"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Emergenze: parole e non fatti

brasile

di Fabio Pipinato

(15 marzo 2010) Nel manifesto di "Polemos" c'è un passaggio di Gino Pagliarani: le parole non sono più 2 "pace e guerra" ma 3 "pace, guerra e conflitto". Ugo Morelli legge, oggi, in Bertolaso ancora 3 parole: emergenza, protezione e fare. Un'efficienza nazional popolare che piace ai più.

Vorrei visitare ciò che sottende questa filosofia. È la cultura dell'emergenza che ci erge a salvatori, un gradino sopra il cielo. L'Abruzzo o Haiti non possono che rafforzare questa visione delle cose. Parliamoci chiaro; guai a noi se non avessimo gli strumenti per far fronte alle emergenze ma, ancora, guai a noi se non sapessimo mettere un limite agli stessi. Colui che lavora nell'emergenza va di diritto "in deroga" alle norme. Non potrebbe essere altrimenti. Chi deve salvare "più vite umane nel minor tempo possibile" non può che avere carta bianca. Ho sperimentato anch'io il significato trovandomi a lavorare, nel '93, tra i profughi burundesi in Rwanda nelle file di MSF France. Davanti al caos che produceva decine di morti giorno non restava che affidarsi ad un ordine paramilitare. Dirò di più. Nei campi profughi ove v'era assenza di governo si riempivano più celermente le fosse comuni. Allora ci si affidò a forme parallele di potere; anche se potevano sembrare mafiose. Anche se trattenevano / rivendevano una percentuale di aiuti. Il problema del momento era la distribuzione degli aiuti, l'ordine e quindi la pulizia. Punto. Chi defecava fuori la capanna trovava la capanna bruciata. Davanti al pericolo di colera non si discuteva.

Il problema sorse, nel post emergenza. Coloro che avevano sino allora governato i campi profughi pretendevano di mantenere il governo del territorio. Il problema, quindi, è la rielaborazione del delirio d'onnipotenza di cui l'emergenza investe i "salvatori". Da Bush jr., al quale è stato dato mandato di agire come solista per combattere il terrorismo sino agli interventi umanitari delle nostre ONG. Saranno capaci quest'ultime, travolte da milioni di euro, tornare a fare cooperazione e non solo emergenza? Ce lo auguriamo ma dovremmo mettere in conto un bel po' di sofferenza. L'emergenza, come peraltro la guerra, ci ridà vita, importanza, centralità a noi che sino a ieri eravamo privi di valore, ai margini. Attenzione. In questo cadono facilmente le persone più buone, attente e, quindi, disadattate (mentre le adattate affollano i centri commerciali). Fiumi di sms solidali, vaglia postali e denari mentre la cooperazione internazionale delle relazioni lunghe langue in fin di vita.

La seconda parola è protezione. Non è forse colui che sta in alto a proteggere colui che sta in basso? Non è forse il donatore che protegge il beneficiario? Scusate la forzatura ma non è forse la mafia che protegge coloro che pagano il pizzo? Ebbene, abbiamo un'enorme bisogno di protezione quando ci cade il tetto in testa ma dovremo augurarci che la stessa protezione venga meno per permetterci di stare in piedi.

Invasività, assistenzialismo. Che bisogno avevamo d'importare bambini bisognosi (?) da Haiti. A che pro? La vicina Cuba non ha forse un sistema sanitario altrettanto buono? Il "buonismo di massa" che segue le tragedie non fa altrettanta paura? Chi ci difenderà dal grande ed incontrollato cuore che vorrebbe adottare i piccoli scordandoci dei giovani, adulti ed ormai vecchi immigrati che abitano la porta accanto bisognosi anch'essi di previdenza, cura e soprattutto relazione?

Un paese sarà tanto più maturo quanto saprà fare a meno dei suoi "angeli custodi". Protezione ed emergenza si fondano anche sull'assenza di prevenzione. L'Italia che sta franando non ha forse più bisogno di una miriade di microinterventi da realizzare a livello comunitario che non il Ponte sullo stretto? Non ha forse più bisogno di riassestare tutte le istituzioni scolastiche che non giocarsi mezza finanziaria in bombardieri? Non ha forse bisogno che venga ristabilita l'ICI per dare risorse agli amministratori costretti ormai a mendicare?

Infine l' ideologia del fare ben descritta da Ilvo Diamanti. Un fare spesso senza pensiero, visione comune, orizzonte. Che ti costruisce Aquila 2 con tanto di laghetto ed ochette ed abbandona a se stesso il centro storico che fu sia di Celestino V° che di Giuseppe Mazzini. Un fare.....gli affari propri. Tant'è che tangentopoli fu più etica. Almeno s'incameravano quattrini per i partiti, per strutture comunque collettive. Oggi lo si fa per se stessi.

Quindi le 3 nostre parole: relazione, assieme, pensiero. Ben consci d' essere tacciati per parolai. Ma è stato solo dopo anni di "tentate relazioni " parolaie che s'è arrivati ad una specie di accordo in Darfur. Buone relazioni, quindi, a seguito dell'emergenza al fine di riconoscere le peculiarità di quella/e terra/e per cooperare, scambiare, studiare, visitare. Ricominciare. Si chiamino Abruzzo, Haiti o Sudan. La relazione vera inizia a riflettori spenti e sono a tempo indeterminato come abbiamo tentato di scrivere ne la Carta di Trento. L'emergenza "umilia e corrompe" sempre e nonostante; l'importante è farlo a livello minimo. La relazione "conosce e riconosce" dignità. La prima è breve e la seconda è per sempre. La prima si alimenta con molte risorse private sull'onda dell'emozione mentre la seconda dovrebbe fare affidamento a risorse pubbliche sull'onda della programmazione.

Assieme. Seconda parola. In via d'estinzione? V'è sempre più una "fatica di condivisione". Eppure, anche per l'ottavo Obiettivo del Millennio sembra non esservi alternativa che al "fare sistema", che alla politica, al rafforzamento sia delle Istituzioni nazionali che Internazionali. L'individualismo di chi s'è "fatto da se" è irriverente non solo verso il parlamentarismo ma verso ogni forma di associazionismo, collettivismo, pensiero multiplo e complesso. Che, guarda caso, è la terza parola. Tornare a pensare. Tornare alle premesse di una visione comune. Solo così potremo forse evitare il tifo che sempre più caratterizza la politica e gli slogan. Dal "senza se e senza ma" ad "alcun compromesso" consci che dovremo tentare di riconoscere le "ragioni ultime" che motivano l'altro.

 

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