«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»
Manifesto di Ventotene

Friuli - Venezia Giulia. Un nuovo patto interpretativo per rifondare la Regione

La prima seduta della Regione F-VG

di Giorgio Cavallo *

È’ iniziato il percorso di discesa per le modifiche costituzionali allo Statuto di autonomia del Friuli-Venezia Giulia. Mancano due passaggi parlamentari che non sembrano avere ostacoli se permane la stabilità politica attuale.

Per la verità il nodo della identificazione delle “aree vaste” elettive, nelle loro dimensioni (vecchie Province?), accanto a quello delle competenze e della legge elettorale non sarà un passaggio semplice nella sua evidente connessione con la fine incerta dell’era Fedriga. Quello che era stato pensato come una furbata decisiva per la stabilizzazione di un quadro politico indiscutibile può risolversi proprio nel suo inverso.

Pur con fatica, si cominciano ad intravvedere dei segnali che invitano a riflettere non solo sulla riorganizzazione degli enti locali ma proprio sull’adeguatezza della struttura regionale nell’affrontare le varie tempeste che l’attualità ci propone. Dalla geo politica alla stagnazione economica per arrivare alla crisi ambientale ed al crollo demografico. In termini di consenso, per un po’ continueranno a dominare le paure verso le immigrazioni ed i vari crimini, ma le carte possono rimescolarsi. Ed allora la domanda “a cosa serve la regione autonoma” potrà anche essere dilaniante.

Una premessa storica

Sono passati 60 anni dalla sua costituzione e l’acqua passata sotto i ponti ha eroso le fondazioni. Innanzitutto il patto para-politico alla base dell’accordo che ne ha permesso l’attivazione. Quel patto e le sue motivazioni vanno ricordate, anche perché non si trattava di pura spartizione di potere. Eravamo alla fine degli anni 50 e inizio dei 60, la guerra fredda e la collocazione internazionale facevano della “soglia di Gorizia” un nodo fondamentale della “difesa occidentale”. Ma il Friuli era terra di emigrazione e di arretratezza economica così come Trieste, pur ricca di profughi, trafficanti e spie, non vedeva spiragli di recupero della propria grandezza. Bisognava intervenire per impedire sconquassi sociali e mettere in sicurezza l’apparato militare, già allora dotato di armi nucleari da “campagna”, proprio là (Aquileia) dove la nostra storia era cominciata.

L’accordo fu politicamente un colpo di genio perché diventava accettabile dall’intero quadro politico, sinistra comunista compresa. La “patria” chiedeva un riconoscimento di capoluogo regionale a Trieste dove ormai si era accasata la “colomba” di Nilla Pizzi. Le competenze statutarie diedero però priorità allo sviluppo economico, del Friuli (industria, agricoltura, artigianato, commercio) ma anche con un rinnovato impegno delle partecipazioni statali a Trieste e nel Goriziano e il riconoscimento statutario del Fondo Trieste. A questo si accompagnava un equilibrio territoriale “istituzionale” che stabiliva regole non scritte ma profondamente rispettate: presidenza della Giunta regionale a un “friulano”, presidenza del Consiglio ad un triestino, la costituzione della Provincia di Pordenone e un collegio circoscrizionale elettorale alla montagna (Tolmezzo). Questo in un equilibrio di poteri tra Giunta e Consiglio regionale in grado comunque di correggere eventuali sopraffazioni territoriali.

La cosa funzionò ed il momento di grazia fu costituito dalla ricostruzione del Friuli terremotato, peraltro in collegamento ed armonia con le leggi ed i provvedimenti emanati dallo Stato, sempre con l’occhio rivolto all’intera regione. In grado perfino di ammorbidire la rivolta “autonomista” della Lista per Trieste dopo il trattato di Osimo.

L’epoca d’oro finisce con gli anni 90 anche se un formale rispetto dei patti para politici rimane fino al 1998, per poi tramontare del tutto con l’elezione diretta nel 2003 del Presidente della Giunta Regionale, allora Illy, travolgendo sia l’equilibrio di poteri tra esecutivo e Consiglio sia i meccanismi di intermediazione territoriale.

La situazione di oggi è sotto gli occhi di tutti, con un “governatore” che si rivolge direttamente al popolo ed una concezione del potere che vorrebbe ridurre anche quelle poche garanzie che, pur molto limitate, tendevano a mantenere un ruolo per l’opposizione ed i territori, in campo elettorale e negli spazi delle autonomie locali (Consiglio delle autonomie e potenzialmente per le Assemblee delle comunità linguistiche).

Da qui l’emergere di impulsi rivolti a riaprire un dibattito sul futuro della Regione proprio ripensando ad una riorganizzazione di poteri, costituzionalmente riconosciuti e di prassi politica condivisa, che rimetta in campo sia confronti politici che specificità territoriali. Va segnalata l’azione dell’Associazione per la Terza Ricostruzione a partire dal documento del 2023 “Manifesto per un nuovo Friuli in una regione capace di futuro”, e quanto sta emergendo nell’attuale dibattito sulla “riscoperta” delle Province, in rapporto allo spazio per il Friuli Orientale in una ridefinita Provincia di Gorizia, alla domanda di forza istituzionale per la montagna, ma anche ad una nuova concezione del fiume Tagliamento e del suo ruolo nel territorio.

Che sia questo il momento giusto per un nuovo processo costituente che sappia cogliere come si fece 70 anni fa l’evolvere di uno schema vitale che riguarda i territori che compongono il Friuli e Trieste nelle loro implicazioni geografiche, geo politiche e di collocazione sociale ed economica nelle dinamiche dello stato italiano oltreché delle nuove relazioni globali?

Dalla Guerra Fredda al dilemma dell’Unione Europea

La prima osservazione è in realtà una domanda: il Friuli-Venezia Giulia o, come oggi si usa dire il Friuli Venezia Giulia (FVG), è una normale regione italiana del nord est assimilabile ad un “normale” rapporto con lo stato di appartenenza o contiene in sé alcuni elementi di criticità che richiedono, oltre ad una riflessione, anche strumenti istituzionali e costituenti di interpretazione? Detto in altri termini, in cosa può oggi configurarsi la continuità-rottura della stessa base della specialità, oltre al fatto che non è il caso di buttare via ciò che è spesso comodo ed utile?

E’ opinione diffusa tra i gruppi dirigenti politici che la particolarità della regione vada oggi ricercata nella faticosamente riconosciuta presenza di minoranze linguistiche diffuse nella quasi totalità dei Comuni della regione. Quasi un marchio di qualità a garanzia di uno strano esotismo che pur non avendo propositi dirompenti nei confronti dello stato “nazionale” ne caratterizza una peculiarità da valorizzare, più con messaggi propagandistici che con veri strumenti di gestione. Non è un caso peraltro che le competenze regionali in materia siano molto limitate e che non ci sia alcuna azione concreta per riformularle, se non con modifiche statutarie, almeno con norme di attuazione. Se, tutto sommato, il riconoscimento sloveno ha determinate caratteristiche, quello friulano appare incompiuto e quello tedesco semplicemente marginale. Su questi terreni c’è ancora molto da fare ma non credo si possa basare su tali oggettive questioni le caratteristiche di una specialità per la metà di questo secolo.

La questione di fondo va ricercata in una vecchia proiezione geografica: ogni qualvolta il mondo e/o l’Europa ricercano nuovi equilibri geo politici, da queste parti ci si deve mettere in allarme. Nessuno tra i pretendenti ad un qualsiasi “nuovo ordine” o “appetitoso disordine” può dimenticare questo angolo dove il Mediterraneo incontra l’Europa di mezzo e dove la penisola italiana si protende verso quella balcanica. Le cose cambiano relativamente nei secoli ma, con qualche fantasia, potremmo dire che il nocciolo della questione non cambia dai tempi dei “castellieri” (e degli Argonauti) all’odierno interesse del “trimarium” così prepotentemente evocato dagli analisti di Limes.

Non entro nel merito degli aspetti geo politici della questione, quali possano realmente essere le mire USA o le necessità tedesche in un quadro dove la rievocata “nazione” Italia, ideologia quotidianamente dominante di questi tempi, sembra volersi presentare in rampa di lancio in tema di difesa dei confini e magari di proiezione di potenza sul piano internazionale. In questo quadro generale di certo il Friuli e Trieste non possono continuare a definirsi come dei pacifici luoghi presidiati da più o meno abili produttori e commercianti, ma diventano un terreno dove l’intensità del “grande gioco” forse non li mette sulla linea del fronte ma sicuramente ne condiziona prospettive ed iniziative.

Se l’autonomia degli anni 60 fu la risposta della politica al peso territoriale di un fronte della “guerra fredda”, oggi si palesano due vicende che incidono sulla nostra geografia: la caduta e/o la messa in discussione di un ordine geo politico globale e la crisi del modello di Unione Europea fino a ieri garanzia sia di crescita produttiva sia di integrazione transfrontaliera. Una specialità adeguata serve per non esserne puri spettatori paganti.

E’ forse ammirevole il tentativo di nostri amministratori, Fedriga e Bini nello specifico, di ricercare investitori in giro per il pianeta (da New York a Osaka) che buttino l’occhio sulle potenzialità della Regione, magari su cose più serie che le dipendenze (BAT) e l’Udinese. Il mercato della finanza globale che ancora sopravvive ha da tempo rivolto lo sguardo sulle trasformazioni in atto nel nostro sistema produttivo e logistico e forse dovremmo pensare a come rileggere questi movimenti con qualche strumento di governo in più di quelli che abbiamo a disposizione, dopo la caduta di quanto caratterizzava l’autonomia regionale al momento della sua istituzione. Il grande libero mercato della UE e la caratterizzazione economica della spinta del nord est italico, innovazione, internazionalizzazione e ricerca di produttività, forse hanno bisogno di qualche interpretazione evolutiva del nostro territorio regionale per potersi confrontare con i vari “cigni neri” che con sempre più frequenza si propongono.

Diventa quindi inderogabile la ricerca di una dimensione dell’autonomia speciale regionale del Friuli e di Trieste che sappia confrontarsi con l’insieme di queste questioni in una realtà sociale per fortuna profondamente diversa da quella dei tempi della “guerra fredda”; fortemente integrata in una dimensione internazionale di prossimità e che proprio dentro questa può trovare qualità di risposte che esaltino potenzialità di miglioramento ma che permettano anche la costruzione di quelle doti di resilienza territoriale che costituiscono le fondamenta di un progresso reale duraturo.

Le basi di un nuovo patto costituente

La tesi qui proposta fa ritenere che la domanda di un aggiornamento-ridefinizione della specialità regionale vada oggi inquadrata considerando il F-VG (parte dello stato italiano) oggi particolarmente sensibile per il suo coinvolgimento, geografico, ambientale ed umano, nelle crisi dell’ordine globale ed in quella dell’arretramento dell’idea di unità europea.

E’ impensabile che la geografia politica del nostro territorio possa trovare uno spazio di rottura con quella dello stato italiano ma semmai deve trovare altre diversità geografiche di continuità sia all’interno dello stesso stato che al suo esterno. Esiste una geografia dello “sviluppo” economico che ha relazioni di contiguità con un ampio nord est che comprende sicuramente anche il Veneto; esiste una geografia climatica ed ambientale  (ed in parte anche linguistica) che, a partire da Vaia, lega le Alpi nord orientali Dolomitiche alle Carniche e Giulie e via oltre i confini di stato; esiste una geografia delle connessioni logistiche che attualmente privilegia l’asse sud nord dall’Adriatico al Centro Europa; esiste una geografia ambientale (e biologica) del nord Adriatico che lega le sponde (e le lagune) occidentali con le profondità ed il frastagliamento di quelle orientali; esiste una regione meteorologica di transizione e di scontro che ne caratterizza fenomeni (ad es. la bora e l’inquinamento dell’aria) di comunanza e di distacco dalla pianura padana.

La risposta politica all’intersezione di queste geografie nell’ambito della Regione Friuli-Venezia Giulia ed al complesso quadro geo politico di riferimento va trovata in una proposta di aggiornamento della specialità che sia in grado di rispondere al almeno tre questioni:

  • serve un adattamento della società e dell’economia ad esigenze di resilienza capaci di gestire gli shock della attuale post modernità, in un quadro di auto centratura di “vicinanza praticabile”. Una qualche sovranità a geometria variabile in materia energetica, agro-alimentare e di residenza abitativa può essere perseguita;

  • va costruito un avanzamento del ruolo delle “minoranze linguistiche” e delle identità plurime che contraddistinguono le comunità ed i territori regionali attraverso poteri di promozione e di stabilizzazione istituzionale. L’occasione dell’attuale dibattito sul sistema degli enti locali non può essere banalizzato;

  • alla Regione servono poteri per una ricostruzione innovativa delle relazioni transnazionali e internazionali che sappiano interpretare le diverse evoluzioni secondo il punto di vista della prossimità e della pluralità degli stimoli e delle opportunità. L’esistenza di una Regione europea naturale convenzionalmente interpretabile come Alpe Adria deve potersi tradurre in qualcosa di più che dei concerti.

Questa rilettura dell’autonomia speciale regionale deve saper andare oltre, nelle specifiche richieste di aggiornamento, ed anche nella pratica di potenzialità già oggi esistenti, alla pura ricerca di spazi difensivi di “sovranità territoriale”. Alcune emergenze dell’oggi a cui si deve rispondere sembrano spingere in questa direzione:

  • calo e invecchiamento della popolazione a ritmi superiori ad altre realtà;

  • rarefazione di presenza umana in spazi territoriali diffusi;

  • forte presenza di immigrazione;

  • emigrazione giovanile di alta formazione e competenza;

  • stagnazione reale nei dati economici.

Negli anni 50 e 60 del secolo scorso una società depressa socialmente ed economicamente, particolarmente in Friuli ma con caratteristiche diverse anche a Trieste e nei residui della ex Venezia Giulia, rischiava di non potersi confrontare con il conflitto determinato dalla cortina di ferro. Oggi il riaccendersi delle tensioni e delle dinamiche internazionali impone una lettura non agiografica delle condizioni di base del percorso intrapreso dalle comunità regionali e della capacità di adattamento che ne può derivare. Le cinque tendenze negative sopra segnalate costituiscono un peso che può fare molto male ed impedire molte risposte di interpretazione e di reazione a quanto il mondo ci propone.

Si tratta peraltro in tali casi di tendenze generali, particolarmente acute nel territorio regionale, che possono essere limitate ed accompagnate da politiche specifiche auspicabili (e talvolta praticabili nell’ambito di poteri attualmente attribuiti) ma che nella loro complessità non devono essere confuse con i nodi prima segnalati relativi ad una particolarità geografica e politica. Anzi, solo con la prioritaria aggressione di quei nodi potranno stabilirsi condizioni di vantaggio per soluzioni concrete delle varie emergenze segnalate.

C’è una differenza sostanziale con il passato del secolo scorso. Il patto di “fondazione” della Regione venne sostanzialmente stipulato a Roma sulla base di un dibattito interno delle articolazioni regionali del partito di forte maggioranza di allora, la Democrazia Cristiana. Attualmente la condizione è probabilmente inversa e dovrà ricevere una forte sanzione locale in grado di ricomporre le aspre tensioni esistenti e nel contempo non trovare ulteriori ostacoli nella “capitale”. Ma si deve trattare di una “componenda” di qualità e preveggenza, non certo un puro riequilibrio di interessi.

Rimane quindi in piedi il tema del percorso politico che può portare alla definizione di un “nuovo” e adeguato patto ri-fondativo di una istituzione quale la Regione Friuli-Venezia Giulia. Il quadro politico attuale orgoglioso e solitario nella gestione del consenso (e nella distribuzione delle risorse) fa fatica a comprendere la precarietà di fondo in cui governa. Non servono pertanto atti di forzatura di parte, quale ad esempio la granitica convinzione dell’utilità del ripristino delle Province, ma semmai serve un dibattito che non escluda nessuno e sappia far prevalere conoscenza e competenza.

Spazio ai territori nel patto ri-costituente

Ogni ragionamento finora esplicitato nasce da un tentativo di analisi oggettiva di motivazioni di fondo per un rilancio dell’autonomia speciale regionale del F-VG e prende come riferimento la instabilità politica del sistema italiano, rispetto a cui peraltro il quadro regionale apparentemente stabile cova la percezione di una provvisorietà da esorcizzare.

Proprio da questa ultima questione credo nasca la volontà di ripristino di istituzioni di “area vasta” identificati nelle “vecchie” Province quale strumento di controllo dei “territori”. Non ci saranno i prefetti statali ma, nella convinzione di una prevalente stabilità politica, i luogotenenti del “governatore”. Ne è prova l’inesistente autonomia finanziaria dell’ente che si vuole ricostituire e nessuna idea di ristrutturare realmente l’intero quadro dei rapporti tra Regione ed Enti Locali. Qualche competenza, particolarmente tecnica, e qualche spicciolo da distribuire.

In F-VG oggi non c’è alcuna potenziale aggregazione di alternativa politica, ma ci sono invece molti territori che scalpitano, pur ancora cercando soddisfacimento nelle relazioni interne alle forze politiche regionali. Cito esemplificando, Pordenone che si sente esautorata nella sanità, Gorizia che vive la debolezza della sua dimensione accusando (a ragione) Trieste di espropriarne asset e “il grande Friuli” di mire egemoniche, le zone montane i cui dati sociali ne preannunciano la sparizione.

Il terzo mandato di Fedriga non può alla fine non essere visto come una continuità perpetua di un potere assoluto arroccato nel rapace “castello triestino” con i suoi “missi dominici” sparsi a controllare il “contado”. Anche un sistema economico e produttivo di realtà diffuse non potrà accontentarsi a lungo di qualche ammorbidimento degli impulsi generali, europei e internazionali oltreché governativi statali, in nome di una logica prevalente di logistica portuale e di turismo.

Alla forzata questione della riammissione delle province l’opposizione politica attuale sembra contrapporre unicamente il lamento dei comuni oberati da contributi (richiesti) e incapaci di spenderli, con strutture ridotte all’osso “scarnificato” e con enormi difficoltà a fornire i normali servizi amministrativi. Di fatto gran parte dei Comuni del F-VG già provati dalle tre riforme e controriforme del nuovo secolo chiedono unicamente di respirare.

Forse può essere interessante coinvolgere in un nuovo riassetto istituzionale quelle realtà comunali potenzialmente aggregabili in schemi di città od aree metropolitane. Ne ha rilanciato tale proposta Lodovico Sonego con riferimento ad una norma di legge regionale esistente e risalente al periodo Illy confortata peraltro dalla modifica statutaria del “perfido” Russo negli anni di Serracchiani. Oltre a Trieste (con o senza il suo contorno), Udine (con il suo sistema urbano di 200.000 abitanti), Pordenone (con la conurbazione dei 100.000), Gorizia (anche trans statale) e forse Monfalcone (con i loro aggregati di 50.000) possono, per Sonego, costituire il cuore pulsante di un sistema plurale, progettato in ogni polo per le sue caratteristiche.

Ma oggi sono soprattutto le aree non urbano centriche ad esprimere un forte dissenso sullo status quo e ad immettere in campo proposte di una certa rilevanza. L’irrompere nel dibattito politico di Aquileia con la sua centralità storica ed il rilievo che oggi può avere pensarsi parte della vecchia contea di Gorizia, su cui è ancora modellata la Diocesi, ha acceso interessi ed animi non solo culturali. Analogamente la riscoperta ambientale, naturale e storica del Tagliamento nel suo percorso non montano e non inquadrabile nel solo tema della sicurezza idraulica, ha fatto emergere nuove relazioni tra le due sponde del fiume ed una oggettiva contiguità relazionale. Così come nuove relazioni si stanno sviluppando nelle aree della ex cortina di ferro della “provincia” di Udine, dal Natisone al Tarvisiano, per il riconoscimento di una comune dimensione istituzionale che sappia valorizzare la presenza delle minoranze e favorire le iniziative di comunanza trans frontaliera. Senza dimenticare il tema dei territori della Bassa friulana ed in particolare dell’area peri-lagunare la cui rivolta ha impedito la realizzazione dell’acciaieria proposta da Danieli-Metinvest e finita a Piombino.

Le acque regionali non sembrano molto agitate, i sondaggi danno consensi molto alti, ma forse le correnti profonde e carsiche possono presto emergere. Lo schema verticale di governance regionale, inquadrabile mutuando uno slogan geo politico di moda, presidente (“governatore”) sopra, consiglio regionale sotto, gli altri (istituzioni e società) clienti, presenta tracce di ruggine. Continuare a perseguirlo, prima o poi, darà sicuramente un effetto di enantiodromia1. Prenderne atto in tempo può essere una cosa saggia per tutti.

1 https://it.wikipedia.org/wiki/Enantiodromia

* Giorgio Cavallo. Attivo in politica dai primi anni Sessanta del secolo scorso, è stato consigliere regionale di opposizione per tre legislature e per due mandati assessore all’Urbanistica e alla Mobilità del Comune di Udine, presidente regionale di Legambiente FVG negli anni Novanta e Duemila. Saggista, ha decine di pubblicazioni all’attivo. Collabora con testate di informazione locale su temi di attualità politica, sociale ed economica.

da https://ilpassogiusto.eu/un-nuovo-patto-interpretativo-per-rifondare-la-regione/

 

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