"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Sono in Sardegna per qualche giorno di riposo, mare, sole e qualche buona lettura. Nella Sardegna vera, non quella finta confezionata per un turismo estraneo allo spirito dei luoghi.
L'agriturismo Guthiddai nei pressi di Oliena è un piccolo paradiso di quiete che con Gabriella abbiamo scoperto molti anni fa, fra il Golfo di Orosei e il parco nazionale del Gennargentu, le fonti di Su Gologone e il Supramonte.
Ciò nonostante leggo i giornali e scorro le notizie di un mondo ormai impazzito, con l'effetto di provare una forte inquietudine verso le derive del presente aggravato dalla rassegnazione nel prendere atto della distanza fra quanto accade e l'incapacità della politica anche solo di leggerlo questo tempo, figuriamoci di provare a fornire qualche risposta sensata che non corrisponda al richiamo del facile consenso.
Dalla quotidiana tragedia che attraversa il Mediterraneo all'insorgere di un nuovo fascismo nei paesi europei fatto di xenofobia ma anche di cinismo con cui il dramma dell'emigrazione viene gestito per far venir fuori il peggio di un paese che ha troppo in fretta dimenticato la propria storia.
Dall'esplodere del vicino oriente dove la fine dei vecchi regimi nazionalisti ha lasciato un vuoto politico riempito dal radicalismo fondamentalista (e dal suo portato di rancore verso un occidente che prima ha spremuto questi paesi per interposta persona e poi non ha esitato a far ricorso alla forza delle armi con l'esito che tutti conosciamo), alla guerra che ritorna nell'immaginario collettivo come la necessaria risposta alla paura verso un futuro troppo affollato e che assume le sembianze dello scontro di civiltà.
Dal gioco al massacro con il quale questa Europa si è rapportata alla crisi di un piccolo paese come la Grecia verso il quale tutti dovremmo sentirci debitori, all'incapacità di fermare il delirio di una finanza globale che condiziona le scelte della politica.
Dal venire al pettine dell'insostenibilità di un modello di sviluppo basato sulla crescita illimitata, all'incapacità di comprendere che ciò che chiamiamo crisi altro non è che un nuovo contesto che richiederebbe un ripensamento globale, nuove categorie di analisi e nuovi approcci.
Dalla necessità che questo significa sul piano dell'apprendimento, all'urgenza di mettere mano – senza conservatorismi – ai luoghi in cui questo avviene o meglio dovrebbe avvenire e oggi – salvo rare eccezioni – non avviene.
Senza nemmeno dire del degrado morale che vivono i luoghi della politica, specchio di un paese (ma non è un fenomeno solo italiano) dove il rigore intellettuale, lo studio, la creatività e l'elaborazione sono considerati meno di niente e, all'incontrario, la furbizia e la sopraffazione sono diventati la regola. Ricordo come il Censis qualche mese fa abbia nitidamente fotografato questa impasse sociale con la metafora delle “sette giare”, mondi non comunicanti, chiusi nel proprio particolare e privi di visione d'insieme.
Osservo tutto questo da una condizione particolare, una sorta di esilio politico che forse ti offre la possibilità di uno sguardo obliquo e profondo. Ma che pure tradisce un'analoga solitudine.
Per il momento non mi resta che godere il privilegio di questi luoghi meravigliosi che la natura ancora ci regala.
Fra Scilla e Cariddi. Una conferenza permanente dei popoli del Mediterraneo.
Da mercoledì sono a Messina per una tre giorni di manifestazioni nel sessantennale della Conferenza che si svolse in questa città (e nella vicina Taormina) nei primi giorni di giugno del 1955, mettendo le basi per il successivo Trattato di Roma, l'atto che più di altri segnò la nascita dell'Europa politica.
Parlarne dopo più di mezzo secolo con questo obiettivo non ancora pienamente raggiunto, potrebbe sembrare fuori luogo, ma non è affatto così. Perché l'Europa che abbiamo è quella degli Stati nazionali, perché questa Europa ancora non scalda i cuori e forse perché, malgrado l'apparenza – come scrive Paolo Rumiz nel suo ultimo lavoro – oggi c'è meno Europa di cent'anni fa.
Dopo il primo giorno dedicato alle celebrazioni, iniziano giovedì (e proseguono nella giornata di venerdì) le quattro sessioni di lavoro dedicate ai conflitti e alle politiche per la pace nel Mediterraneo, ai flussi migratori, al percorso europeo dalla conferenza di Messina ad oggi, alla sfida del mutamento climatico. Per concludersi nella giornata di sabato con la proposta di dar vita ad una comunità mediterranea.
La cosa più bella è di poter riabbracciare l'amico Tonino Perna che di questa manifestazione è l'ispiratore, fra noi nonostante la crisi cardiaca di qualche settimana fa. Fa davvero tenerezza vederlo aggirarsi nelle sale della conferenza e curare perfino i dettagli dello svolgersi delle sessioni, appassionato e sensibile come sempre. Pallido e provato, com'è normale in una persona che si dovrà operare per mettere a posto quel suo cuore grande che fatica a seguire la creatività vulcanica di questo mio caro “cugino” del profondo sud. Mai domo, come la vetta ancora a tratti innevata che fa da cornice a questo tratto di mare fra Scilla e Cariddi.
Porto il mio contributo alla prima sessione, proponendo uno sguardo attraverso tre immagini che ci raccontano del Novecento (l'Angelus Novus e il secolo degli assassini), dell'Europa (il censimento del 1910 come paradigma dell'attraversamento) e del Mediterraneo (la scomparsa delle culture e delle lingue come effetto del delirio nazionalista che dopo i disastri del secolo scorso ancora segna il nostro tempo).
L'accoglienza che mi viene riservata è davvero molto calorosa, eppure le mie parole provano a mettere in discussione i vecchi paradigmi che ancor la a sento presenti se non prevalenti in molti degli interventi, come se la risposta alla globalizzazione fossero gli stati nazionali, come se la primavera araba fosse stata spazzata via per caso e non anche per la fatica a far emergere una nuova classe dirigente dopo la fine delle dittature (e di un marxismo d'importazione), come se l'amore per il territorio (che qui ci regala acquarelli straordinari) non avesse a che fare con la cultura del limite e della responsabilità. Come se si fossero fatti i conti con la storia, quando sappiamo che non è affatto così.
Messina è una città provata. Il degrado lo si può cogliere ad occhio nudo nel caos urbanistico, nella scarsa manutenzione del patrimonio abitativo privato e pubblico, nelle aree un tempo industriali abbandonate nel cuore della città, nei rifiuti che non conoscono raccolta differenziata. Ne parlo con il sindaco Renato Accorinti e con Tonino Perna, i quali mi raccontano delle condizioni in cui hanno trovato l'amministrazione comunale, dei debiti accumulati dalle precedenti gestioni, delle scarse risorse della finanza locale, ma anche dell'entusiasmante scommessa di prendere per mano questa città, di ridarle fiducia soprattutto, perché è sul piano culturale che forse la possono vincere.
Che vi sia un collettivo di amministratori di qualità come probabilmente questa città non ha mai avuto lo rilevo nel corso delle sessioni di lavoro quando vengono affrontate le tematiche connesse al cambiamento climatico, alla valorizzazione del patrimonio ambientale e marino, all'immigrazione.
Un cambio di paradigma che fatica ad affermarsi nel paese legale come in quello reale, se solo pensiamo all'anomalia di questa esperienza amministrativa, laddove questo strano sindaco che indossa la fascia tricolore sopra una maglietta con la scritta “free tibet” è stato eletto quasi per caso o semplicemente per l'impresentabilità della politica ufficiale.
Ma la casualità a volte riesce a rendere possibili le imprese più ardue. Di certo hanno dalla loro l'onestà intellettuale che li porta a realizzare cose prima nemmeno immaginabili, fra le quali anche quella di un assessore alla cultura come l'amico Tonino che a Messina insegna all'Università ma che viene da dall'altra sponda di questo pezzo di mare straordinario. Quando nei mesi scorsi il Comune di Messina ha organizzato una visita degli amministratori di una quindicina di Comuni dello stretto, era la prima volta che l'antica rivalità veniva scalfita da un'idea di collaborazione.
Alla conferenza intervengono delegazioni provenienti dalla Tunisia, dall'Egitto, dal Libano, dal Marocco e dalla Palestina. L'idea è quella di provare a rianimare il progetto euromediterraneo del percorso di Barcellona e nel quale aveva fortemente creduto Romano Prodi affidando a Predrag Matvejevic una sorta di patrocinio culturale del percorso stesso. Arriva a sorpresa anche l'ambasciatrice dello Stato di Palestina in Italia, come a ricordare che un Mediterraneo di pace non può prescindere dalla soluzione della “questione morale del nostro tempo”, quel conflitto che si trascina dal 1948 come effetto della falsa coscienza di un'Europa incapace di fare i conti con la propria storia.
Non assisto alla sessione conclusiva della conferenza dove viene presentato l'appello per una conferenza permanente dei popoli del Mediterraneo, perché il mattino del sabato sono di partenza verso Palermo dove mi attendono gli amici di Tulime, una organizzazione non governativa che ha fatto della cooperazione di comunità il proprio tratto distintivo.
Parto con la speranza di aver portato un piccolo contributo affinché questa idea possa trovare il rilancio che merita, anche come antidoto di uno “scontro fra civiltà” che in questi tempi tristi sentiamo evocare in continuazione come a giustificare questo nostro essere in guerra con il prossimo.
Di questo, del resto, parleremo anche a Palermo nella vecchia sede di un'associazione della società civile in un caldo pomeriggio estivo. Contrariamente a quel che forse i presenti si aspettavano, quasi non parlo di cooperazione, concentrandomi invece sui segnali inquietanti che questo passaggio di tempo ci consegna, della guerra di cui parla insistentemente Papa Francesco e che in pochi sembrano prendere sul serio.
Sulla necessità che il cambio di sguardo diventi il significato profondo anche dell'impegno della cooperazione internazionale, che invece sembra essere in tutt'altre faccende affaccendata, a partire dalla propria affannosa (in)sostenibilità.
Mi rendo conto di come la partita possa apparire difficile per quanto la realtà procede in direzione contraria. Richiede uno scarto culturale che ha ben poco a che vedere con un tempo che tende all'omologazione, la capacità del pensare da sé e di scoprire “l'ebbrezza della creazione politica”. E però non sono qui per rassicurare nessuno, tanto meno infondere facile ottimismo. Il cambio dei nostri paradigmi richiede in primo luogo la capacità di alzare lo sguardo e comprendere quel che accade intorno a noi. Esercizio niente affatto banale, per provare ad abitare questo tempo bastardo ed interessante al tempo stesso.
Ad uno dei miei interlocutori palermitani che mi dice di essersi avvicinato al seggio per esprimere il suo voto ma di non avercela fatta, provo a dire che la politica è l'unico antidoto alla solitudine e che quando questa mi è sembrata inabitabile non ho esitato ad inventare percorsi inediti. Cosa che qui può sembrare fantascienza. Ma in fondo c'è sempre un'altra possibilità.