«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»
Manifesto di Ventotene

Il messaggio politico del terremoto urbanistico milanese

da Il passo giusto

di Riccardo Laterza *

(21 luglio 2025) Commentare una sentenza è già di per sé discutibile e complicato, figurarsi commentare quello che è soltanto l’avvio di un’inchiesta, della quale traspaiono di giorno in giorno elementi parziali sui giornali. Tuttavia, c’è un dato extragiudiziario evidente legato alle indagini sull’urbanistica milanese: queste hanno, intenzionalmente o meno, messo al centro dell’attenzione un dato politico che, al netto dei risvolti penali, era già ben noto a tutti: il modello di sviluppo milanese, quello che da alcuni è definito il “grande successo” del capoluogo lombardo, è non solo trainato, ma nei fatti interamente governato dalla speculazione immobiliare e dalle sue dinamiche, in larghissima parte slegate dall’andamento dell’economia reale e dalla ricerca di una risposta ai bisogni della maggioranza sociale di chi abita, o vorrebbe abitare, la città, a partire dal bisogno di avere un tetto sopra la testa.

Quella dell’“urbanistica facile” è, d’altronde, una vera e propria ideologia, che si è fatta largo nel senso comune dando per scontata una lettura della realtà tanto semplice e lineare, quanto falsa: la prosperità di un contesto urbano è determinata dalla facilità, da parte degli operatori privati, di realizzare sempre e comunque i propri investimenti; la realizzazione degli interessi di chi possiede i capitali coincide con l’interesse della città; è necessario attrarre gli investimenti, semplificare le procedure, agevolare le operazioni edilizie; qualsiasi regola, limite, obbligo, che si interpone tra l’interesse astratto dell’operatore privato e la sua realizzazione concreta, è perciò un ostacolo burocratico che va rimosso.

Il tracollo dell’urbanistica

Il ragionamento è fallace: ciò che è successo a Milano negli ultimi anni, in particolare da Expo in poi, dimostra concretamente che una libertà pressoché totale per la leva immobiliare non determina affatto un miglioramento delle condizioni di vita urbana, a partire dall’accessibilità alla casa. Le due dinamiche sono anzi sostanzialmente disaccoppiate: senza reali strumenti di controllo della dinamica edilizia, dei prezzi immobiliari e della rendita, la grande dinamicità dell’attività edilizia è stata accompagnata un aumento rilevante del costo della casa che, stante anche la stagnazione dei salari, ha nei fatti espulso fasce crescenti della popolazione dalla città compatta. Non c’è dimostrazione più plastica di quanto sia vuota la retorica dell’“interesse della città” in nome del quale questo meccanismo si è rafforzato nel corso degli anni, perché il modello Milano ha chiaramente dei vincitori e dei vinti. Lo spiega bene Alessandro Coppola in questo articolo del 2024, i cui concetti sono stati ripresi in parte, e in forma più tecnica, in quest’altro articolo scritto successivamente al tentativo nazionale di “sanare” le situazioni poste sotto la lente d’ingrandimento della Procura con il cosiddetto Salva Milano – qualcosa peggio di un condono.

I progetti che hanno attirato l’attenzione degli inquirenti – per citare un solo esempio, la sostituzione di un ex laboratorio di due piani con una torre residenziale di ventiquattro piani con 102 appartamenti, fatta passare per ristrutturazione edilizia effettuata in deroga al permesso a costruire e con oneri di urbanizzazione fortemente ridotti – evidenziano, al netto delle responsabilità penali, ciò che è stato sacrificato sull’altare dell’“urbanistica facile”.

Innanzitutto la cosiddetta qualità urbana, troppo spesso ridotta dai difensori dell’“urbanistica facile”a mero gusto estetico soggettivo, o a conservazione aprioristica dello status quo, quando invece si tratta di un valore che ha a che fare direttamente con i principi di buonsenso del garantire a tutti “aria” e “luce”, principi sui quali è fondata la pratica urbanistica almeno dalla Rivoluzione Industriale in poi. Difendere la qualità urbana significa, soprattutto in un quadro segnato dalla crisi climatica, costruire contesti di vita più salubri, sicuri e non ostili alle persone che li devono abitare: cementificare anche le corti interne di edifici preesistenti non è solo brutto – concetto di per sé opinabile – ma è un attacco alla qualità della vita delle persone e alla resilienza ambientale del tessuto urbano.

Ma a essere minato completamente alla base dalla tendenza all’“urbanistica facile” è anche qualsiasi ragionamento sulla tutela dell’interesse pubblico, sia sul piano degli standard urbanistici – quindi dei servizi garantiti alla comunità – sia sul piano dell’accessibilità alla casa – con le nuove costruzioni che alimentano, anziché calmierare, la crescita del prezzo del mattone. Le “Famiglie sospese”, come si sono autoproclamate le persone che, in mezzo a questa vicenda, hanno visto una parte consistente dei propri risparmi bloccati su case che ancora non esistono e che potrebbero non vedere mai la luce, oltre a essere tra le vittime di questa vicenda forniscono, con i costi che hanno dichiarato di aver sostenuto nella speranza di trasferirsi anche a molti chilometri dal centro di Milano, una testimonianza tragica di quanto poco quegli interventi avrebbero nei fatti risposto all’esigenza pressante di edilizia economica e accessibile.

Una città a misura di chi?

Quello che ha preso piede a Milano è un sistema fino a prova contraria legale, ma che già oggi, ben prima della chiusura dell’iter giudiziario, si può definire come profondamente ingiusto. Si tratta di una concezione dell’urbanistica in cui il pubblico ha abdicato dal governo di qualsiasi processo, si è spogliato di praticamente tutti gli strumenti in grado di catturare, almeno in parte, la rendita urbana, e in definitiva non intende in alcun modo assicurare l’equità e l’accessibilità alla città.

Ciò che colpisce negativamente non è dunque tanto che le istituzioni – sia la parte politica che quella tecnica – si confrontino, anche in maniera molto aperta, con ciò che istituzione non è (la società civile, inclusi gli attori economici). Quello che è grave è l’aver reso estremamente flessibile, fino a farlo sostanzialmente scomparire, il sistema di regole che è il “linguaggio” con il quale l’istituzione dovrebbe misurarsi con la società. Con quel sistema minato alla base la politica si colloca in posizione – intenzionalmente? – subalterna rispetto a qualsiasi altro potere, come spiegato bene dall’ex Sindaca di Barcellona Ada Colau.

A questo elemento strutturale si aggiunge anche quello della scelta degli interlocutori privilegiati di un’Amministrazione Comunale: in una battuta, molto più i fondi d’investimento che i sindacati degli inquilini. Su entrambi gli aspetti – indebolimento dell’architettura delle regole e scelta delle alleanze sociali sulle quali basare il proprio modello di città – l’aspetto più inquietante della vicenda milanese è che una parte consistente dell’attuale maggioranza di centro-sinistra e il centro-destra non sembrano offrire visioni politiche alternative; l’attuale opposizione a Milano (la stessa maggioranza nazionale che aveva ideato il Salva Milano) chiede strumentalmente le dimissioni di Sala e della sua Giunta, ma si può decisamente dubitare che al suo posto avrebbe agito in maniera diversa.

E in riva all’Adriatico? Il “modello Milano” alla busara

Spostandosi di qualche centinaio di chilometri ad est, in un’area dove la pressione speculativa immobiliare è certamente meno intensa rispetto a Milano, ma è molto più forte rispetto a solo qualche anno fa, si possono rintracciare alcuni “segnali deboli” di una tendenza allineata allo spirito urbanistico del tempo.

Sul fronte del controllo della rendita, è assolutamente Made in FVG l’invenzione – involontariamente comica – del concetto di “prima seconda casa”, la cui tassazione è stata ridotta. L’operazione, economicamente compensata dalla Regione ai Comuni attraverso le sue altre entrate fiscali, ad esempio l’IVA, dunque pagata anche da chi ha zero case di proprietà, ha ridotto ancora di più la possibilità di catturare un po’ di rendita immobiliare, e ha indebolito la leva fiscale che spingeva verso l’affitto gli immobili esistenti, senza ulteriore consumo di suolo e senza trasformazioni edilizie spericolate. Dall’istituzione dell’ILIA, sostituta regionale dell’IMU, gli spazi di autonomia della Regione sono stati giocati per ridurre la portata della tassa, secondo l’idea alquanto discutibile che una minore tassazione sugli immobili, per propria stessa definizione fermi, attrarrebbe maggiori investimenti in una logica competitiva rispetto alle Regioni contermini.

Anche sul piano delle regole urbanistiche la tendenza è quella di importazione del “modello Milano”, variante alla busara. Nell’estate del 2017 la Regione (Giunta Serracchiani) varò una legge sulla “semplificazione edilizia” che, tra le altre cose, recepì alcune norme varate a livello nazionale (Governo Renzi) che estendevano il ricorso alla SCIA in alternativa al permesso di costruire. Quella legge introdusse un nuovo articolo nel Codice Regionale dell’Edilizia, il 39bis, contenente una serie di interventi che era possibile realizzare in deroga a “distanze, superfici o volumi previsti dagli strumenti urbanistici”. Un primo piede nella porta, lentamente ma inesorabilmente scardinata, della pianificazione urbanistica comunale. L’articolo è stato poi modificato ben otto volte (due nel 2017, due nel 2019, una nel 2020, e ben tre nel 2024), crescendo come un bubbone, alla faccia della deregolamentazione e semplificazione. Nella sua versione attuale prevede che “sono ammessi anche in deroga alle distanze, alle altezze, alle superfici o ai volumi previsti dagli strumenti urbanistici e da regolamenti edilizi comunali, tutti gli interventi edilizi di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo, ampliamento e ristrutturazione edilizia (…) nei limiti del 50 per cento delle superfici utili e accessorie esistenti, ovvero in alternativa, nel limite di 200 metri cubi di volume complessivo in ampliamento per ogni unità immobiliare oggetto di intervento”.

A questa incredibile deroga generalizzata si aggiunge il fatto che, sempre secondo il Codice Regionale dell’Edilizia, per tutte queste operazioni è possibile usufruire di una semplice SCIA in alternativa al Permesso di Costruire (art. 18), e che se l’ampliamento è inferiore al 20% della superficie esistente non sono dovuti nemmeno gli oneri di costruzione (art. 30).

Messe così, possono sembrare norme abbastanza astratte. In soccorso a comprendere meglio gli effetti concreti di questa deregolamentazione stratificata ma costante c’è – sfortunatamente – la realtà: a Trieste, in via Udine, un’area della città prossima al centro dove persino i colori degli infissi sono sottoposti a tutela della Soprintendenza, sta sorgendo un nuovo palazzo di 10 piani e con un’altezza complessiva – 34 metri – quasi triplicata rispetto ai 12 metri dell’edificio originario (definito come “di interesse storico-testimoniale” dal Piano Regolatore) e ben superiore rispetto agli edifici contermini. L’intervento, che stravolge il contesto e impatta negativamente sugli altri immobili del circondario, è stato presentato come di semplice ristrutturazione. Passato attraverso una SCIA alternativa al Permesso di costruire, ha incredibilmente beneficiato anche dell’esenzione dal versamento degli oneri di costruzione, poiché rientra nel limite del 20% di aumento della volumetria complessiva, anche grazie alla risagomazione della parte a monte della struttura, e della conversione a parcheggio pertinenziale degli spazi ex commerciali del piano terra.

L’applicazione della norma regionale in un’area ricompresa nel tessuto consolidato della città è stata peraltro resa possibile da una modifica al Piano Regolatore, avvenuta nel 2018 in maniera alquanto inusuale: tramite un’osservazione, poi accolta dal Consiglio, formulata dagli Uffici Comunali a una variante al Piano redatta dagli Uffici stessi.

Il caso del mostro edilizio di via Udine è, chiaramente, solo di un piccolissimo assaggio – a scala molto ridotta rispetto ai suoi cugini maggiori milanesi – di ciò che già oggi può succedere a Trieste e nel resto della Regione se all’impianto normativo basato sul principio della deroga quasi assoluta a qualsiasi norma e limite stabilito a livello comunale si aggiungono anche altri ingredienti, ad esempio una politica sufficientemente spregiudicata e disinteressata all’impatto pubblico delle trasformazioni urbane, e un mercato immobiliare appena più vivace e affamato rispetto al passato. Ovviamente è facile immaginare che in via Udine più di qualcuno dei diciannove nuovi bilocali di 47 mq circa l’uno, soprattutto quelli vista mare, finiranno sul mercato degli affitti brevi, non rispondendo affatto all’esigenza crescente di case economicamente accessibili per chi a Trieste vuole viverci tutto l’anno, e non solo qualche giorno via AirBnB.

Il Re è nudo”, e non serve attendere che sia un magistrato a dirlo

Merita aggiungere un ultimo commento rispetto agli echi della vicenda giudiziaria sull’urbanistica milanese. Al netto dell’esito del processo, il fatto che sia un’inchiesta a gettare luce sulle storture, tutte eminentemente politiche, di un modello di sviluppo urbano come quello milanese, è una vera e propria sconfitta del concetto stesso di politica. Un’intera classe dirigente, che amministra la città ormai da lungo tempo, non ha evidentemente saputo, o voluto, interrogarsi su ciò che stava avvenendo e continua ad avvenire ad esito dell’applicazione del “modello Milano”, né rispondere alle numerose sollecitazioni di una società attraversata da tante contraddizioni, economiche e non solo, derivanti dal pieno dispiegamento di quel modello.

Da questo punto di vista il parallelismo con un’altra vicenda giudiziaria – questa in sede amministrativa – ovvero quella dell’ovovia Trieste-Porto Vecchio-Carso, è doveroso. Anche in questo caso, a prescindere da quello che sarà l’esito nelle aule di tribunale, non si può che registrare la pesantissima responsabilità politica della Giunta Dipiazza nel non aver voluto misurarsi politicamente con il conflitto generato dalla grande opera (inutile, per chi scrive). Gli interlocutori scelti dall’Amministrazione per legittimare la scelta di andare avanti a tutti i costi, contro il volere della maggioranza della cittadinanza, sono stati chiari fin da subito: le grandi aziende funiviarie che da anni propagandano il trasporto a fune come mezzo pubblico, per sopperire al crollo del mercato dell’impiantistica sciistica dovuto alla crisi climatica; e alcuni settori specifici dell’economia cittadina legati al turismo di massa. Chi ha posto legittime critiche, dubbi e contrarietà all’impianto, presentando anche soluzioni alternative, è rimasto sistematicamente tagliato fuori da un reale dialogo con la maggioranza.

Anche questo è un sintomo di un modello di sviluppo urbano iniquo ed escludente, che sta generando vincitori e vinti e che, già oggi, mostra a chi è disponibile a guardarli tutti i suoi limiti e la sua insostenibilità intrinseca. La consapevolezza politica di tutto ciò può arrivare anche prima che sia, eventualmente, un giudice a gridare “Il Re è nudo”. Per questo è fondamentale continuare a sviluppare un punto di vista radicalmente alternativo rispetto a un futuro di monocoltura turistica cui un pezzo importante di classe dirigente vorrebbe condannare la nostra città. Accanto a questo, è altrettanto cruciale una riflessione sugli strumenti dei quali la politica può e deve dotarsi per attuare concretamente un modello urbano costruito secondo i bisogni di chi abita la città: senza questi strumenti, anche un’eventuale alternanza elettorale rischierebbe di non scalfire la tendenza.

* Consigliere comunale di Adesso Trieste – da Il passo giusto – https://ilpassogiusto.eu/

 

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