«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»
Manifesto di Ventotene
«La maledizione di vivere tempi interessanti» (139)
(Aprile 2025) Sono mesi che non scrivo sulle guerre in corso. Un po' per l'angoscia nel vedere le rovine del progresso. Un po' perché ripeterei più o meno le stesse parole, in larga misura inascoltate. Partecipo con fatica alle manifestazioni o non partecipo affatto, nemmeno alle attività del Cantiere di pace che pure ho contribuito a costruire. Doveva servire ad evitare che la guerra in Ucraina dividesse le persone più sensibili alla pace, ma non è stato così. Immaginavamo un'altra agenda, per quanto improbabile con l'intensificarsi del contesto di guerra, proponendoci uno sguardo capace di andare al cuore dei conflitti, un percorso formativo rivolto in particolare al mondo della scuola sull'educazione alla contemporaneità, una diplomazia delle città come condizione per dar vita ad una rete europea di relazioni guardando alla ricostruzione, materiale e non solo.
Ora la guerra ci assedia. La tragedia che da tre anni si consuma in Ucraina è sulla china di diventare globale, le guerre infinite che dilaniano il Vicino Oriente si sono radicalizzate al punto da diventare, almeno per quanto riguarda la Palestina, un progetto genocidario. In Congo è diventata endemica una guerra su commissione per il controllo delle materie prime da parte delle grandi potenze. L'elenco sarebbe lungo e ve lo risparmio. In ogni teatro dove, in assenza di elaborazione del conflitto, non c'è stata riconciliazione – penso al cuore balcanico dell'Europa – la guerra è latente, in primo luogo nelle intenzioni di nomenclature che nella destabilizzazione traggono potere e profitto.
La guerra è ritornata ad essere un'opzione possibile, dunque normale. Investe le vecchie geografie (i confini degli Stati, le aree ricche di materie prime, il prima noi dei nazionalismi...) e quelle nuove (gli interessi transnazionali, i dazi, i traffici criminali, il controllo dell'informazione e delle comunicazioni, l'intelligenza artificiale, l'occupazione dello spazio...). Non risparmia nemmeno il diritto internazionale e le sue istituzioni nate nel secondo dopoguerra per scongiurarla, in un processo di delegittimazione che i sovranismi tendono ad imporre in ogni latitudine.
E così la guerra ci cambia. Entra nel vissuto di ognuno nelle forme dell'incertezza verso il futuro, della paura, dell'ossessione, dell'incapacità di affrontare i conflitti quotidiani, della fragilità. Con le scelte di riarmo, tutta questa insicurezza è destinata a crescere a dismisura. L'intreccio delle crisi poi, a cominciare da quella climatica e ambientale, non farà che ingigantire ed accelerare, come del resto è stato per la pandemia, le contraddizioni del nostro tempo e, con esse, l'idea che ci si possa salvare da soli.
Richiederebbe sì – lo dico da cittadino europeo – un grande investimento: ottocento miliardi di euro, ma per la cultura della pace. Pensate che forza avrebbe una scelta di questa natura. Oltre che nelle coscienze, sarebbe il più grande investimento che si potrebbe riverberare nella vita delle persone e nelle loro relazioni, nella sicurezza ovvero nel prendersi cura degli altri, nella formazione ad ogni livello, nella salute pubblica, nella ricostruzione dei paesi dilaniati, nel restauro dei beni culturali, nella riconversione industriale, in una diversa autorevolezza dello spazio politico europeo.
Non era forse questo lo spirito di Ventotene? Con la seconda guerra mondiale in corso la visione di un'Europa democratica, che superava la sua divisione in stati nazionali sovrani, capace di smantellare gli eserciti nazionali per una difesa comune, poteva sembrare un sogno. Eppure si partì proprio da quelle cartelle scritte a mano su frammenti di carta fatti uscire dall'isola di Ventotene grazie a Ursula Hirshmann, Ada Rossi ed altre.
Nel buio del tempo, ci sono però fotogrammi che ci dicono che è possibile risvegliarsi dalla notte. Quell'epifania a cui per un attimo abbiamo pensato nei giorni della pandemia, quando più di una persona si è chiesta come avevamo potuto non vedere che eravamo andati oltre ogni limite. Ed anche oggi, la luce che ho visto nei giovani volti dei protagonisti del sollevamento popolare contro le autocrazie, a Belgrado come a Istanbul, ma anche a Budapest e ad Atene, nel rivendicare, semplicemente, il loro diritto al futuro, ci dice che non tutto è perduto.
Le ali dell'angelo della storia sono ancora impigliate nella tempesta1. Dovremmo solo imparare a vederle e provare a disincagliarle. (m.n.)
1Walter Benjamin, Angelus Novus. Dicembre 1921
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