'è un'altra buona ragione per avvicinarsi al libro di Simone Malavolti. Quella di comprendere come ci si possa trovare in guerra senza nemmeno accorgersene. Nell'aprile 1992 a Sarajevo si scavavano le trincee attorno alla città ma gran parte della popolazione diceva a se stessa e agli altri «qui non accadrà»4. Manifestazioni e concerti per la pace, appelli e petizioni per evitare la guerra... anche nelle piazze di Prijedor. Poi il gorgo, che travolge ogni cosa e ti tira giù, in una spirale dalla quale è difficile sottrarsi e “tradire”, ovvero sottrarsi al patto scellerato delle affinità del sangue e della “razza”.
Come si può capire, un libro che ci aiuta ad abitare il nostro presente. E che ci fa capire quanto poco si impari dalla storia, quella del secolo degli assassini5 come della guerra che ha sconquassato il cuore balcanico dell'Europa della quale ben poco si è saputo far tesoro. Ci riguardava invece, come ogni guerra del resto. Perché proprio lì si incagliò la Costituzione Europea, attorno a quelle “radici cristiane e giudaiche” in cui si voleva rinchiudere l'Europa, riproponendo l'idea nefasta dello scontro di civiltà che si volle inverare malgrado la storia ci raccontasse l'opposto, di un incontro di saperi e di civiltà senza il quale non ci sarebbe stato il rinascimento europeo. Il bombardamento della Vijećnica e dell'Istituto Orientale prima e il più lungo assedio moderno di una città europea dopo la fine della seconda guerra mondiale avevano come obiettivo proprio ciò che questa città rappresentava sul piano della multiculturalità6 e di un progetto politico di Europa oltre le nazioni. Un progetto che nel corso del tempo è diventato sempre più incerto, tanto che oggi l'allargamento dell'Unione Europea ai Balcani occidentali – sembra un paradosso – avviene all'insegna dell'euroscetticismo. Qualche amico bosniaco, già una decina di anni fa, mi disse: “Noi entreremo in Europa quando l'Unione Europea non ci sarà più”. Ironia? (m.n.)
1Mauro Cereghini – Michele Nardelli, Darsi il tempo. EMI, 2008 (pagg. 193 e seguenti)
2Ibidem (pag.183)
3Karl Jaspers, La questione della colpa. Raffaello Cortina editore, 1996
4Mauro Cereghini – Michele Nardelli, Sicurezza. Edizioni Messaggero, 2018
5“1914 – 2014. Inchiesta sulla pace nel secolo degli assassini”: si intitolava così uno dei percorsi annuali del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani”
6«Sarajevo porta in sé tutto ciò di cui è costituito il mondo a occidente dell'India» Devad Karahasan, Sarajevo, centro del mondo. Diario di un trasloco. ADV, 2012.
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