"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Luca Rastello
Piove all'insù
Bollati Boringhieri, 2006
La Torino delle Olimpiadi invernali è rossa. Non male lo spolvero, ma il rosso delle bandiere e dei drappi non è quello della Torino operaia, piuttosto quello della Coca Cola. Incontro Luca. Da quando è in lotta con quella bestia che lo sta mangiando è la prima volta che ci vediamo.
di Michele Nardelli
Ci guardiamo senza dare nell’occhio, come a spiare a che punto siamo con il nostro privatissimo concetto di limite. Parliamo, come sempre accade con Luca, come se avessimo smesso di farlo la sera prima, un fiume in piena da mettere in un angolo Marco e Silvia, con loro disappunto.
Ci s’intende al volo, con Luca. Eppure i nostri itinerari sono così lontani, le nostre frequentazioni così rare. Tranne quel viaggio per le strade del dopoguerra bosniaco, a far la gara fra noi su chi fosse più disincantato. E con un regista svizzero di mezzo.
Ho con me un libro, dedicato alla figura di una persona che qualche tempo prima ci ha lasciati, Massimo Gorla. Nel quale una generazione di amici, con il pretesto di parlare di un amico che non c’è più, parla di sé, delle proprie di vite. Lo so, perché ci ho scritto anch’io, degli anni ’70 e di quelli della solitudine.
Luca mi fa vedere una strana copertina. C’è una vecchia foto di due persone che fanno il tiro a segno in un Luna Park, qualcosa di intimo per Luca. E una scritta: “Piove all’insù”. Non ne posso più di libri sugli anni di piombo e la nostra discussione s’infiamma, perché investe le nostre stesse esistenze. E come sempre, accade che siamo d’accordo perché quel libro parla di una “guerra in casa”, questa volta combattuta in enclave più famigliari o nei branchi delle nostre appartenenze.
“Com’è che la nostra generazione ha sequestrato il futuro non raccontando il proprio passato?”, bella domanda, neh?
Quella stessa copertina la rivedo di lì a poco in libreria. Questa volta con una storia dentro, quella di Luca, di una generazione, di un tempo non elaborato, questa volta senza infingimenti. Nella nudità dei gesti, senza il pudore delle meschinità, nella forza delle passioni ma anche di quella sensazione di potere che solo quegli anni ci hanno dato, quando per davvero il futuro sembrava nelle nostre mani. Fino a bruciarlo nell’ingorgo di tutto ciò, accorgendosi piano piano che il vello d’oro non esisteva ma che non per questo non valesse la pena dedicargli una vita.
Lo divoro, ma non so se mi piace. Conosco questa storia, anche se ne ho in mente un’altra. Ho negli occhi un bar allora quasi di periferia, dove attorno ad un tavolo siedono Vittorio Foa e alcuni operai del Consiglio di fabbrica della Michelin. Quegli operai, terza media o scuole professionali, che ne sapevano dell’organizzazione del lavoro più del loro padrone francese, lì a parlarne con il vecchio (ai miei occhi di studente era già vecchio allora, trent’anni fa, il caro Vittorio) sindacalista e dirigente politico, prima di partire per Clermont Ferrand e poi in tutta segretezza per Barcellona, quando in Spagna c’era ancora il franchismo e ad incontrarti con gli esponenti delle Comisiones Obreras rischiavi la galera. E’ di questi operai, di quest’altra storia che non si parla mai, quasi fosse comodo associare gli anni ’70 al piombo. Ancora da scrivere, forse perché meno ripudiabile.
Dopo qualche giorno mi ritrovo nelle mani la recensione di Marco Revelli, e rimango come uno stoccafisso. “Il più bel libro mai scritto sugli anni ’70” e tu nemmeno te ne accorgi, dico fra me.
Non ho ancora deciso se “Piove all’insù” mi piace o no, ma certo è un libro che ci riguarda, in profondità. Ci telefoniamo, scherziamo sull’intercessione di Moggi nella presentazione di Revelli (sempre a Torino siamo…) e ci promettiamo di presentarlo anche a Trento. Nel frattempo mi sto convincendo che “Piove all’insù” è un dannato libro da non perdere.
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