«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»
Manifesto di Ventotene

Aree interne e il darwinismo istituzionale

Viaggio nelle terre dell'osso (Apice)

Per il Piano governativo senza investimenti l’area interna appenninica. Al posto di servizi per il futuro (la scuola) più welfare per gli anziani: è la logica dell'estinzione dei superstiti

di Filippo Barbera, Domenico Cersosimo, Antonio De Rossi, Carmine Donzelli *

Irrimediabile, irreversibile, inevitabile sono parole che non dovrebbero comparire nel vocabolario della politica. Anche per questo sono comprensibili le critiche di queste settimane da parte di giornalisti, sindaci, movimenti e associazioni nei confronti del presunto “irreversibile” declino demografico di una moltitudine di paesi dell’interno italiano contenuta nel Piano strategico nazionale delle aree interne (Psnai) della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Coesione Territoriale (marzo 2025).

Come è ormai è noto, il Psnai prevede che “un numero non trascurabile” di comunità interne con “una struttura demografica compromessa non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma non possono nemmeno essere abbandonate a se stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita” (Psnai, pp. 45-6).

Uno scivolone politico che lascia senza respiro: il governo e la politica, i motori primi della trasformazione possibile e del cambiamento, che accettano e programmano l’“inevitabilità”, che assumono le tendenze come meccanico destino atteso. La demografia, nell’idea del governo, risponderebbe a leggi uniche e ferree, ineluttabili, senza rimedio; una prospettiva che non mette a sistema le numerosissime esperienze di rigenerazione territoriale che, dalle Alpi agli Appennini, hanno visto la rinascita di paesi di volta in volta dati per morti.

Quando sono scritti nei piani governativi, anche gli scivoloni implicano effetti rilevanti sulla realtà, a prescindere se si tratti di una vera o falsa “irrimediabilità”. Perché, appunto, le parole sono pietre che funzionano da indizi e tracce rilasciate in situazioni di basso controllo, “tic” di campo che danno il segno di qualcosa di più profondo. Con importanti conseguenze. Numeri, parole, narrazioni prescrivono fatti, rappresentazioni che condizionano i racconti e l’interpretazione della quotidianità, generano immaginari, stratificano discorsi e sentire comune, modificano la matrice delle opportunità, inducono aspettative, influenzano la costruzione delle agende dei decisori politici locali.

Se il governo scrive in un piano ufficiale che migliaia di comuni sono condannati all’estinzione è come se spingesse a determinare credenze sociali depressive, l’insinuazione nelle élite locali dell’inevitabilità della resa, dell’inutilità degli sforzi per contrastare l’incenerimento. La narrazione sullo spopolamento irreversibile diventa un dispositivo performativo che induce sfiducia, orientamento esclusivo al breve termine, un’ombra che abbassa l’attenzione sui servizi istituenti di futuro, le scuole innanzitutto, e di contro enfatizza il welfare per gli anziani, dei servizi di accompagnamento, per l’appunto, all’estinzione dei superstiti. Il disastro annunciato è tanto più evidente se si considera che la grande maggioranza dei comuni che sarebbero destinati all’estinzione umana definitiva interessa il Mezzogiorno interno, appenninico. Una perdita immane.

Il determinismo non si addice alla demografia. La storia umana mostra un’infinità di casi di inversione delle tendenze, di declino e rinascita di comunità locali, di luoghi rarefatti che sperimentano neo-popolamento. Lo spegnimento demografico di un luogo non è iscritto nella tavola del destino. Diventa inevitabile se si sottraggono sistematicamente potere decisionale e spazio per esercitare la voce ai sindaci, ai consigli comunali, alle associazioni e ai singoli che abitano i paesi interni; se si tagliano trasferimenti monetari ai comuni che si traducono in smantellamento del welfare locale e in un progressivo depauperamento delle capacità progettuali e amministrative; se si persegue un darwinismo istituzionale che cancella o ridimensiona drasticamente la platea degli attori pubblici locali, se si sciolgono le comunità montane, se si declassano le province, se si depotenziano le istituzionali intermedie; se si inibisce la possibilità per gli elettori delle aree marginalizzate di eleggere propri parlamentari e consiglieri regionali a causa di collegi elettorali molto grandi, fuori portata per candidati che abitano in circondari con pochi elettori.

Il benessere non può essere delegato a soggetti terzi, lontani: una buona vita pubblica presuppone densità, protagonismo e rappresentanza istituzionale, così come un buon vivere individuale presuppone attivazione delle persone, singole e associate, una loro legittimazione come soggetti politici dotati di capacità di futuro e non come passivi individui bisognosi o come abitanti di luoghi che non resta che accompagnare verso una dolce e inevitabile morte.

* Associazione Riabitare l'Italia

 

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