«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»
Manifesto di Ventotene
di Michele Nardelli
(29 luglio 2025) Qualche mese fa è stato presentato dalla sezione di Trento dell'Istituto Nazionale di Urbanistica (INU) il docu-film “Hanno occupato il Santa Chiara”, dedicato ad una delle più importanti e significative iniziative di lotta degli anni '70 nella città di Trento. La grande sala del Teatro Cuminetti di Trento era gremita di gente, molti i capelli bianchi e, fra questi, molti dei protagonisti di quell'occupazione, un atto di illegalità che contribuì a cambiare il volto della città. Se oggi Trento è in cima alle graduatorie, per quanto effimere, sulla qualità del vivere e tanto apprezzata dai suoi visitatori, è anche grazie all'impegno di quelle persone e dei Comitati di Quartiere che, a partire dal Centro storico, si diffusero nei quartieri cittadini più popolosi, da Piedicastello a Cristo Re, da San Giuseppe/San Pio X a San Bartolomeo e, a seguire e in forme analoghe, in altre aree urbane. Sarebbe importante che questo movimento trasformativo venisse riconosciuto esplicitamente anche da parte delle istituzioni. E, a questo proposito, voglio ricordare che nel Centro Santa Chiara (ora in corso di ristrutturazione) non c'era alcun segno a ricordo di quel pezzo di storia.
Quella sera al Teatro Cuminetti fra i capelli bianchi c'erano anche i miei. Ma in cuor mio quelli che mi mancavano erano quelli negli ultimi anni un po' ingrigiti di Matteo. Perché se quell'occupazione è stata possibile, se per almeno due mesi quel presidio, fatto di incontri e parole, musica e momenti festosi (e quel che serviva a rendere possibile tutto questo, giorno e notte, dalla pulizia all'allaccio della corrente elettrica) lo si deve in particolare a quell'uomo timido e a volte scontroso ma dal sorriso buono e accattivante che era Matteo Di Menna.
Va ricordato che il vecchio ospedale Santa Chiara era stato abbandonato definitivamente cinque anni prima, lasciando dietro di sé macerie e sporcizia di ogni tipo. Riadattare – anche se in maniera del tutto provvisoria per il tempo dell'occupazione – quella grande struttura che nella storia della città era stato prima Monastero delle suore Clarisse (1229), poi Ospedale militare (1796) ed in seguito Ospedale civile, non era cosa da nulla. Un complesso di cui facevano parte anche l'antica Chiesa di San Michele (1145) anch'essa in stato di abbandono e riaperta al pubblico nel 1983, l'edificio che ospitava il lazzaretto, quello della Croce Rossa e l'area dell'ex Camera mortuaria che nel 1968 divenne la Comune Karl Marx e che oggi ospita il Polo umanistico della FBK. Ed infine la grande area verde e degli orti, divenuta nell'abbandono una sorta di discarica a cielo aperto.
Era un uomo libero, Matteo. A quel tempo di lavoro faceva l'idraulico, ma solo quando ne aveva bisogno. Lui e la sua proverbiale cassetta degli attrezzi furono indispensabili, in quella circostanza come in tutta quella stagione di feste popolari che seguirono, proprio nel Parco Santa Chiara oppure al Parco San Marco. In quell'estate del 1975 Matteo si mise a disposizione per l'occupazione, spesso s'incavolava se le cose non andavano come avrebbe voluto ma amava quelle situazioni, forse un po' borderline, in cui si sentiva responsabile ed apprezzato. Eravamo poco più che ventenni, lo spirito del tempo ci faceva sentire il futuro nelle nostre mani. Nelle notti di presidio eravamo in alcuni ad alternarci ma Matteo era una certezza. Quando a sera inoltrata le persone defluivano dall'area occupata e non c'erano manifesti da affiggere, nello spazio un tempo adibito all'accettazione iniziavano interminabili nottate di Risiko dove mettevamo alla prova le nostre abilità strategiche e anche geografiche (fu in quelle circostanze che imparammo dove fossero la Jakuzia o la Kamchakta). Matteo fra l'altro era maestro di scacchi e se, a tarda notte, rimanevamo da soli allora provavo a batterlo ma non c'era nulla da fare.
Mentre scorrevano le immagini del docu-film, proprio pensando a Matteo, mi veniva da riflettere sul fatto che nel ripercorrere le vicende (vorrei dire la storia) di quegli anni si dovrebbero riconoscere l'impegno e il lavoro silenzioso che ognuno di questi passaggi nasconde, persone che non solo finiscono nell'oblio (ci finiamo tutti) ma che almeno in questi momenti che vorremmo di maggior attenzione, andrebbero riconosciute per ciò che hanno dato. Dovrebbe essere così anche nella piccola storia di quello che diventerà il nuovo centro sociale, sottratto cinquant'anni fa da quella logica miope che ne avrebbe fatto un anonimo palazzone direzionale.
Per questo credo che al docu-film sull'occupazione di quello spazio vitale dovrebbe corrispondere, nella ristrutturazione che lo restituisce alla comunità, un segno visibile che riconosca il valore di quanti resero possibile quell'atto di amore verso la città evitando che quel pezzo di storia venisse canellato. Un murales, ad esempio, che fra gli altri ricordasse quel ragazzone dagli occhi dolci e intelligenti che ci ha lasciati il 29 luglio di cinque anni fa.
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