«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»
Manifesto di Ventotene
Intervista all'europarlamentare della France Insoumise, prima palestinese a ricoprire un simile ruolo: «Antisemitismo, nazismo, colonialismo sono nati in Europa, per questo la soluzione va trovata qui. La liberazione non è uno stato, non è la Palestina nella mappa, ma è il ritorno. Non vogliamo un’altra Nakba, ma vivere con uguali diritti sulla nostra terra»
a cura di Chiara Cruciati *
Rima Hassan sta per imbarcarsi. Il primo giugno, con altri attivisti politici tra cui Greta Thunberg, salirà sulla Madleen a Catania. Destinazione Gaza, la nuova sfida della Freedom Flotilla dopo il raid israeliano che poche settimane fa ha messo fuori uso una nave della coalizione al largo di Malta. Europarlamentare eletta con la France Insoumise, prima palestinese della storia, Hassan ha alle spalle un lungo attivismo politico. L’abbiamo incontrata a Napoli.
Perché salirà a bordo?
È una questione di coerenza, la lotta per il popolo palestinese va combattuta su diversi fronti, nelle strade, in azioni come quelle della Flotilla o la Marcia globale verso Rafah, a livello politico dentro i parlamenti. Siamo chiamati in causa in quando cittadini. La nostra è una piccola barca, non porterà aiuti: si tratta di un’azione politica e simbolica. Se ho paura? Mi rifiuto di averla, l’obiettivo di Israele è paralizzarci, generare terrore nell’esprimere un’opinione.
Che dfficoltà incontra all’Europarlamento? Quanto il suo immobilismo è imputabile alle distanze tra gruppi e alle divisioni interne ai progressisti?
L’accordo di associazione tra Ue e Israele poteva essere sospeso subito: le violazioni dei diritti umani, come previsto all’articolo 2, erano già state documentate. Erano stati documentati apartheid, occupazione, detenzioni arbitrarie, omicidi, distruzione di villaggi. Solo adesso, dopo venti mesi e le grandi mobilitazioni di piazza, Kaja Kallas è riuscita a mettere insieme una maggioranza di stati per riesaminare l’accordo, non per sospenderlo. Alla commissione dove lavoro, quella per i diritti umani, ho provato di tutto per far per far approvare un testo sui diritti dei palestinesi, sui bambini, le infrastrutture civili distrutte…tutti bloccati dai gruppi progressisti.
Rima Hassan, perché oggi alcuni leader politici europei hanno assunto nuove posizioni?
Il cambiamento di tono e di retorica è avvenuto solo grazie alle mobilitazioni, non perché ci sia una convinzione politica nuova. Parlano perché sono costretti a farlo, sentono di aver perso credibilità nella difesa dei diritti umani. Ci sono volute solo due settimane per imporre sanzioni alla Russia, qui siamo a venti mesi dall’inizio del genocidio e stanno ancora riflettendo sul da farsi.
Nella nuova postura quanto incidono le politiche di ultradestra di Trump?
Trump è chiaro. Dice di voler fare di Gaza una riviera, parla di deportazione: questo cinismo politico obbliga gli europei a condannare, a ria ermare di essere impegnati nella difesa dei diritti umani e del diritto internazionale. L’unico «vantaggio» della politica di Trump è di aver isolato Israele presentando una soluzione così estremista che anche l’ipocrita Europa si è sentita in dovere di opporsi. Va ricordata una cosa: dal punto di vista storico, quello palestinese è un problema europeo. Il sionismo, l’antisemitismo, il nazismo sono questioni europee. Israele è stato fondato come risposta all’antisemitismo europeo; il sionismo è emerso, come scrisse il suo fondatore Theodor Herzl, a fronte delle persecuzioni degli ebrei in Europa. E, infine, il progetto coloniale nasce sul modello del colonialismo europeo. Il problema è europeo e la soluzione deve essere europea.
Uno degli effetti peggiori delle posizioni europee è stata la repressione del dissenso. Lei ha subito attacchi durissimi.
Sono una figlia della Nakba, portatrice di un discorso che più di altri provoca Israele e i suoi alleati, perché torna alle radici, al 1948. La nostra semplice esistenza, rifugiati nati nei campi profughi, è la prova della spoliazione subita dalla Palestina. Mi chiamano siriana per negare la mia identità palestinese perché la loro paura più grande è il diritto al ritorno di sei milioni di persone.
Quanto in Francia la repressione delle mobilitazioni ha operato su basi razziste, etniche, religiose e di classe?
Molti hanno vissuto esperienze simili: iniziative annullate, persecuzioni giudiziarie per apologia del terrorismo, demonizzazione mediatica. Eppure la stragrande maggioranza dei casi arrivati in tribunale in Francia sono stati vinti dai militanti. Ciò dimostra che lo strumento della repressione è politico e non ha basi legali. Esiste poi una dimensione di repressione di classe e legata alle comunità razzializzate, che provengono da un contesto migratorio. Media e politica dicono che il sostegno alla Palestina proviene da musulmani, ma le comunità razzializzate sostengono la Palestina perché condividono un’esperienza di colonialismo. Arabi, neri, si sentono legati ai palestinesi ma non è l’islam l’elemento comune, lo è la propria storia di colonizzati. Per demonizzare la causa palestinese in un contesto di islamofobia, la definiscono una causa islamista, a sostegno di Hamas, invece di chiamarla una causa internazionale, rivoluzionaria e anticolonialista.
Si è definita figlia della Nakba. Come tutti i palestinesi è cresciuta con i racconti dell’espulsione dei suoi nonni. Cosa prova assistendo oggi alle stesse immagini?
In quelle tende ho rivisto l’immaginario della Nakba. In questa dimensione temporale e spaziale – il tempo fermo al 1948, la diaspora – che è determinante soprattutto per chi è cresciuto in un campo profughi, ciò che avviene a Gaza è una morte nella morte. Se i palestinesi di Gaza saranno deportati, la prossima tappa sarà la Cisgiordania. Siamo in un momento storico, di svolta, ma sono convinta che i palestinesi vinceranno.
In Europa si discute molto di stato di Palestina, spesso confondendo il fine con lo strumento della liberazione. Qual è per lei la soluzione politica?
La comunità internazionale condiziona il perimetro dell’esistenza politica della causa palestinese relegandola a uno stato. I popoli dicono altro: autodeterminazione. Dobbiamo giocare con la politica coloniale di Israele: volete avere tutto il territorio, spostarvi liberamente, vivere ovunque? Bene, anche i palestinesi lo vogliono. E vivono già dal fiume al mare: il 20% degli israeliani sono palestinesi, i palestinesi sono a Gaza, a Gerusalemme, in Cisgiordania. Il solo modo per rompere questo sistema coloniale è uno stato unico o binazionale. Quando i palestinesi avranno uguali diritti, non reagiranno con violenza. La condizione deve essere eguaglianza e libertà di circolazione e residenza. Questa è la vera riparazione della Nakba. Nel 2018 la Marcia del Ritorno non chiedeva la fine del blocco su Gaza ma la libertà di tornare nei propri villaggi. La liberazione non è la Palestina nella mappa ma è il ritorno. Non vogliamo un’altra Nakba per riparare alla prima: gli ebrei israeliani devono poter restare, la loro presenza è legittima quanto la mia.
* da il manifesto (ha collaborato Filippo Ortona)
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