«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»
Manifesto di Ventotene
«Benvenuta la vita». Con queste parole Emilio e Tina, più o meno tre settimane fa, hanno salutato l'arrivo nella nostra casa di Baloo, un cucciolo di pastore maremmano che vi ha fatto irruzione con la gioia di chi scopre la vita.
Se c'è un'espressione che forse più di altre può dirci di Emilio Molinari, credo sia proprio questa, benvenuta la vita. Potrebbe sembrare banale, perché certamente Emilio è stato, nel suo impegno sociale e politico, tanto anzi, tantissimo altro. Ma nel suo percorso umano che pure si intreccia indissolubilmente con quello politico, questo tratto – la gioia di vivere – emergeva più di ogni altro. Nell'affrontare le sfide sempre nuove che gli si presentavano davanti, nella curiosità con la quale si apriva al mondo, nella sensibilità del rinnovare il pensiero come nel non arrendersi alle patologie che di volta in volta si è trovato ad affrontare. Emilio amava la vita come pochi. Ha attraversato il suo tempo con la voglia di esserci e insieme di comprenderne i segni.
Basterebbe percorrere il suo tragitto per comprenderlo. Emilio è stato parte di una generazione nella quale un perito industriale della Borletti poteva divenire classe dirigente. Minoranza politica, s'intende, ma capace di declinare la condizione operaia con la conoscenza dei processi produttivi, la vita reale con lo sguardo sul mondo. E di trasferire questo sapere fin dentro le istituzioni della sua città, la Milano a cavallo fra gli anni '60 e '70, quel «laboratorio unico che produsse l'autunno operaio più lungo e il conflitto sociale più ricco» dove «si mischiavano volontà di cambiare e serietà, ideali forti con moderazione e ordine, fede e bisogno di cose concrete, ragionate, non urlate, non banalizzate in frasi ad effetto...»1. Era la milanesità che amava anche a dispetto dei tempi, straordinariamente raccontata da Enzo Jannacci in “Ohe! Sun chi”2, brano che nel nostro viaggiare ascoltammo con emozione.
Non intendo ripercorrerlo questo tragitto, perché già tanti amici l'hanno fatto in queste ore. Ma quel rigore non fu per nulla estraneo alla capacità di legare coscienza operaia ai temi ambientali che irromperanno in quegli anni, dalla vicenda di Seveso come nella scelta nucleare che investiva la regione Lombardia con la costruzione della centrale di Caorso. Grumi di un pensiero che ne segnarono le scelte e che ancora oggi fatica a delinearsi come un'altra visione del mondo.
Nel 1984 Emilio venne eletto nel Parlamento Europeo. Non ci rimase a lungo. Erano i primi giorni di gennaio del 1985 al Lago di Bohinj, nell'allora Jugoslavia ed Emilio avvertì i primi sintomi del suo cuore malandato. In quei giorni eravamo lì, insieme a Tina e Gabriella, immersi nello spettacolo innevato di quell'angolo di Slovenia ai piedi del Triglav. Ricordo lo stupore di Emilio nell'osservare le acque cristalline della Sava Bohinjka che affluivano nel lago per poi versarsi più a valle nella grande Sava. Era l'ecosistema danubiano, ma ancora non sapevamo che quelle acque ci avrebbero accompagnati per un tratto importante delle nostre vite. Tornato a Milano, lo operarono d'urgenza, iniziò la riabilitazione ma di lì a qualche mese dovette dimettersi dall'incarico europeo.
Un passo indietro, certo, ma per tornare più vitale che mai. Nel fatidico 1989, con il concludersi della nostra comune esperienza in Democrazia Proletaria, il nostro dialogo, la ricerca, l'impegno sui grandi temi del presente e nel rispetto delle scelte di ciascuno, non sono mai venuti meno. Emilio, nonostante la salute cagionevole, non si fece mancare proprio niente, nella politica attiva (venne eletto al Senato della Repubblica) come nella grande mobilitazione per l'acqua pubblica di cui fu straordinario protagonista e di cui rivendicava il successo, malgrado l'imbarazzo di quella politica che in larga misura quel referendum non l'avrebbe voluto.
Nel mezzo la capacità di indignarsi e di fare sentire la sua voce ovunque vi fosse dolore e sofferenza. Emilio non si tirava mai indietro. Era a Zavidovici (Bosnia Erzegovina) durante la guerra con Agostino Zanotti nei luoghi dell'eccidio dei volontari bresciani; nella Selva Lacandona (Chiapas) a conoscere i protagonisti dell'insurrezione zapatista; a Diyarbakr (Kurdistan) con il Contratto mondiale dell'acqua;a Gerusalemme insieme all'amico Ali Rashid che da poco ci ha lasciati, per comprendere da vicino quella tragedia senza fine; lungo il Danubio nella prima navigazione di quel grande fiume fino a Belgrado dopo “la guerra dei dieci anni” e così via.
Più passava il tempo e più con Emilio ci sentivamo in sintonia. Nei nostri viaggi, vere e proprie immersioni nel presente, fra i colori di San Cristobal de las Casas e la raffinatezza di Sarajevo, nell'orgogliosa unicità della Sardegna e nella bellezza dei monasteri della Bucovina. Nel ritrovarci con l'amico Massimo Gorla, nella casa di Joan a Camogli, almeno fin quando è stato possibile, dove la tavola imbandita ci riconciliava pur nelle avversità. Nell'intimo delle lunghe conversazioni telefoniche dove emergeva il piacere del pensiero libero rispetto alle vulgate dei nostri piccoli mondi. E, infine, nel valore che riconoscevamo al “genio dell'amicizia”, nel tessere da vicino e da lontano i nostri pensieri, nel coltivare lo spirito critico verso di sé e il proprio tempo, come una forma di resistenza al buio della ragione.
A guardar bene, quell'amicizia era il vero privilegio delle nostre esistenze, quel che rimaneva ad una generazione che per un momento pensò di avere il futuro nelle proprie mani. Se l'assalto al cielo non era nelle possibilità, in alcuni cercammo almeno di capirne il perché. E questo riguardava – ne parlavamo spesso con Emilio – in primo luogo la coscienza del limite. Quel messaggio, malgrado Francesco e la Laudato sì, non ha ancora cittadinanza, ma almeno avrebbe potuto attenuare l'angoscia per un'eredità (il vuoto di futuro) di cui non si può certo andare orgogliosi.
Quel che rimane è la tensione che ci aiuta a ricomporre la Storia con l'esistenza del singolo individuo. Nella nostra amicizia, caro Emilio, penso di averla avvertita e di questo ti ringrazio. Dovremmo imparare che l'amore per la vita risiede nelle piccole cose, come in una gardenia che fiorisce da venticinque anni di cui Massimo ci fece dono prima di andarsene.
Michele
1Emilio Molinari in “Massimo Gorla: un gentiluomo comunista”, a cura di Roberto Biorcio, Ida Farè, Joan Haim, Maria Grazia Longoni. Sinnos editrice, 2005
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