"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

11/11/2022 -
Il diario di Michele Nardelli
Tivoli, cascate

L'incontro degli invisibili...   

Tivoli, 5 novembre 2022.  

  Un luogo di confronto e incontro attorno ad un esperienza condivisa.

 

Con il cuore alla manifestazione per la pace che, non lontano, percorreva le strade della capitale, prendendosi il rischio di un campo così eterogeneo da rendere difficile il riuscire a tenere la fragile sintesi proposta dagli organizzatori. E se da una parte sentivo vuote e rituali le parole del popolo della pace, pure avvertivo la necessità di evitare che quel solco che la guerra in Ucraina ha tracciato divenisse ancora più profondo. Sin dall'inizio di questa tragedia ho scritto come, per venirne a capo, fosse necessario cambiare lo sguardo, evitando l'ennesimo ingorgo novecentesco all'insegna della sovranità e dell'autodeterminazione, com'è puntualmente accaduto. Nove mesi nei quali la guerra ha disseminato di morte (duecentomila secondo le ultime stime), dolore e veleno quella terra, destabilizzato e polarizzato il mondo intero, appiattito l'Europa in un ruolo subalterno all'Alleanza Atlantica e alla Nato nei fatti annullandosi come soggetto politico altro, messo in secondo piano tanto la crisi sanitaria globale come quella climatica/ambientale. Ed altro ancora che non sto a dire.

Sono invece a Tivoli, dove c'è un incontro fissato da tempo, pensato ancora da molto prima, quando per molte delle persone che oggi si ritrovano in questa antica cittadina termale un sogno si è infranto. Mal riposto, credo, ma viviamo di sogni. Mal riposto perché le forme politiche non sono (e non possono essere) luoghi scevri da dinamiche di potere. E poi perché, nella fatica di una transizione che non può che essere anche di pensiero, il cambio dei paradigmi – per quanto necessario e urgente – non è facile e spesso nemmeno avvertito come necessità. Più semplice cavarsela con altre categorie, quella del tradimento, tanto per cominciare. Oppure quella dell'ossessione del nemico che ti obbliga al rinserrare le fila a scapito della ricerca, del confronto e del conflitto generativo.

Quel sogno infranto era concreto, molto concreto. Era fatto di terra e cibo, di saperi e genio trasformativo. Di presìdi e comunità. E, mano a mano che andava crescendo, di intuizioni e di idee in larga parte innovative che diventavano movimento e cambiamento. Perché questo è stata Slow Food e, almeno in parte, lo è ancora, anche se per molti dei presenti a Tivoli si tratta di un'esperienza che sta alle proprie spalle.

Nell'incontro di Tivoli ci sono persone che hanno avuto ruoli più che significativi nella storia di questo movimento e che oggi sono diventati invisibili. E' incredibile il patrimonio di intelligenza e conoscenza lasciato per strada, grazie ad una dialettica soffocata dal primato dell'apparato e da un paternalismo scambiato per “intelligenza affettiva” o di “austera anarchia”. Ma non c'è rancore. C'è al contrario la consapevolezza di aver contribuito a dar vita a qualcosa di importante, malgrado il lutto più o meno elaborato di chi è stato messo da parte.

Avvicinandomi all'associazione sul piano nazionale e ai suoi riti prima non conosciuti ne rimasi colpito. Tanto che al congresso di SF Italia a Montecatini del 2018 avrei voluto tornare indietro rispetto alla mia disponibilità di far parte del consiglio nazionale che in quella occasione venne eletto, preoccupato in realtà più per l'adesione pressoché plebiscitaria al “siamo solo noi” che al richiamo identitario della figura carismatica di Carlo Petrini. Un'antica idiosincrasia, la mia.

Poi comunque ne valse la pena, anche grazie ai lunghi mesi di lockdown e al lavoro di confronto da remoto che ne venne, liberato dal chiacchiericcio tipico degli apparati e reso vitale, vorrei dire effervescente, nei contenuti per affrontare l'intreccio delle crisi che si manifestavano in forme sempre più acute (penso a Vaia e al susseguirsi di eventi estremi, alla pandemia e al fermarsi prima impensabile del pianeta, alla terza guerra mondiale di cui parla Francesco e alle politiche di scarto che l'esclusione provoca) e per impostare una stagione congressuale (nazionale e internazionale) che aveva l'ambizione di dare seguito agli enunciati di Cheng du e rinnovare le sfide di un tempo in profonda transizione. Ne venne un documento “La sfida di un destino comune” (https://www.michelenardelli.it/commenti.php?id=4615). Parlammo di sindemia e di complessità come approccio multidisciplinare per affrontarla, di nuove geografie e di ecosistemi per leggere con occhiali diversi l'interdipendenza andando oltre i paradigmi novecenteschi, di pensiero meridiano e dell'urgenza di rilanciare un approccio euro-mediterraneo, di impronta ecologica e di comunità del cambiamento come terreni concreti sui quali misurare l'efficacia del nostro agire, di un assetto organizzativo aperto al confronto con gli altri e della Slow Food degli ecosistemi. Non esito a dire come di tutto questo si sia letteralmente persa traccia, quand'anche la speranza che mi porto dentro sarebbe quella di venir smentito.

La resistenza al cambiamento, tipica di ogni corpo organizzato, trovava espressione proprio in quel “siamo solo noi”, senza comprendere che la crisi della politica investiva (ed investe) ogni corpo intermedio e che Slow Food non poteva certo chiamarsi fuori. Serviva mettersi in gioco, aprirsi e contaminarsi, ma soprattutto dare aria ad un movimento per il diritto al cibo cogliendone l'impatto interdisciplinare e il valore politico.

Il fatto è che i luoghi associativi sono di chi li presidia con determinazione e così, senza colpo ferire, quel fermento denso di nuove sfide culturali e di nuovi approcci nel modo di essere di SF è stato archiviato sul nascere. E quello che avrebbe dovuto essere un percorso ri-generativo si è ridotto ad un'impresa che ha sempre meno i caratteri di un'associazione partecipata e territoriale, che invece transita da un evento all'altro ciascuno dei quali funzionale ad un'improbabile sostenibilità, approdato ad un radicale cambiamento organizzativo in un congresso internazionale che avrebbe dovuto ruotare attorno al concetto di comunità e che si è tradotto nella sua trasformazione in Fondazione, la forma meno democratica e partecipata che si conosca. Ma soprattutto, mi permetto di dire, condannata all'inessenzialità.

E queste persone a Tivoli? Gli invisibili si abbracciano e si raccontano, ognuno in un rivolo territoriale connesso con questo tempo certamente interessante, dentro o fuori Slow Food poco importa. L'aria non è certo quella della rassegnazione e ognuno ha un sacco di cose da buttare lì, nell'incontro come nei capannelli in attesa di una mensa che – sotto la guida attenta di Gabriella – racconta storie di vita, di biodiversità, di sperimentazioni.

C'è qualcosa all'orizzonte? No, se non l'impegno di tenere aperte le sinapsi di una ricerca che nutre il proprio percorso personale prima ancora che collettivo. Nei “luoghi” che ciascuno ha scelto di agire e nella libertà di incontrarsi per il piacere di condividere pensieri e amicizia. E che si conclude in modo talmente informale che non trova affatto strano, nel tepore di una domenica autunnale, andare a visitare questa città, le sue ville e i suoi antichi sistemi d'acqua ma anche i suoi presìdi e le sue comunità del cibo. Che sono un patrimonio di tutte e di tutti.

 

2 commenti all'articolo - torna indietro

  1. inviato da Lorenzo Berlendis il 23 novembre 2022 11:15
    DIARIO TIBURTINO
    Uso la felice idea di Gabriella per contribuire a comporre questi ‘quaderni tiburtini’ che potrebbero costituire la prima raccolta di una memoria condivisa, a puntate, delle risultanti dei vari confronti che ci apprestiamo (?) a interpretare nelle varie mete di un possibile tour italico. Ho colto la ventilata ipotesi di un prossimo appuntamento campano che potrebbe partorire la seconda collezione, ovvero i ‘quaderni capresi’ oppure ‘pelagici’. Potrei anche candidarmi ad ospitare i ‘quaderni orobici’…
    Preciso per chi non c’era che sono arrivato tardi e non ho partecipato alla chiacchierata di Tivoli, se non alla sua chiusura. Ho però avuto più momenti di scambio nella giornata successiva che mi hanno, almeno in parte, ripagato. Non nascondo che, al momento di partire, avessi qualche velato timore e un paio di rammarichi. Il primo rammarico era quello di sapere che sarei arrivato ‘a giochi fatti’ e il timore, poiché avevo poca o nessuna voglia di riconsiderare il mio trascorso in SF, di lasciarmi coinvolgere in qualche dinamica che riaccendesse i riflettori sul mio percorso di disintossicazione post Congresso 2018 che mi ha permesso di uscire dall'atmosfera modificata in cui mi ero trovato imbustato, ed ero rimasto a mio agio, pur relativo, per anni e in modo completamente consenziente. Scoprendomi invisibile, come il Garabombo di Scorza, il mattino seguente la chiusura dell’assise nazionale del luglio 2018, avevo usato questa nuova facoltà, che mi disconoscevo, per riconsiderare molti aspetti dell’esercizio del potere che, certamente - come dice Michele – sono inevitabili ma che, dentro SF, avevano assunto caratteri grotteschi quanto feroci. Così come, da fuori – una volta fuori, appare ancor più spessa e inconcepibile quell’autoreferenzialità devastante che conduce sicuramente all’irrilevanza: è la storia di molte formazioni del panorama post-sessantottino, non importa se di indirizzo direttamente politico o meno. Ma la supponente auto-centratura di questa cittadella arroccata lascia sul terreno cadaveri eccellenti insieme alle macerie di un possibile costrutto comune, di una casa comune. Casa di progetti comunitari, casa di pensiero, vedi “La sfida di un destino comune”, il denso documento ricordato da Michele, ingoiato e dissolto dai capienti e famelici cassetti braidesi, al pari di tanti altri scritti tesi a dismettere l’autoreferenzialità di cui sopra.
    Quanto scrivo non suoni irriconoscente, ingeneroso o asimmetrico, nulla e niente potrà scalfire l’assoluta convinzione di essere stato felice e privilegiato nell'aver potuto incontrare persone, comunità e progetti di grande valore. Felice e privilegiato quanto consapevole di aver contribuito con tutta l’energia ed intelligenza, di cui potevo disporre, per il ‘bene comune’. Contavo/amo di cambiare il mondo attraverso il cibo, purtroppo non è riuscito nemmeno di cambiare SF, ma questo faceva parte della scommessa, e rimango contento di averne accettato i termini!
    Ma la ‘mia’ vicenda legata a SF mi ha portato, insieme ad altre purtroppo, a focalizzare ancora di più uno dei mali, neanche tanto oscuri, di questo tempo. Mali sui quali mi sarebbe piaciuto conversare con i presenti, e pure con gli assenti.
    L’esasperazione delle individualità, la frammentazione insidiosa in cui si scivola inevitabilmente, l’incapacità di mettere a sistema le energie dei mille torrenti che non diventano mai fiume, l’incapacità di associare i cento fiori in un mazzo ben assortito costituiscono alcuni aspetti di quei mali. Le differenze sono sempre sovraesposte e oscurano, inevitabilmente, le omologie. Inibiscono le possibilità di far dialogare le affinità. Vince sempre ciò che divide e mai quello che unisce. In questo senso ho un’impressione diversa, credo, da quella di Michele, sul mio secondo rammarico annunciato in apertura e non esplicitato. Pur sapendomi a due passi dalla grande manifestazione di Roma, che in piccolissima parte avevo promosso nella mia pur ristretta area comunicativa, non avrei potuto parteciparvi di persona. Non sono un ‘pacifista’ integrale e avevo cercato, con altri, di muovere le sensibilità non nel senso di un moto illusorio per una pace fuori portata, ma per auspicare un cessate il fuoco immediato, per aprire un varco, uno spazio temporale in cui potessero tacere le armi. Non è possibile parlare di pace nel fragore delle bombe, certo quanto è altrettanto illusorio farlo in un mondo, il nostro, che non solo continua a produrre armi, ma in cui esse sono il traino principale dell’evoluzione tecnologica e della concentrazione dei profitti. Nella manifestazione del 5 novembre mi è parso di intravvedere una possibilità di coalizzare le forze dietro a questa scia di pensieri. Scia di pensieri che deve fare del superamento delle categorie novecentesche il suo fulcro, il perno sul quale superare le tante troppe fratture e faglie che impediscono di lasciarci alle spalle duecento anni di anni di supponenza occidentale. In primo luogo, convengo con Michele, ritengo necessario superare le ingombranti eredità novecentesche di stato-nazione-sovranità che perpetuano la necessità di tracciare confini. Di demarcare barriere tra noi e ‘loro’. E non ci svelano il più grande confine, la più vistosa barriera che abbiamo tracciato, quella tra noi e il resto del vivente. Ritengo altrettanto essenziale assumere il coraggio di passare da quel particolare concetto di democrazia liberal-o socialdemocratica, che è la forma che il capitale ha assunto quale faccia presentabile del volgare e crescente sfruttamento di risorse e individui (che continua ad accelerare anziché rallentare), ad una democrazia della T/terra, quella di cui parla Vandana Shiva. Una democrazia quest’ultima non antropocentrica, tantomeno, impastata con la pretesa di vantare primati quali Occidentali. Il nostro modello di organizzazione sociale, per quanto ormai inadeguato e morente anche da noi, pretendiamo di esportarlo con la ‘convincente’ prepotenza delle armi, nonostante gli evidenti fallimenti che hanno devastato il mondo, e continuiamo, con diverse sfumature, a far finta di non vedere. Nella nostra cittadella occidentale le sfumature e ondeggiamenti tra keynesismo e neoliberismo costituiscono una differenza ‘marginale’, perturbazioni dentro ad uno stesso sistema, (Il partito unico del PiL), poiché centrati sulla possibilità di diversi livelli di distribuzione della ricchezza, del reddito e della partecipazione anziché sul cambio di paradigma che regge il sistema. Ovvero il perché, come e per chi si produce la ricchezza, e quale sia il concetto di ricchezza o, per meglio dire, di benessere. Necessitiamo di una chiave di lettura che permetta di prefigurare un possibile superamento del primato/dominio dell’economia sull’ecologia. Una traccia praticabile di questo superamento, in cui sia l’esatto contrario a riportare una speranza di futuro, è il confronto tra lavoro e cura. Se preferite tra società del profitto/lavoro e società della cura. Dentro il confronto tra quella dualità trova spazio e giustificazione anche un diverso concetto di democrazia che superi la centralità umana che in genere le si accompagna. Scindere la corrispondenza diretta tra benessere e reddito/lavoro, indotta da qualche secolo dal capitale, è un passo culturale non da poco. L’etica e l’estetica del lavoro, con tutta la retorica che a quelle si accompagna anche a sinistra, ci ha talmente impregnati che, lo dico per me per primo, fatichiamo a prenderne le distanze. Pensate al dibattito fittizio e subdolo dietro al reddito di cittadinanza. Nessuno, o quasi, ha il coraggio di dire a chiare lettere che il capitale produce, quale elemento sostanziale e costitutivo, l’espulsione di lavoratori dal lavoro. Gli espulsi sono degradati a ‘fannulloni’ (non producono nulla) quindi indegni di reddito, perché non lavorano, non producono accumulazione. Un bel gatto che si morde la coda! Le contraddizioni del sistema, avrebbe detto un certo barbuto economista tedesco. I non lavoratori spariscono dal novero dei cittadini, quindi non hanno diritti (compreso il diritto alla vita?). In più, questi sono doppiamente reietti, perché, come dice Bauman, non sono in grado di partecipare al circo del consumo. Al pari dei migranti, non esistono e non servono se non quali lavoratori, preferibilmente sommersi nel buco nero dell’assenza di diritti o nel labirinto del lavoro interinale, del lavoro povero e senza tutele. Credo non ci si possa esimere dal riconoscimento di un diritto universale al reddito di base scisso da qualsiasi vincolo di prestazione di opera di produzione, ossia di produzione di accumulazione. Per tornare ai due corni della questione. Il lavoro è un fattore di accumulazione, dentro gerarchie mobili ma imprescindibili e dietro un accordo di remunerazione, una necessità. La cura, invece, è basata su reciprocità e scambio in cui la gratuità è base della relazione, è atto volontario non parametrato ad una remunerazione. Quando lo è, cessa di essere tale, o solo prevalentemente tale. Nel nostro mondo è ovviamente riconosciuta una prevalente e dirimente importanza gerarchica al primo rispetto alla seconda. Eppure, quanto più, per i lavoratori, nel lavoro è compresa una quota di cura, tanto più esso è ritenuto soddisfacente e appagante. L’ho provato sulla mia pelle quale insegnante, ma vale per il medico, il contadino, l’operatore sociale, il piccolo pescatore. Per cura intendo il suo significato più ampio: cura di sé, della comunità, del territorio, dell’ambiente, del vivente. Di converso tanto più è assente la cura il lavoro è distruttivo, di sé, della comunità, dell’ambiente, ritenuto una frustrante necessità, spesso un disastro per comunità e ambiente. Quindi una pista è quella di organizzare percorsi che consentano di inserire un ‘quid’ di cura, al più alto livello possibile nel lavoro e, di nuovo al contrario, eliminare progressivamente ciò che nel o del lavoro non è cura. Su questa pista è possibile scindere il nesso cruciale e asfittico tra benessere e reddito, tra benessere e consumo, di merci o servizi. (Qui si apre un universo di problematiche verso i popoli ‘altri’ che ambirebbero al possesso di beni e alla possibilità di consumo che noi occidentali stiamo ritendo non più congrui e in grado di reggere gli equilibri planetari in fatto di risorse ed energia. Vaglielo a dire che il nostro modello è esclusivo, non per scelta soggettiva ma per limiti oggettivi ed invalicabili, se non a prezzo della fine del sistema Terra). Poiché lavoro e cura vivono in contesti sociali storicamente determinati, quelli dell’oggi sono frutto di una globalizzazione in cui il comando è lontano, sfuggente e fisicamente irreperibile, quanto fortemente centralizzato in poche mani e meccanismi. I licenziamenti arrivano via sms, o vengono annunciati su twitter. L’omologazione dei consumi e dei comportamenti fa il paio con l’individualizzazione e parcellizzazione del rapporto con il sistema, torna il tema iniziale, la frammentazione del lavoro e, più ancora, dei lavoratori. In tale contesto è impossibile agire se non localmente, è quasi ininfluente se a farlo non sia una comunità. Praticare una ri-localizzazione del rapporto con il cibo, con i beni, con i servizi è l’unica chance, credo, a maggior ragione se connessa con la rivalutazione dei ‘poteri locali’ nel senso di scelte agite dalle comunità del cibo, dell’energia, della cura come antidoto al dominio delle centrali finanziarie che reggono, e distruggono, il mondo. Un percorso lungo, paziente, apparentemente sotterraneo che innerva però, se replicabile e connesso ad altri, le speranze di un futuro possibile, che non lasci indietro nessuno.
    ---
    PS. Ho condensato con salti e semplificazioni obbligate dei ragionamenti che ho condiviso e mutuato da Roberto Mancini, sociologo, e Guido Viale, economista, due studiosi veri.
    Lorenzo Berlendis, novembre 2022
  2. inviato da Sonia il 14 novembre 2022 17:08
    Belle le parole di Michele, tessute in una trama leggera e mai banale e con passaggi di ferma critica, priva però della spocchia cui siamo in questi tempi abituati. Così oggi mi ritrovo a pensare che l'invisibilità può anche non essere per forza una condanna, bensì trasformarsi in una nuova possibilità... col vantaggio della "trasparenza". Vi abbraccio, Sonia
il tuo nick name*
url la tua email (non verrà pubblicata)*

Link ad altri siti

  • link al sito Sifr - la solitudine della politica
  • osservatorio balcani
  • viaggiare i Balcani
  • link al sito Forum trentino per la pace e i diritti umani
  • Sito nazionale della associazione Sloow Food
  • link al sito dislivelli.eu
  • link al sito volerelaluna.it
  • ambiente trentino
  • pontidivista
  • Sito ufficiale della Comunità Europea