«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»<br/> Manifesto di Ventotene
Un movimento di liberazione di natura costituente. Reportage da Belgrado.
di Michele Nardelli
Ho voluto essere a Belgrado, in mezzo ad una folla immensa di trecento o forse quattrocentomila persone, arrivate a piedi, in bicicletta, in moto, con i bus, le auto e i trattori dalle città e dai villaggi della Serbia profonda come da quartieri popolari di quella grande città, malgrado il blocco del trasporto pubblico imposto da Vucic. Un fiume ininterrotto che ha invaso la capitale sin dalla sera precedente e per tutta la giornata del 15 marzo, fino a notte inoltrata. Che scorreva accanto ai due grandi fiumi (d'acqua) che costituiscono uno dei più affascinanti ecosistemi europei dietro le nazioni [1].
Un fiume che scorre da mesi e che per i giovani di questo paese rappresenta forse un'ultima speranza, quella della dignità di poter immaginare un futuro nella terra in cui si è nati prima di scomparire in un altro e più doloroso fiume, quello del migrare. E che il quindici marzo duemilaventicinque ha conosciuto una sua metamorfosi sociale in un evento di dimensioni e caratteristiche forse mai viste prima nei Balcani.
Che questo sia avvenuto grazie in primo luogo agli studenti che con i simboli rancorosi e vittimistici del passato non hanno sostanzialmente nulla a che fare, in una mobilitazione capillare che da mesi ha invaso le città come i territori tradizionalmente poco inclini al cambiamento, e tutto questo in nome della verità contro la corruzione, della democrazia contro le mafie che hanno invaso le istituzioni, dell'amore per la propria terra svenduta alle multinazionali delle terre rare in nome dello sviluppo, ci racconta di una società ancora capace di reagire.
Essere a Belgrado in un momento tanto speciale, mentre la nostra opinione pubblica rincorre i fantasmi della paura e della difesa del proprio status fino a credere che ci si possa difendere dalle incognite reali del nostro tempo destinando centinaia di miliardi di euro per armarsi, rispolverando quel principio di deterrenza che della corsa agli armamenti atomici (e di una guerra fredda che non ha impedito decenni di guerre in ogni angolo del pianeta) era stato l'orizzonte, è stata una scelta della quale sono orgoglioso.
E quanto meno contro corrente. Perché oggi come nel recente passato, di quel che avveniva nel cuore balcanico dell'Europa e di quel che sta ancora avvenendo nelle sue parti più vulnerabili, proprio non se ne cura praticamente nessuno. Non i media italiani che vi hanno dedicato poche righe e le solite banalità. Figuriamoci una politica distratta e chiusa nel proprio provincialismo e nella propria autoreferenzialità. E nemmeno quella parte di opinione pubblica che pure nelle stesse ore di Belgrado ha inteso (e con ragione) ancora immaginare come essenziale un'Europa politica e democratica per contrastare il potere delle oligarchie globali, non ha minimamente avvertito la necessità di scambiare un pensiero da una piazza all'altra. Non una parola da una piazza che si vuole europea di cinquantamila persone in un paese di 60 milioni di abitanti, che nemmeno si accorge di un'altra piazza europea di quattrocentomila persone in un paese di 6,5 milioni, così arrabbiata verso questa Europa da lasciare riposta in un cassetto quella bandiera che fino a ieri rappresentava un comune progetto politico.
Ero a Belgrado il quindici marzo duemilaventicinque. In primo luogo per capire. Anche come segno di vicinanza con tante persone amiche, ma soprattutto per capire. E la prima sensazione che ho avuto è la freschezza di quello che hanno messo in moto questi ragazzi e che prende sempre più le forme di un vero e proprio sollevamento popolare. Una dimensione di massa che assume caratteri di un movimento di liberazione di natura costituente, che vuole cioè fare piazza pulita tanto di una tragica eredità che, in quanto non elaborata, non si sa scrollarsela di dosso, come delle mafie oligarchiche che hanno preso il sopravvento nella ormai lunga transizione del dopo Milosević.
Eterogeneità
Lo racconta, in questo quindici marzo duemilaventicinque, la sua eterogeneità. Che se a prima vista avrebbe potuto apparire come un limite, a guardar bene, è probabilmente la sua più importante prerogativa. Un'eterogeneità tanto per cominciare anagrafica e di genere, a leggere i cartelli improvvisati anche culturale, ma certamente anche sociale e persino identitaria sul piano della rappresentatività territoriale, se è vero che una delle scintille che ha contribuito a farla nascere è stata l'ossessione centralistica del potere di Vucić. Ben testimoniata dalla presenza in piazza di minoranze che raramente erano arrivate nel cuore di uno stato centralistico negli anni del suo delirio nazionalistico, ovviamente dalla Vojvodina di cui Novi Sad è la capitale da cui tutto questo ha preso il via, ma perfino dal Sangiaccato, regione a maggioranza islamica nel profondo sud[2].
E che, pur nella tensione verso un regime che sta facendo di tutto per rimanere al potere e che per questo mobilita migliaia di agenti in tenuta antisommossa, lo fa con l'ironia e il sorriso delle cose semplici, ben espressa dal meme diventato spontaneamente un grido di rinascita unificante: “pumpaj, pumpaj” (in lingua italiana, “pompa, pompa”), rovesciando a proprio favore l'intento del regime che avrebbe voluto ridicolizzarne la natura improvvisata, diventando il tam tam capace di contagiare tutte e tutti (https://www.rainews.it/video/2025/03/marea-umana-a-belgrado-contro-il-governo-di-aleksandar-vucic-gli-impressionanti-video-in-rete-b6921a2b-ff4d-4d99-8d2b-e6725e9a7f91.html).
Che questa semplicità potesse essere in grado di abitare la complessità e anche la drammaticità di un passaggio cruciale nella vita di questo paese, coniugando l'ironia con una protesta civile e nonviolenta, in pochi o forse nessuno se lo sarebbe immaginato. A questo si deve aggiungere il sentimento di gioia e di liberazione che si manifesta sui volti di tanti manifestanti come nelle lacrime di Gordana e di Jovan, fino a qualche mese fa intenzionati ad andarsene via.
Anche di fronte ai tentativi di impedire l'afflusso verso Belgrado, alla provocazione di un presidio fantasma al Pionirski park, davanti al Parlamento, di “giovani che volevano studiare” che in realtà erano seguaci di prezzolati Vucić o, ancora, nel voler seminare il panico fra i manifestanti (e nei bambini che partecipavano festosamente con le loro famiglie), come nel caso del cannone assordante (la cui dotazione è stata in un primo momento addirittura smentita e infine riconosciuta a mezza bocca di fronte all'evidenza) azionato nel momento del silenzio che rendeva omaggio alle vittime di Novi Sad[3], questo movimento reagisce con compostezza e maturità. E piuttosto s'interroga sul futuro della mobilitazione.
Che fare?
Nelle mie stesse conversazioni con gli amici di Belgrado, il tema cruciale di come dare continuità ad un movimento così grande e carico di aspettative, viene fuori di continuo. E non è facile essere d'aiuto. Pensare di tenere alta la mobilitazione dopo le piazze di questi mesi ed una manifestazione di popolo così imponente richiede una grande capacità di articolare iniziative che riescano a far crescere la coscienza individuale e collettiva in un corpo a corpo senza cadere sul terreno che il regime vorrebbe, quello della violenza.
Il mio pensiero va per un attimo a quella moltitudine, allora si parlò di oltre due milioni e mezzo di persone, che il 23 marzo 2002 riempì all'inverosimile il Circo Massimo a Roma. Nella più grande manifestazione di sempre c'ero, come c'erano entusiasmo e aspettative. Ma anche, se non immediatamente evidenti, le insidie, prima fra tutte la fine dell'unità sindacale che avrebbe inaugurato una pesante stagione di sconfitte, sociali e politiche.
Che fare, dunque, dopo il quindici marzo duemilaventicinque? Nessuno crede ad aperture da parte di Vucić, il quale userà ogni strumento, lecito e meno lecito, per mantenersi al potere, forte della sua capacità diplomatica già dimostrata in questi anni nel sapersi proporre come interlocutore degli Usa in chiave antieuropea, della Russia per tenere viva una presunta fratellanza di sangue e di suolo, della Cina come soggetto globale presente nella regione già dai tempi di Milosević, dell'Unione Europea perché le terre rare non sono solo in Ucraina, del mondo arabo per coltivare un'area di affari colossali come il Waterfront[4].
Personalmente credo che i protagonisti di questo sollevamento popolare abbiano nelle loro mani una grande e complessa responsabilità, quella di dare continuità ad un percorso che deve saper andare al cuore della società. Nei giorni precedenti e nelle ore stesse della manifestazione si respirava nei miei stessi interlocutori un senso di grande preoccupazione per una possibile repressione violenta che proprio la vastità della partecipazione ha saputo sventare. Ma ora, che cosa accadrà? La speranza di cambiamento verrà frustrata come già avvenne dopo la caduta di Milosević?
L'amico Massimo dice che in realtà il cambiamento sta già avvenendo, per certi versi è già avvenuto: nel modo di essere delle persone e nella contaminazione della società, anche in quelle realtà dove il nazionalismo e la gestione mafiosa del potere avevano il loro maggiore retroterra elettorale. Ed in effetti lo abbiamo visto nel corso di questi mesi di mobilitazione, nel sostegno dato ai ragazzi in cammino, nell'ospitarli nelle proprie case, nelle scuole e nelle Università che hanno preparato anche in questa occasione centinaia di brandine perfettamente allestite con anche il cioccolatino di benvenuto, come nei piccoli gesti di persone molto anziane che da sole o insieme ad altre portavano lungo il cammino dei manifestanti quel poco che avevano da offrire, un po' d'acqua e qualche mela.
La stessa tenerezza che ho scorto il venerdì 14 marzo nello spettacolo di due ali di folla che a Terazije, nella via centrale di Belgrado, accoglievano gli studenti in arrivo a piedi o in bicicletta. C'è un diffuso senso di empatia e di solidarietà, accompagnata da un'organizzazione di staffette che non ti aspetti.
Una risposta in fondo non molto lontana da quella di cui ci ha parlato Jelena Ivić nell'articolo “Il Parlamento della Diaspora” (https://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Il-Parlamento-della-Diaspora-236497). Una solidarietà che ricongiunge in una rete virtuale le tante persone della diaspora o, più precisamente, di una nuova diaspora dei giovani che negli ultimi anni se ne sono andati, ma che sono rimasti connessi e i cui nodi sono a Londra e Zurigo, Atene e Padova o in altre città del mondo, «lontani ma allo stesso tempo partecipi degli eventi … informati in tempo reale su quanto accade nel loro paese d'origine, partecipando al voto e pronti a far sentire la nostra voce», divenendo così parte attiva del cambiamento.
Su questa stessa lunghezza d'onda potrebbe collocarsi la pratica delle istituzioni parallele sul territorio, forme di responsabilizzazione sul piano locale nel fare come se, una pratica che affonda le proprie radici (e che porta con sé una significativa letteratura) dell'agire nonviolento quando la distanza fra le istituzioni e la realtà si svela profonda. Anche in questo caso valorizzando i saperi vicini e lontani, le esperienze e le capacità di connessione, attivando scuole di formazione e di autoformazione, postando come ha scritto Jelena «uno sguardo attento e materno sui cambiamenti e le sfide che la nuova società serba dovrà affrontare». Ma anche, più semplicemente, lasciando pulite le strade dopo ogni presidio o manifestazione.
La forza della nonviolenza
Inoltre occorre pazienza e non accettare il terreno imposto dall'aggressore, quello della violenza. La storia ci insegna che l'eterogenesi dei fini inizia proprio qui. Ho visto con i miei occhi un movimento maturo che saprà trovare le strade giuste con il metodo partecipativo che l'ha caratterizzato sin qui. Però un piccolo consiglio lo voglio dare.
Non servono eroi. Bisogna considerare che anche la morte di una sola persona è una perdita incommensurabile. Valeva per l'assedio di Sarajevo negli anni '90, pure costato diecimila morti. Ma se quella città ha saputo evitare la sua distruzione totale lo si deve in primo luogo alla sua unicità culturale, a quel che rappresentava sul piano dell'incontro fra culture e – per usare l'espressione di Claude Levi-Strauss – al suo modo di vita[5]. Valeva ancor prima per l'invasione dei carri armati sovietici a Praga, laddove la scelta di non rispondere militarmente evitò una carneficina e la distruzione della madre delle città (Praha matka mst, dicono in ceco). Il pensiero va anche a Gaza e alla tragedia che si consuma in Palestina dal 1948, alle centinaia di vittime di queste ore (mentre scrivo il numero dei morti e dei feriti delle nuove incursioni israeliane continua a crescere) e della strategia genocidiaria del governo Netanyahu che non si è mai fermata nemmeno con la tregua, ma anche all'aggressione del 7 ottobre 2023 e a quelle odiose parate di consegna degli ostaggi, pensate come prove di forza e che si rivelano in tutta la loro subalterna parodia.
La forza della nonviolenza abita qui, nel non accettare il terreno che vuole imporre l'aggressore. Non le armi, ma la forza della ragione. In quel non ci avrete mai risiede la vera forza, quell'alterità che avrebbe fatto risparmiare centinaia di migliaia di vite anche in Ucraina. Che cos'è altrimenti il ripudio della guerra? Questo ci dice papa Francesco quando afferma che la guerra è sempre una sconfitta. Senza dimenticare che le armi uccidono anche quando non sparano, se pensiamo che le risorse che ogni anno vengono destinate in armamenti avrebbero la possibilità di salvare milioni di vite. Solo nel 2023 nei 27 paesi dell'Unione Europea si sono spesi ufficialmente 279 miliardi di euro. E, come se non bastasse, si stanziano 800 miliardi per il piano di riarmo dell'Unione. Siamo purtroppo ancora fermi al moto dei latini si vis pacem para bellum e non abbiamo compreso che proprio questo approccio ha fatto della guerra una sorta di carattere archetipico dell'agire umano. Senza un cambio di paradigma la guerra è destinata ad occupare le nostre vite.
Sarà in grado questo movimento di liberazione di continuare ad essere quello che è stato sin qui e di far crescere quel processo – in primo luogo culturale – di cambiamento per aprire una pagina nuova dove l'appartenenza non diventi ossessione?
Uno spazio jugoslavo
Sono a Belgrado anche per questo. Per parlare di elaborazione del conflitto. Mi sono portato alcune copie del libro di Simone Malavolti Nazionalismi e “pulizia etnica” in Bosnia Erzegovina. Prijedor 1990 – 1995 e questo è l'oggetto della conversazione con Dragan Stojković, editore che non ha mai smesso di tenere vivo, malgrado tutto, un ponte editoriale capace di collegare quello che definisce senza troppa nostalgia uno spazio jugoslavo. Se tutto andrà come auspichiamo uscirà contestualmente in Serbia, in Croazia e in Bosnia Erzegovina.
Incontriamo anche Sonja Biserko, presidentessa del Comitato di Helsinki per i diritti umani in Serbia. Mi ha scritto del valore e dell'urgenza di creare uno spazio fisico di riflessione comune, proposta di cui avevamo parlato nel giugno scorso. Questa parte di Europa (non solo questa per la verità) è in forte fibrillazione, fra incertezza istituzionale, transizione senza regole, mafie e le forme più aggressive del neoliberismo. E un nuovo protagonismo giovanile.[6] Servono luoghi di confronto e buone idee. Un programma ambizioso, tanto per non sbagliarsi.
La discussione proseguirà a Sarajevo con il professor Nerzuk Curak, intellettuale di prim'ordine e attivista per la pace. E il giorno successivo con Adnan Mehmedović, presidente dell'Associazione Dante Alighieri e con la vicesindaca di Sarajevo Anja Margetić. C'è molta inquietudine per quel che accadrà dopo il mandato di cattura contro Milorad Dodik, il presidente nazionalista della Republika Srpska, che sembra preparare la secessione.
Insieme a Gianluigi, giovane appassionato di Europa orientale che mi accompagna in questo viaggio, percorriamo la nuovissima autostrada fino a Loznica, lungo la Valle della Drina, dove entriamo in Bosnia Erzegovina. Viene da chiedersi il perché di questo investimento lungo una via di comunicazione non particolarmente frequentata. Forse la risposta si chiama litio, uno dei componenti delle batterie per le auto elettriche di cui è ricca la Valle dello Jadar. Come dicevamo le terre rare non sono solo in Ucraina.
Belgrado, Sarajevo, Trento, fine marzo 2025
[1]Claudio Magris, Danubio. Garzanti, 1999
[2]Regione storica nella Serbia meridionale al confine con il Kosovo e il Montenegro, caratterizzata dalla presenza maggioritaria di minoranze bosgnacche di religione mussulmana, montenegrine, rom e albanesi.
[3] Ora sappiamo che quello doveva essere il segnale di inizio dell'attacco criminale ai manifestanti.
[4] Si chiama Belgrade Waterfront: hotel di lusso, il più grande centro commerciale dei Balcani, 10 mila appartamenti riservati alle élite, 4 miliardi di euro di investimento, la Eagle Hills Company di Abu Dhabi protagonista.
[5]Devad Karahasan, Sarajevo centro del mondo. Diario di un trasloco. ADV, 2012
[6] Nelle stesse ore di Belgrado scendevano in strada a Budapest centomila persone contro il governo Orban, qualche giorno dopo le piazze si sono riempite a Skopje per commemorare i ragazzi morti nel rogo di una discoteca a Kocani, a fine febbraio e nelle settimane successive in 250 città della Grecia ci sono state grandi manifestazioni per evitare l'insabbiamento delle responsabilità per l'incidente ferroviario che due anni fa costò la vita a 57 persone. E, infine, trecentomila persone sono scese in piazza a Istanbul contro l'arresto del sindaco Ekrem Imamoglu, leader dell'opposizione. Solo per limitarci all'area balcanica.
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