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La guerra non è ineluttabile. Una conversazione con Ugo Morelli

Foto di Mohamed Nohassi

Capire come la dimensione estetica e creativa funzionano nella mente chiarisce le ragioni dell’attitudine simbolica tipica degli esseri umani, ma non solo. Indagare questi temi significa anche ragionare sui presupposti fondamentali della relazionalità, della socialità, dell’educazione per la tenuta della democrazia e della pace.

A cura di Neve Mazzoleni *

Ugo Morelli è saggista, scrittore, professore di scienze cognitive applicate alla vivibilità, paesaggio e all’ambiente, di Psicologia del lavoro e dell’organizzazione e di Psicologia della creatività e dell’innovazione. Per nove anni è stato il Direttore del master in Management dell’arte e della cultura (MAC) della Trentino School of Management, fra i primi percorsi di formazione che mettevano in relazione discipline scientifiche, umanistiche e creative con elementi di gestione e sviluppo organizzativo, con lo scopo di diffondere la valorizzazione delle istituzioni e delle industrie creative italiane, settore che ha un impatto rilevante nel nostro Sistema Paese. (...)

Morelli da qualche mese ha pubblicato il fondamentale volume “Cosa significa essere umani?” (Cortina, 2024), scritto a quattro mani con il neuroscienziato Vittorio Gallese. Un testo altrettanto enciclopedico, multidisciplinare, modulare e nello stesso tempo onnicomprensivo, facile ed erudito, che risponde al quesito posto nel titolo sotto diversi punti di vista: dalle neuroscienze, alla biologia, all’evoluzionismo, fino alla psicologia, l’estetica, l’educazione, infine l’etica. Abbiamo avuto la possibilità di conversare con lui su un tema attuale e doloroso: la guerra.


Professor Morelli le vorrei porre una domanda scomoda: come è possibile che la mente umana, capace di empatia, creatività e bellezza, produca anche orrore, violenza e la guerra?

La guerra è l’altra faccia della bellezza, come racconta l’antico mito dell’attrazione passionale fra Ares e Afrodite. Non è possibile comprendere una senza l’altra. C’è bellezza anche nella distruzione assoluta. Non possiamo dare una spiegazione naturalistica completa della mente, senza tenere conto anche di questo aspetto. La guerra è una delle vie possibili ed effettive nella regolazione delle relazioni entro la specie umana. Se osserviamo scimpanzè e macachi, ovvero i primati superiori comparsi sul pianeta oltre venticinque milioni di anni fa, riscontriamo in loro forme di esperienze proto-estetiche, nonché forme di distruttività intraspecifiche. Essendo i nostri antecedenti evolutivi, possiamo dedurre che nell’uomo, comparso circa sei milioni di anni fa (e solo da circa trecento mila anni nell’attuale forma sapiens) ci siano forme simboliche più sofisticate, fra le quali ricadono anche la violenza, l’orrore, la guerra.

Ci faccia capire meglio il legame con l’estetica.

Bene. Per meglio spiegarmi vorrei parlare del concetto di “conflitto estetico”. Esso rientra fra le quattro alternative individuate nella regolazione delle relazioni interpersonali: il primo è l’accordo; il secondo è l’antagonismo; il terzo l’indifferenza; infine, il conflitto, che è il luogo dell’incontro, della possibilità dell’approssimazione non distruttiva. Il presupposto di questo incontro è il riconoscimento del valore dell’altro, che si gioca sull’ambivalenza dell’autonomia (tu sei diverso da me), ma anche della dipendenza (per essere me stesso, ho bisogno del tuo riconoscimento), come sosteneva Donald Winnicot.

Siamo sommersi dall’abbondanza del mondo

In questa prospettiva si situa il conflitto estetico. Venendo al mondo con l’emersione da una situazione a bassa gravitazione, attraverso la recisione del cordone ombelicale, scopriamo l’autonomia dal corpo della madre, ma contemporaneamente facciamo l’esperienza della disperazione della dipendenza dallo stesso corpo. Lo vorremmo ancora vicino e caldo con un capezzolo per soddisfare i conati di fame, ma siamo sommersi dall’abbondanza del mondo. La dimensione di autonomia e di dipendenza della nascita ci accompagna per tutta la vita, insieme alla sua ambiguità. Siamo “me and not me”, secondo ancora le parole di Winnicot. Saper gestire sufficientemente bene questo grado di ambiguità, determina la capacità di stare nel conflitto, di vivere la tensione di questo costante adattamento, per non scadere nella rabbia cieca e irrazionale e nella distruttività.

Nel libro scritto a quattro mani con Vittorio Gallese, ricorrete al concetto di “diventità”. Che cosa intende?

È la condizione della nostra esistenza. Non siamo monadi e nemmeno fortezze. Per identificarci, stiamo nella relazione con l’altro dovendo chiederne il permesso, e viceversa possiamo essere invasi dall’altro. Questa è la “diventità”: la permeabilità che ci rende vulnerabili, un concetto che non trova purtroppo cittadinanza nella nostra società e nell’organizzazione del lavoro. Essere vulnerabili spesso indica solo essere deboli. Invece descrive la condizione essenziale per essere raggiungibili ed accessibili agli altri e dagli altri. Il vulnus, da cui deriva l’aggettivo, è il ventre materno da cui tutti deriviamo.

La società ci riempie di stereotipi a cui molto spesso aderiamo per le solite esigenze di rassicurazione, da stereòs che significa solido. Tende cioè a consolidare le certezze, incasellare i fenomeni in categorie precise, fornire spiegazioni univoche per mascherare e tenere lontano l’incertezza. L’epoca contemporanea è costituita dall’angoscia della certezza: la ricerchiamo ovunque, mentre costitutivamente siamo esseri vulnerabili, predisposti quindi alla “diventità” e a gestire il conflitto estetico. Von Clausevitz diceva: “Si vis pacem, para bellum”, che significa “se vuoi la pace, prepara la guerra”. Ma non è certo questa la direzione giusta. Abbiamo bisogno di stare dentro al conflitto ed educarci a gestirlo, a contenerne la deriva distruttiva e aggressiva. Purtroppo, non possiamo sostenere che lo stiamo facendo. Non stiamo spingendo verso l’empatia, che ci caratterizza come specie già a livello neuronale, mettendoci nei panni degli altri. E pure sarebbe proprio questa specifica qualità umana a predisporci a stare nel conflitto estetico, ad accogliere la realtà nelle sue multi-sfaccettature.

Cosa pensa del linguaggio?

Il linguaggio verbale articolato è una delle più sofisticate tecnologie sviluppate dall’uomo, ritenuta in assoluto una delle sue caratteristiche salienti.

Il linguaggio è uno strumento imprescindibile per diffondere la cultura della gestione del conflitto. Nascendo dal corpo, si sviluppa entro le relazioni, quindi è una via decisiva per favorire l’elaborazione delle emozioni. Coinvolge i processi emozionali e concorre a controllare la presa di consapevolezza. Questa consapevolezza si basa sul concetto della natura motoria e neuro-plastica del cervello.

Dalle evidenze scientifiche raccolte con altri ricercatori e studiosi, abbiamo verificato che il cervello non ha una natura modulare, per aree di specializzazione a compartimenti stagni, ma è dotato di reti neuronali distribuite. Ciò significa che i neuroni non sono specializzati a codificare una sola espressione comportamentale, ma codificano molti altri fenomeni contemporaneamente, attraverso l’attivazione motoria. Il ruolo centrale del cervello motorio e dei sistemi sensori-motori atti a conoscere, parlare, sviluppare il linguaggio verbale articolato, sono sempre più evidenti e più chiari.

Può assumere un ruolo particolarmente centrale come agente trasformatore della percezione della guerra?

Secondo il cosiddetto canone minore, come lo definisce il filosofo Rocco Ronchi, con riferimento al pensiero dei filosofi Bergson e Whitehead, ma anche in base agli importanti studi di Gilbert Simondon e di Bernard Stiegler, la tecnologia non è un processo esternalizzato che lascia intatto il produttore. Ma nel momento in cui si manifesta, trasforma l’uomo stesso.

La ricerca neuroscientifica ha dimostrato che la neuro-plasticità del cervello non è circoscritta alle fasi evolutive dell’apprendimento, ma permane per la vita.

Possiamo sempre cambiare le cose, in virtù della neuroplasticità

Da qui possiamo affermare che la guerra non è ineluttabile, non è una predisposizione naturale umana in nessun modo governabile. Possiamo sempre cambiare le cose, in virtù della neuroplasticità. Per questa ragione il linguaggio è a buon titolo uno strumento fondamentale nella gestione del conflitto e quindi della prevenzione della guerra. Nel libro di qualche anno fa “Il codice materno del potere” Edizioni ETS, 2013, che ho scritto a quattro mani con il filosofo Luca Mori, mi sono ispirato dalla lettura di Judith Butler (Parole che provocano. Per una politica del performativo, Raffaello Cortina Editore del 2009).

Attraverso la riflessione in una prospettiva sociale e politica sull’etimologia delle parole pater e mater, ho considerato la parola mater come approccio che misura e ordina stabilendo rapporti tra le differenze e le abbraccia, diversamente dall’approccio paternalista verticale, per rifondare una nuova democrazia. La semantica non è deterministica, come la sintassi. E questa è un’ottima notizia, perché significa che l’attitudine poietica, cioè generativa, creativa dell’uomo (il territorio della poesia e della creatività) può essere la fonte per modificare lo status quo e quindi anche l’attitudine alla violenza e la guerra.

Quando mancano le parole, manca il mondo. Trovarne di nuove, o ridare significato, favorisce la trasformazione.

Perché allora siamo così resistenti al cambiamento?

Quello che ci rende così resistenti al cambiamento e agili alla reiterazione degli errori è la costruzione dell’habit, nel senso di consolidamento delle abitudini.

Thomas Khun nel 1966 nell’opera “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” aveva dichiarato che i paradigmi scientifici hanno una resistenza estrema fino a prova contraria. Prendiamo ad esempio la coesistenza delle teorie delle relatività e della meccanica quantistica che posero Einstein e Heisenberg in scontro diretto. Anche la scienza e la sua evoluzione si mostrano come una costante e continua elaborazione del conflitto della conoscenza. E pure anche oggi nessuna delle due teorie è sconfessata. Per rendere visibile e mettere in evidenza qualcosa, per raggiungere l’essenza stessa dell’oggetto della nostra ricerca, poniamo nuovi veli, nuove strutture. È il gioco del rivelare e del ri-velare. La mente umana ha bisogno di crearsi degli habit per differenti ragioni, come ritengono filosofi al pari di Erique Pichon-Riviere e Gaston Bachelard:

  • per angoscia epistemofilica si intende l’angoscia a livello inconscio prima e poi conscio di accedere a un episteme nuovo (conoscenza scientifica), per la necessità di proteggere la nostra consistenza, per mantenere intatte le coordinate della nostra esperienza

  • per angoscia epistemologica, ci si riferisce all’angoscia che ha a che fare con dinamiche della cognizione, della dimensione storica e sociale. Consegnarsi alla consuetudine è una risposta atavica, filogenetica (che si trasmette per generazioni) per tutelarsi dai pericoli. Per esempio, abbiamo paura di prendere un aereo perché non siamo creature volanti.

Tutto questo è aggravato anche dalla dematerializzazione del nostro tempo, dalla presenza invadente della dimensione digitale, che autorizza l’eccitazione da conformismo (digital self). Ci stiamo abituando unicamente ad essere aggregati a persone con i nostri stessi gusti e posizioni su tante cose, che esprimono dei like, ma ci deprivano del contraddittorio, dell’accettazione dell’opinione di altri, diversa e non allineata alla nostra. La cosiddetta ipno-crazia.

Cosa ci rimane da fare?

Verrebbe da rispondere: tutto, se non fosse schiacciante e annichilente. Come sempre la via consiste nell’agire sulla parte; sulla contingenza, che non è un’attenuazione del determinismo ad opera del caso, ma un carattere precipuo e distintivo di ogni processo evolutivo. Il presente contiene il futuro e ne è gravido.

È al desiderio che è necessario appellarsi, fare riferimento, ed è la bellezza che del desiderio è sodale che può costituire un campo di ricerca per creare un’estetica delle relazioni.

La bellezza, non tanto e non solo come l’aspetto esteriore delle cose, o come la cosmetica, ma la bellezza come esperienza e relazione di risonanza particolarmente riuscita con gli altri e il mondo, tale da estendere il modello neuro-fenomenologico e la sensibilità di ciascuno, in modi e per vie che senza quella esperienza non sarebbero possibili.

Sia il desiderio che la bellezza sono incerti e non neutrali, ma la loro pratica e il loro ascolto possono favorire la prevalenza dei giochi emancipativi su quelli distruttivi.

Come sempre è l’arte ad essere la sintesi della somma espressione di entrambi: del desiderio e della bellezza.

Ascoltando e osservando anche una sola opera e un solo artista se ne può sperimentare la rilevanza. Quella di Arcangelo Sassolino, di una sua opera attuale, ad esempio, è una struttura di putrelle in acciaio azionata da un sistema pneumatico che muove lentamente un lungo braccio meccanico, La condizione del desiderio. Esposta nella Scuderia Grande di Villa Panza a Varese, l’opera presenta alle estremità due lastre di marmo bianco di Carnia che oscillano nello spazio in un equilibrio precario: la pesantezza del materiale è trasformata in un’illusoria leggerezza, simbolo della fragilità del desiderio umano, che oscilla perpetuamente senza mai posarsi stabilmente. L’opera, infatti, è stata originariamente concepita nel 2009 per lo SpazioZ33 a Hasselt, in Belgio, e ora per la scuderia della villa riconfigurata e ricollocata.

Nel perpetuo e irrisolto tentativo di trovare un equilibrio, l’opera diventa metafora del desiderio e dunque dell’essere umano: può essere interpretata e sentita come emblema del paradosso dell’esistenza, come un continuo tentativo di colmare una mancanza, senza mai riuscirci del tutto, e una tensione che si traduce nella struttura stessa dell’opera. Una rincorsa inesauribile del moment now che continua a passare, dove il valore sta nel cercare più che nel risolvere una volta per sempre la ricerca. La mancanza non è solo il baratro in cui si può sprofondare, ma può essere attivante di quello che ancora non c’è. Ed è quello che ancora non siamo che possiamo essere, in quanto quello che siamo lo siamo già. Quella tensione attiva, che in Mente e Bellezza è stata definita “tensione rinviante” è il luogo del possibile, per compiere in modi inediti e emancipativi il fare stesso e vivere le relazioni delle nostre esistenze.

aprile 2025

* dalla rivista “cheFare” 

 

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