"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Diario

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lunedì, 15 maggio 2023Stadio Maradona, 4 maggio 2023

 

Campioni in Italia

Come non gioire se la tua squadra del cuore fin da quando eri bambino conquista lo scudetto, oltretutto in largo anticipo sulla fine del campionato? Come non condividere il sentimento di un'intera città che – pur amandone molte – senti vicina come nessun'altra? Come non riconoscere il fascino culturale di questa città, nella sua bellezza come nelle sue – talvolta atroci – contraddizioni? Come non far proprio l'amore per i luoghi nei quali si è manifestato un virtuoso rapporto fra la natura e l'ingegno umano?

Eppure nelle parole che sono state spese da buona parte dei media per l'impresa non solo sportiva del Napoli ho avvertito disagio, la sensazione di una cosa insincera, di un atteggiamento di maniera figlio di questo tempo sbagliato.

Poi credo di aver capito. Ad infastidirmi era l'ipocrisia. Quella insita ad esempio nella parola riscatto, come a cancellare la storia, il pensiero, la cultura straordinaria di questa città, complessa e difficile come ogni cosa vera. Quella connessa ad un paternalismo che sembra dire – proprio nel giorno in cui veniva cancellato uno sgangherato reddito di cittadinanza e trascorsi trentatré anni dall'anomalia calcistica mai digerita affidata ad un genio sregolato che veniva da un altro Mezzogiorno – “c'è posto anche per Napoli, ma non ci fate l'abitudine”. Quella verso una città che per dieci anni si è data come sindaco un magistrato che non rientrava nello schema politico ammesso. O, ancora, quella che con malcelato stupore riconosce i conti in ordine di una società (ma quando mai si sono presi in considerazione?) come se questa fosse una prerogativa improbabile a queste latitudini. Per non parlare del ricorso agli stereotipi di sempre, che un anonimo napoletano chiamava “fantasie pe’ furastieri”1.

No, il Napoli non è la squadra campione d'Italia. E' campione in Italia. Non lo è di questo paese che non ha ancora fatto i conti sul serio con il razzismo dei cartelli appesi alle vetrine dei negozi con scritto “vietato l'ingresso ai cani e ai meridionali” o con il diniego verso la richiesta di una casa in affitto per chi migrava al nord. E che ancora oggi si manifesta con i cori delle curve degli stadi rivolte ai giocatori di un altro colore oppure con l' indifferenza verso l'umana tragedia nella forma di chi prende il mare sui gommoni della morte o di “guerre giuste” combattute con le armi del made in Italy (purché sia lontana dalla nostra comfort zone).O di uno stile di vita che pretendiamo “non negoziabile”, che poi altro non significa se non l'adesione ad una divisione del mondo fra inclusione ed esclusione.

Come nello striscione apparso allo stadio Maradona in occasione del primo grande festeggiamento, quello vinto dal Napoli è uno scudetto rovesciato. Non il servile bussare alla porta del salotto buono del calcio italiano e nemmeno la genuflessione di una città alla benevolenza dei potenti, ma la rivendicazione di una diversità che ancora riesce a non confondere la dignità con i processi di gentrificazione che ne trasforma i quartieri popolari del centro storico in zone turistiche, con quel che significa sul piano della perdita d'anima e di quel po' che rimane della propria identità sociale (nonché dei prezzi delle abitazioni). E che in fondo non è molto diverso da quanto avviene nelle aree interne attraverso il trasferimento del modello urbano in una montagna abbandonata per buona parte dell'anno, dove proliferano le seconde case, i resort o i villaggi nati all'insegna di un turismo sempre più omologato.

Mi piace pensare che la festa di Napoli possa essere anche la gioia di quel bambino troppo piccolo e sbandato per conoscere la storia, la letteratura, la musica, il teatro di questa città. Di quel ragazzino che nel 1965 aveva una maglietta azzurra e un paio di calzettoni di identico colore sempre tirati giù, come il suo idolo, Enrique Omar Sivori, allora da poco passato al Napoli (una storia che ho già raccontato in questo diario - https://michelenardelli.it/diario.php?anno=2020&mese=12).

Un'emozione che ho comunque potuto almeno sfiorare il 21 aprile scorso nel cuore di Napoli quando già si respirava il clima di festa per uno scudetto ancora incerto, nell'attenzione che mi rivolgevano gli amici accorsi alla Taverna a Santa Chiara dove presentavamo “Inverno liquido”. Nel viaggio di andata di questo libro, un anno e mezzo prima, c'eravamo ripromessi di andare insieme allo stadio per realizzare un vecchio proponimento mai realizzato. In quei giorni di aprile il Napoli giocava in trasferta, niente da fare. Ma in fondo mi bastava essere li, a Spaccanapoli, per strade antiche colorate di azzurro come lo erano i santi attuorno ‘e mmura.

Ma perché questo paese non riesce a vedere la città di Napoli come uno dei principali laboratori culturali europei e mediterranei? «Quanta bucie ca’ riceno ‘e canzoni». (m.n.)

 

1Mi riferisco qui ad una bella poesia che s'intitola “Adagio Napoletano”, scritta non si sa da chi e cantata da Lina Sastri e Roberto Murolo nel 1992, raccolta nell'album “Ottantavogliadicantare” https://youtu.be/zgbLRVqvKUQ

 

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