«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»
Manifesto di Ventotene

Qualcosa si muove sotto la superficie. Forse un altro modo di abitare la montagna.

Una veduta di Anversa degli Abruzzi © pizzodisevo - Flickr.

di Rita Salvatore *

Nel riflettere sulle dinamiche socio-relazionali attualmente presenti in molti luoghi delle nostre montagne risuonano con particolare enfasi le parole che James Clifford scrisse alcuni decenni fa in un testo divenuto ormai un classico delle scienze sociali contemporanee, con riferimento alla categoria di cultura identitaria.

Le culture non sono mai né pure né statiche: sono costantemente in relazione, attraversate da scambi, conflitti, prestiti, traduzioni […] ogni cultura è frutto di viaggi, migrazioni, transiti. I frutti puri impazziscono. Le identità più forti, quando isolate, marciscono. Le culture non si conservano, si vivono – in relazione, in tensione, in traduzione […] l’ibridazione è la condizione stessa della modernità.

Dunque, se è vero – come è vero – che ogni realtà sociale è in continuo movimento, senza confini netti tra centro e periferia, tra città e campagna, tra pianura e montagna, allora questa verità ci appare ancora più evidente oggi, soprattutto quando ci immergiamo nei paesi delle terre alte. Qui ci sono anche quei luoghi che il Rapporto Montagne Italia 2025 dell’UNCEM racconta come segnati da una “stagione del risveglio”: un’espressione che dice molto. Perché qui, dove per anni si è solo parlato di spopolamento e di declino, oggi si intravede qualcosa di nuovo. Per la prima volta dopo molto tempo, tra il 2019 e il 2023, più persone sono salite in montagna per andarci a vivere di quante se ne siano andate via: quasi 100.000 in più. Ma la vera sorpresa è che oltre 64.000 di queste sono italiane. Giovani, spesso ben formati, con idee, progetti, voglia di fare. Non una fuga verso luoghi lontani e isolati, ma una scelta consapevole. Si tratta certo solo di un segnale, ma carico di significato. Un segnale che invita a riflettere, perché – al di là delle previsioni più fosche e della condanna implicita contenuta nel nuovo Piano strategico per le aree interne emanato dal governo, che sembra decretare l’irreversibilità dello spopolamento in alcune zone – la vita continua comunque a pulsare. Sotto la superficie, qualcosa si muove. Forse un nuovo inizio. Forse un altro modo di abitare la montagna, trainato da nuovi abitanti e da nuove pratiche di vita, ma che evidentemente ha bisogno di essere consolidato e sostenuto attraverso un’altrettanto nuova stagione politica, per potersi imporre come un cambiamento strutturale e non solo congiunturale.

Comunità ibride che vivono nel presente

Nel tentativo di stringere l’obiettivo dai numeri sulle singole storie, siamo andati ad ascoltare i racconti di neo abitanti in due paesi abruzzesi: Anversa degli Abruzzi, che attualmente conta 304 abitanti, e Gagliano Aterno con una popolazione di 222 residenti. Ne esce una narrazione anch’essa ibrida che dà conto di una dimensione di quasi indefinitezza, di confini che si fanno permeabili, di biografie che si intrecciano e che, come magma silenzioso, scorrono nei luoghi prendendone le sembianze e a loro volta cambiandone i connotati. Nell’annodarsi di questi percorsi, i paesi appaiono come notti in cui tutti i gatti sono grigi. Comunità da sempre ibride, all’interno delle quali pur a dispetto delle narrazioni che le hanno descritte come “isolate”, il movimento di quel magma non si è mai realmente fermato. Oggi però torna pacatamente a ribollire dal basso. I paesi dei nostri Appennini, così come le borgate delle Alpi, allo stesso modo di alcune periferie delle nostre città, parlano voci che non si collocano più in un immaginario di Italia dimenticata, né nell’universo dell’abbandono, ma né tanto meno nell’idillio rurale di certa immaginazione paesologica. Questi luoghi non vivono più nel retaggio di ciò che resta ma neanche nel prodromo di ciò che di rivoluzionario ci potrà essere. Vivono nel presente, in una condizione di immanenza che sembra far “esercizio di speranza”, direbbe forse bell hooks, rappresentati cioè da nuove soggettività, che nel portare avanti pratiche di “reciprocità liberatoria” tentano di ripristinare il nostro senso umano di connessione.

Lo fanno solitamente a partire da un sogno da voler realizzare, che spesso coincide con la possibilità di ritrovare il proprio spazio nel mondo, un angolo di vita nel quale riscoprire valore:

Io sono laureata in Industrial Designer al Politecnico di Milano - ci racconta Benedetta Morucci, neo abitante di Anversa degli Abruzzi, ideatrice del progetto Lamantera - quindi la mia formazione è proprio da tecnica industriale, che poi è quello che ho fatto fino a prima di venire ed è quello che faccio ancora, perché mi piace. Io però ho visto proprio la morte, cioè a livello umano… Non che io ora salvi vite umane, però almeno c'è un concetto dietro a quello che faccio. C'è un senso. Un valore. Ciò che faccio non è proprio la stessa cosa di quello che facevo prima […] io a un certo punto ho capito che a me quel modo non stava più bene. […] Io sono voluta venire qui, perché volevo stare qui. Io non sono mai stata una che… cioè la terra non mi ha mai dato niente, né sono mai stati gli spazi. Sono sempre state le persone. Io dovunque ci sia una persona che amo per me quella è casa. Invece qua, per la prima volta in vita mia, io mi sono sentita chiamare dalla terra, cioè proprio dal luogo, dalle montagne… una roba stranissima, stranissima. E quindi mi sono detta "Io voglio stare qui" […] qui vedo che c'è un altro modo di esistere, che non è quello della Pianura Padana, né quello dell'industria, né quello dell'ufficio. Qui per la prima volta mi riconosco in qualcosa. Scopro che esiste un altro modo di vivere, un altro modo di fare impresa, un altro modo di relazionarsi alla terra, al mondo, ai tempi.

E sempre di tempi, di un’altra modalità di vivere lo scorrere del ritmo quotidiano, ci parla anche Federica Caniggia, co-fondatrice della associazione di promozione sociale “Donne rurali”, in riferimento alla sua scelta di trasferirsi da Torino ad Anversa.

La cosa che mi ha fatto restare qui ad Anversa è stata sicuramente la comunità delle persone… però anche il fatto proprio dello spazio. Se tu stai in mezzo a una città che non fa altro che correre, che lavorare, che riempire tutti i tempi vuoti, sei portato anche tu a fare quello. Mentre invece io volevo davvero riscoprire anche l'importanza della lentezza, dei tempi vuoti che tutt'ora faccio comunque fatica a tenere.

Una volta atterrati nel paese, i sogni diventano progetti di vita, in mezzo a tutte le difficoltà e alle contraddizioni proprie della realtà fuori dai sogni.

La criticità principale, secondo me – ci spiega Federica -  è stata la difficoltà innanzitutto di focalizzarsi su cosa fare, perché qua mancano tante cose, cioè, si potrebbero fare tante cose, però allo stesso tempo per partire con un progetto bisogna focalizzarsi su una cosa e soprattutto bisognerebbe che questa cosa possa essere sostenibile a livello economico. Il problema di questi progetti è che comunque bisogna accedere ai fondi dei bandi e quindi non sempre si possono fare. A me questa cosa è una cosa che mi fa molto arrabbiare perché vorrei che fosse più facile. Perché io comunque vedendo il potenziale di questo posto, vedendo anche proprio la bellezza dei progetti e vedendo le persone che ci sono, cioè competenti, entusiaste e tutto, mi piacerebbe che fosse più semplice.

Emergono le difficoltà economiche per affrontare una nuova idea progettuale, ma anche le lungaggini burocratiche da gestire per avviare una nuova azienda su un terreno abbandonato, i viaggi da fare ogni giorno anche solo per fare la spesa o per incontrare il medico, l’alloggio che non si trova nonostante le tante case vuote, i costi da affrontare per lo scuola bus malgrado i fondi del PNRR, il conflitto con l’amministratore di turno che vorrebbe che tutto cambiasse purché tutto rimanga come è, il sospetto del vicino che prova ad essere ospitale a patto però la sua erba rimanga la più verde.

Insomma paese che vai, paese che trovi. Il nuovo si innesta sull’esistente, ma non senza dinamiche contrastanti, a volte più o meno note, a volte inaspettate, a volte sorprendenti, come si evince dalle parole di Benedetta.

Io mi rifiuto di subire le conseguenze di problemi relazionali incancreniti all'interno di questa società… Io arrivo e arrivo come una persona nuova, a me non interessano gli screzi che hanno fra di loro... mi rapporto con gli individui dal giorno in cui io li conosco. Io capisco la diffidenza e capisco l'essere sospettosi, e ho capito un po' che questa comunità si divide in due. C'è chi resta per la propria comodità e poi dice ai figli di andarsene, senza che questi ragazzi neanche possano avere un'opportunità di decidere… E poi ci sono quelli che sono rimasti qui, magari anche vivendo di difficoltà a volte, però attaccati con le unghie e coi denti a una terra che amano, che amano a volte a modo loro. Ognuno a modo suo rimane attaccato a questa terra con amore e con un forte senso di appartenenza, però spesso queste persone sono abituate a vedersi portar via le cose. Spesso chi arriva preda, sfrutta… porta una ricchezza che non è paragonabile a quella che porta a casa, e va via. E quindi ci sta che ci sia la diffidenza. È meraviglioso quando la comunità capisce che tu non sei venuto a togliere, ma sei venuto a dare e lì… vabbe’… lì si apre un mondo, lì non morirai mai di fame e di sete.

Uno spazio pubblico, antico e nuovo, che riscrive il senso d comunità

Proprio su questi aspetti, sull’innesto tra esperienze di luogo consolidate e nuove prassi orientate alla costruzione di progettualità “ibride”, il caso di Gagliano Aterno sta facendo scuola. Storici residenti e neo abitanti si incontrano, discutono, talvolta si scontrano, nel tentativo di armonizzare i bisogni di tutti e provare a custodire un angolo di mondo che si misura con le sfide del presente. Nulla però viene lasciato al caso o all’improvvisazione. Si tratta di mettere a terra scelte politiche, strategie e metodologie pensate, condivise e ricalibrate per essere efficaci e iniziare a generare risultati tangibili. Forse piccoli nei numeri, ma immensi nell’essere visione.

Il neopopolamento - ci racconta Raffaele Spadano, cofondatore dell’Associazione Montagne in Movimento e promotore del progetto Neo - avviene solo se i nuovi abitanti riescono ad entrare dentro quella forma di produzione di senso ideologica che non è altro che una trasmissione di sapere che avviene da migliaia e migliaia di anni per ogni paese […] insomma c’è un sacrificio… non è una passeggiata! deve essere voluto, deve essere pianificato. Il grande tema è quello di sviluppare forme istituzionalizzate di confronto, quindi delle assemblee dove c'è uno spazio pubblico dove queste dinamiche possono essere volta per volta affrontate, altrimenti si creano dei conflitti perché sono due popolazioni diverse, sono due lingue diverse, sono competenze, diverse, energie diverse e, sai, gli abitanti dei paesi dicono: "No, questo è mio, la montagna è mia”, vivono di rendite posizionali, di status che non vogliono che si scalfiscano. E quello spazio pubblico invece permette di parlarne e affrontarle e così il conflitto viene invece affrontato e governato. Diversamente il conflitto si gonfia, si gonfia e si gonfia e il risultato è che quelle comunità di neoabitanti non diventeranno mai neoabitanti e prima o poi se ne andranno perché [i vecchi residenti] gli renderanno la vita invivibile.

Queste storie, queste narrazioni ci segnalano che forse non stiamo assistendo a un completo ritorno alla montagna, ma a una sua riscrittura: lenta, imperfetta, eppure carica di senso. Come tutti i racconti che provano a restituire dignità al tempo e allo spazio dell’abitare. E allora, forse, il vero nodo non è più se questi paesi possano tornare a ripopolarsi, ma se saremo capaci di ascoltarli davvero mentre, tra attriti e visioni, stanno già scrivendo – in silenzio – un nuovo lessico dell’essere comunità.

* Rita Salvatore è una sociologa dell’ambiente e del territorio, ricercatrice e docente presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Teramo e Presidente di Slow Food Abruzzo. I suoi principali ambiti di ricerca riguardano lo sviluppo rurale, il turismo sostenibile, la conservazione ambientale. Tra le sue pubblicazioni “Persone e territori in transizione. Sistemi alimentari, mobilità umana, comunicazione e cittadinanza di fronte al cambiamento climatico” (2024, Franco Angeli); “Non più e non ancora. Le aree fragili tra conservazione ambientale, cambiamento sociale e sviluppo turistico” (2018, Franco Angeli). Fa parte del Collettivo di scrittura nato attorno al libro “Inverno liquido”.

** https://altreconomia.it/qualcosa-si-muove-sotto-la-superficie-forse-un-altro-modo-di-abitare-la-montagna/

 

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