«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»
Manifesto di Ventotene

Cinque per cento in armi… Forse “solo un dio ci può salvare”

La potenza del denaro

di Marco Revelli *

(10 luglio 2025) Il cinque per cento del PIL!!! Quando al vertice NATO dell’Aja del 24 e 25 giugno il Segretario Generale dell’Alleanza Mark Rutte ha sparato quella cifra iperbolica, in molti hanno pensato che fosse una sorta di scherzo, come dire? Un corollario dell’imbarazzante messaggio grondante servilismo da lui indirizzato, la vigilia, a Donald Trump, da prendere come la captatio benevolentiae di un maggiordomo zelante priva di valore reale. Un grido nel buio per confermarsi di esistere…

Quella percentuale corrisponde a una cifra terrificante: quasi un trilione di euro. Mille miliardi che ogni anno i Paesi europei aderenti alla Nato si impegnano a spendere dal 2035 per il settore militare . Un malloppo che fa impallidire il già mostruoso ReArm Europe di Ursula von der Layen. E che costituisce più del triplo dell’attuale spesa militare dei Paesi UE consistente in circa 330 miliardi, mica poco dal momento che già ora(!) rappresentano il doppio della spesa militare russa, la quale nel 2024, in piena guerra con l’Ucraina, non ha superato i 150 miliardi.

Basterebbe anche solo un’occhiata a queste ultime cifre per smontare la roboante macchina argomentativa che vorrebbe descrivere un’Europa disarmata, nuda di fronte alla minaccia incombente di un Putin armato fino ai denti e assetato di conquista. Non ci sarebbe neppur bisogno di scomodare la geopolitica e la storia delle culture per dimostrare che  l’immagine di una Russia assetata di conquista verso le disarmate pianure dell’Ovest non sta in piedi. Dovrebbe bastare l’aritmetica. Il banale calcolo delle risorse (sproporzionate) già da ora disponibili tra i due campi, per dissipare la paura. Ma Rutte non scherzava affatto. E nemmeno i suoi servizievoli ascoltatori hanno fatto un plissé davanti a quel pozzo senza fondo prospettato all’Aja. Tutti, tranne l’ardimentoso Pedro Sanchez, hanno piegato il capo e aperto i portafogli. Non perché credano davvero alla fola dell’imminente “invasione” (l’intelligenza non è certo il loro forte, ma stupidi fino a quel punto non sono), quanto piuttosto perché, per quell’animal istinct che caratterizza le leadership postmoderne, fiutano la grande occasione per poter finalmente rastrellare la (residua, e sudata) ricchezza dei loro sudditi per convogliarla con facilità nei circuiti finanziari che sono i loro veri committenti.

Per dirla nel modo più brutale, quella che è andata in scena all’Aja, e pochi giorni dopo a Bruxelles, è stata una grande rappresentazione che ha utilizzato il più elementare sentimento umano da quando esiste la Storia, ovvero la Paura – e quella paura per eccellenza che è la paura dell’invasione nemica e della sottomissione violenta -, come espediente narrativo per mascherare e giustificare una gigantesca operazione di disolocamento della ricchezza sociale dalla Cittadinanza alla Finanza. 1.000 miliardi di Euro di gettito fiscale sottratti ogni anno ai servizi ai cittadini europei (sanità, istruzione, welfare, manutenzione del territorio, ecc.) e convogliati nelle disponibilità dei grandi fondi d’investimento internazionali e nel mercato borsistico all’interno del quale le società produttrici di armi e il loro immenso indotto saranno sempre più centrali.

I grandi predatori globali – sempre i soliti – si sono già attrezzati. Dall’anno scorso “gira” sulla piattaforma HANetf un ETF (ovvero uno strumento finanziario per chi vuole partecipare al grande gioco di Borsa) che replica esattamente un indice NATO costituito dalla spesa militare dei paesi membri (più questi investono in armi, più il titolo cresce di valore). Si chiama Global Defence ETF (NATO) e viene caldamente suggerito con la motivazione secondo cui “si prevede che il mercato della difesa crescerà a un CAGR del 5,6% a 718,12 miliardi di dollari entro il 2027 e il mercato della sicurezza informatica di un CAGR dell’8,9% nello stesso periodo” [il CAGR, per chi non lo sapesse, è il Tasso Annuale di Crescita Composto]. Una vera “galupperia” avrebbe detto mio nonno, pensata per rastrellare soprattutto investitori europei. Ma non è l’unico. Il più grande gestore patrimoniale del mondo, l’americana Black Rock, ha introdotto da pochissimo l’ iShares Defense Industrials Active ETF, “un nuovo fondo a gestione attiva progettato per coloro che sono interessati ad allineare i portafogli con la mutevole configurazione della difesa e della sicurezza globale”. Si aggiunge ai già attivi come l’iShares U.S. Aerospace & Defense ETF e l’iShares Cybersecurity and Tech ETF. Vanguard, per parte sua, il secondo gestore globale di fondi, propone almeno un ventina di ETF sul colosso tedesco delle armi Rheinmetall (in media hanno fatto segnare nell’ultimo anno una crescita oscillante tra il 240% e il 270%) e una decina sul nostro Leonardo (performance nell’ultimo anno intorno al 100%).

Il meccanismo su cui è strutturata questa grande operazione di spoliazione dei cittadini europei è tutto sommato semplice, anche se sufficientemente articolato per sfuggire allo sguardo delle sue potenziali vittime. Funziona più o meno così: i governi dirottano fiumi di denaro proveniente dal gettito fiscale o dal prestito pubblico verso le grandi industrie degli armamenti (compresa security e tutto quanto può essere ficcato nell’indotto militare); queste vedono gonfiarsi il fatturato e di conseguenza il valore delle proprie azioni; ciò attira sui rispettivi titoli ampi flussi di capitali in cerca d’investimento i quali accrescono ulteriormente il valore di quegli assets e soprattutto il volume di capitale controllato dalle grandi piattaforme di gestione degli investimenti globali che li commercializzano e dunque dilatano il loro potere già di per sé smisurato.

In tre mosse les jeux sont fait! I normali cittadini che si erano illusi di pagarsi con le tasse versate servizi decenti relativi alla salute, all’istruzione dei loro figli, alla sicurezza pubblica e alla tutela del territorio si troveranno in braghe di tela. La minoranza ricca a sufficienza per destinare parte del proprio reddito agli investimenti di borsa si potrà arricchire ulteriormente anche se moderatamente. Il capitale finanziario vedrà il tetto della sua bolla, che sembrava giunta al limite, spostato verso l’alto per almeno un’altra decina di anni grazie all’afflusso di capitali prima indisponibili. Gli undici trilioni di dollari amministrati da Black Rock, i 9 di Vanguard, i quasi 4 di Morgan Stanley, i quasi 3 di Goldman Sachs potranno dilatarsi ancora un bel po’. E noi sappiamo bene quanto vitale sia, per questi mostruosi plantigradi dell’antropocene, continuare a crescere, perché se si dovessero mai fermare (o, dio non voglia, dimagrire un po’) si sgonfierebbero come una vescica di maiale.

A questo punto proviamo a fare un piccolo esperimento, così, tanto per cercare di capire come funziona la democrazia nel nostro intristito Occidente. Proviamo a dare un’occhiata alle biografie professionali di alcuni tra i principali decisori pubblici europei che si son fatti fautori di questa “operazione”. Prendiamo Merz, ad esempio, l’uomo alla guida della locomotiva che traina il riarmo europeo. Beh, il nuovo Cancelliere tedesco ha lavorato, dal 2016, il periodo in cui Angela Merkel riuscì a metterlo ai margini nella CDU, come presidente di Black Rock Deutschland. Ne diede notizia il Wall Street Journal del 17 gennaio di quell’anno con un ampio articolo intitolato BlackRock Hires Former Merkel Deputy for Its German Operations (“BlackRock assume l’ex vice della Merkel per le sue operazioni in Germania”). Nel testo si affermava che “avendo una fitta rete politica, ci si aspetta che Merz sostenga le relazioni di BlackRock con i politici e i grandi clienti in Germania”. Non stupisce che oggi sia lui – la notizia è fresca fresca – a proclamare che non solo la Russia ci attaccherà entro il 2029 ma addirittura che l’attacco è già in corso (Deutschland werde von Russland angegriffen). Ne da ampia notizia il settimanale tedesco “Der Spiegel”, il quale commenta osservando che per la verità “chi vede le immagini dall’Ucraina, chi guarda il documentario di Netflix sulla seconda guerra mondiale, non arriva a questa conclusione”, ma da buoni tedeschi, avendo parlato il Capo, e avendo egli addotto alcune prove del suo dire (cavi sottomarini distrutti nel Mar Baltico, caserme dell’esercito tedesco spiate con droni, fake news generate dall’intelligenza artificiale”…), sospendono il giudizio e prudentemente dedicano la copertina a un disegno di droni sfarfalleggianti nel cielo sopra Berlino.

Oppure prendiamo la stessa Ursula von der Layen, che quattro anni fa era finita sotto attacco per aver fatto assegnare dalla Commissione Europea alla stessa Black Rock una ricca consulenza diretta a orientare le politiche green dell’Unione (allora era quello il campo da mietere per intercettare i grandi flussi di denaro, poi avrebbero scoperto la Guerra…). E d’altra parte è ben noto che Emmanuel Macron, prima di mettersi a giocare a monsieur le President, aveva lavorato dal 2008 come managing director presso la banca d’affari Rothschild & Co la quale non avrà le dimensioni abnormi delle equivalenti americane ma ha comunque un robusto ramo dedicato all’ asset management e quindi, di recente, alla promozione nel campo degli investimenti militari. Né possiamo trascurare Keir Starmer, la terza gamba del club dei “volonterosi”. I suoi spin doctors amano ricordarne le umili origini, il padre operaio che gli diede il nome del fondatore del Labour, i diritti civili nella cui difesa si era dedicato come avvocato, ma la sua metamorfosi verso il blairismo è piuttosto precoce, la sua conversione alla linea dura come giurista di Stato ampiamente conclamata, la scorrettezza con cui si dedicò alla liquidazione di Jeremy Corbyn e della sinistra laburista con la falsa e vergognosa accusa di “antisionismo” ben nota. Soprattutto, Starmer passerà alla storia come colui che ha consegnato il Labour alle lobbies – in particolare quelle legate agli armamenti – a cui ha dato come mai prima “la penna per scrivere la politica”. Il programma con cui il partito ha affrontato le ultime elezioni è stato elaborato, infatti, attraverso uno stretto, quotidiano e sistematico lavoro di collaborazione con i lobbisti della “City di Londra e del più ampio settore dei servizi finanziari di cui la City è al centro”.  openDemocracy – la piattaforma mediatica internazionale indipendente dedicata alla promozione dei diritti umani e della democrazia -, al termine di una lunga, meticolosa indagine, ha documentato come nell’anno precedente alle ultime elezioni politiche grandi gruppi economico-finanziari come “BlackRock, Macquarie, HSBC, Bloomberg, Lloyds, Brookfield Asset Management e Blackstone […] si sono assicurati l’accesso ai principali membri del nuovo governo, tra cui Starmer, Reeves, Reynolds e il cancelliere del Ducato di Lancaster, PatMcFadden”. Il Rapporto cita, tra gli altri, un incontro riservato in una sala riunioni nelle Churchill War Rooms, nel marzo del ’24, dell’ allora segretario ombra alla Difesa del Labour, John Healey e del ministro per gli appalti della Difesa Chris Evans, “con i dirigenti di 20 dei maggiori produttori di armi del mondo, tra cui BAE Systems, Leonardo, Lockheed Martin, RTX, Rheinmetall e Rolls Royce”. E ricorda come da allora “gli esponenti del Labour hanno incontrato i rappresentanti delle aziende della difesa in almeno 13 occasioni, tra cui due visite ai siti gestiti da BAE Systems e dall’appaltatore tedesco della difesa Rheinmetall”.

E che dire di Rutte? Dell’ineffabile Segretario generale della NATO Mark Rutte, che sembra un vermicello quando si prosterna davanti a Donald Trump e tira fuori gli artigli quando si tratta di piegare gli altri membri dell’Alleanza? Lui viene da Unilever, del cui top management ha fatto parte dall’inizio degli anni ’90. E a chi appartiene Unilever? A Black Rock e a Vanguard, manco a dirlo, che ne controllano circa 150 miliardi di capitalizzazione (85 miliardi e mezzo The Vanguard Group e quasi 71 miliardi Black Rock Fund Advaisors: sono i primi due controllanti). Gira e rigira, in questo gran tour de’ quattrini, da qualunque parte lo si percorra si incontrano sempre le stesse stazioni di posta, con gli stessi ufficiali pagatori, per conto del solito “covo d’assassini”…

La domanda che sorge spontanea a questo punto è: ha ancora senso parlare di democrazia a proposito dello stato di cose presente? A cosa si è ridotta quella parola magica che questo esausto Occidente continua a inalberare come bandiera di una propria presunta superiorità morale? Norberto Bobbio, circa mezzo secolo fa, quando il processo degenerativo stava per muovere i primi passi, in un denso volumetto dal titolo Il futuro della democrazia, invitava a riflettere sulla distanza possibile, quando si tratta dei grandi temi della modernità politica, tra “gli ideali e la rozza materia”, ovvero tra i principii fondamentali e la pratica quotidiana. Ebbene oggi dobbiamo constatare che quella distanza si è fatta tanto abissale che i primi sono diventati ormai invisibili tra le pieghe fangose di una materia tanto rozza dall’essere diventata improponibile: un gioco truccato in cui le vittime della grande spoliazione sono chiamate a scegliere non i rappresentanti propri ma di coloro che li depredano. E noi, noi che almeno in parte abbiamo incominciato a intravvedere, tra le nebbie di un’informazione allineata, i meccanismi dell’inganno, quanto a lungo potremo continuare a illudere e a illuderci che in fondo non tutto è perduto. Che si può – anzi, per dovere civico si deve – partecipare a quel gioco in cui il banco vince sempre, stretti tra l’esercito di chi (ormai una buona metà della platea), forse avendo intuito la vanità dell’esserci, si chiama fuori e diserta il voto e quanti, per inerzia, per antichi valori, per orrore della “diserzione”, continuano a partecipare al rito legittimando di fatto il meccanismo che li tradisce.

Rebus sic stantibus la partita appare (è) disperata. Abbiamo di fronte l’infinita potenza del denaro, che decide i nostri destini nell’alto dei cieli, impalpabile e intoccabile da noi che stiamo con i piedi sulla terra, invisibile se non nei numeretti verdi e rossi degli indici di borsa indecifrabili dai più. Affrontarla con le armi tradizionali della Politica appare una mission impossible. Forse è venuto il momento di rovesciare il tavolo. Di spostare il terreno della sfida più in alto e più in profondo. Di mettere in discussione non solo le forme dell’esistente ma la sostanza dell’esistenza. Di passare a una critica radicale di quell’antropologia sconvolta che dalla Rivoluzione industriale in poi – attraverso la catena alienante che va dall’homo faber e dall’homo oeconomicus dell’epoca del ferro e del cemento, passando per l’homo ludens e dall’homo videns di quella della grande smaterializzazione delle cose e del lavoro, per arrivare fino all’homo necans di oggi -, ci ha portato a essere nemici di noi stessi. E lavorare alla ricostruzione dell’homo vivens, che ponga la forza non alienata del proprio vivere (e sopravvivere) al vertice delle proprie aspirazioni. Compito più simile a quello del miglior pensiero religioso che ormai non vive più qui, in Occidente, che non del consumato pensiero politico. Ma tant’è. Forse, al punto in cui siamo,  davvero “solo un dio ci può salvare”. O, quantomeno, una parola che abbia la potenza di rottura dell’antica voce visionaria dei profeti.

* da https://volerelaluna.it/

 

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