«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani». "Manifesto di Ventotene"
Riprendo dal blog (https://pontidivista.wordpress.com/) questo testo di Federico Zappini che condivido nel merito come nel metodo. Non è solo questione di solidarietà rispetto all'assurdità della richiesta di ritorsioni economiche della PAT o al procedimento giudiziario relativo all'occupazione dell'ex dogana, riguarda piuttosto un'idea di fondo che ha a che fare con i processi di cambiamento che investono una comunità rispetto ad un contesto sociale (e giuridico) palesemente ingiusto. Processi di trasformazione che avvengono molto spesso sul piano culturale prima che muti l'assetto giuridico, creando così conflitti sociali certamente generativi ma anche dolorosi.
Le occupazioni che la città di Trento ha conosciuto fra la fine degli anni '60 e la prima metà degli anni '80 erano tutte azioni illegali ma sfido chiunque a negarne il valore quali tappe importanti non solo nel disegnare l'assetto del verde urbano nei decenni successivi, anche se spesso ce ne siamo dimenticati, ma anche una diffusa cultura partecipativa che attraverso l'azione dei Comitati di Quartiere portò ad un allora inedito decentramento amministrativo.
Va considerato, inoltre, che i protagonisti di quelle azioni “illegali” erano – fra gli altri – molti di quei giovani che in seguito assunsero un ruolo di primo piano nella vita politica ed amministrativa della città e della comunità trentina.
Non è questo il contesto per ricordare le une e gli altri, ma pensare di rispondere come nel caso dell'occupazione dell'edificio dell'ex Dogana di Trento e dopo anni con atti ritorsivi è davvero avvilente, disconoscendo lo stesso riconoscimento politico che quell'occupazione ebbe da parte delle istituzioni.
Se lo si fa in nome del rispetto della legge o della cultura della legalità, basterebbe ricordare che anche forme elementari di lotta come gli scioperi o le manifestazioni sono stati illegali e che se oggi siamo in democrazia dovremmo solo ringraziare chi quelle leggi ebbe il coraggio di infrangerle. Per non parlare delle leggi razziali, delle discriminazioni di varia natura, delle guerre e del nostro parteciparvi contro il dettato costituzionale... e di tutto quello che ha a che fare con la falsa coscienza di chi non ha alzato un dito per impedire che tutto ciò accadesse.
Chi oggi decide o avvalla queste ritorsioni dovrebbe davvero interrogarsi sul concetto di responsabilità, laddove la colpa politica o quella morale non si estinguono con l'accertamento delle responsabilità criminali. Troppo comodo.
Quando venimmo assolti per aver occupato la stazione dei treni di Trento al passaggio dei mezzi corazzati destinati alla prima guerra del Golfo, tale assoluzione venne ricondotta dall'istanza giudicante all'alto valore morale di quel comportamento che certo infrangeva la legge. Non vorrei che addirittura i tribunali fossero più avanti della politica. (m.n.)
di Federico Zappini
(17 aprile 2017) Ogni volta che questa storia riemerge – una volta l’anno all’incirca, negli ultimi cinque – tento di sconfiggere la tristezza e lo scoramento che immediatamente mi colpiscono. La storia è quella dell’occupazione dell’Ex Dogana di Trento e del successivo tentativo di recupero crediti da parte della Provincia Autonoma di Trento, proprietaria dell’immobile. Centoventimila euro circa (da dividersi tra i sei “colpevoli”) dovute per aver ritardato la realizzazione – questo l’ambizioso “piano” provinciale – di un piccolo numero di parcheggi. Un “divieto di sosta” piuttosto costoso, che avrà un’appendice giudiziaria con l’invito a comparire in tribunale il prossimo 26 luglio. Qui e qui trovate qualche informazione in più sul caso, visto che non intendo ritornarci in questo articolo.
È il pomeriggio di venerdì 11 ottobre 2013. Per cinque ore nel mare calmo almeno 480 profughi siriani su un peschereccio che sta affondando attendono i soccorsi. La nave più vicina, il pattugliatore militare Libra, è ad appena 17 miglia, un'ora di navigazione. Ma il comando della Marina, in piena operazione di soccorso, impedisce il suo intervento. E addirittura ordina alla comandante, il tenente di vascello Catia Pellegrino, tenuta all'oscuro delle reali condizioni di pericolo, di allontanarsi e andare a nascondersi: in modo che sia una motovedetta maltese a farsi carico del recupero dei profughi, anche se l'unità di Malta è ancora a 120 miglia.
Davanti alla Camera il 17 maggio scorso, dopo la pubblicazione sul sito de L'Espresso dell'altro videoracconto "Il naufragio dei bambini", il ministro Pinotti ha invece dichiarato: «La Marina riferisce che appena informata... ha disposto di propria iniziativa che nave Libra, distante circa quindici miglia nautiche dal natante in difficoltà, si dirigesse verso il punto segnalato». Questa e altre telefonate dimostrano l'esatto contrario. Nel naufragio sono annegate 268 persone, tra cui sessanta bambini.
di Michele Nardelli
(3 giugno 2017) In questi giorni si svolge la dodicesima edizione del Festival dell'Economia di Trento, quest'anno dedicata al tema per nulla banale della “Salute diseguale”.
Ospitare un evento annuale di riflessione sulle cose del mondo ha un valore in sé, considerato che la conoscenza è il tratto che consideriamo decisivo per abitare la “metamorfosi” del nostro presente. Cosa per nulla scontata nel delirio del “fare”. Eppure l'ossessione delle ricadute non ha smesso di interrogare decisori e finanziatori sugli effetti del festival in termini di presenze e di produzione di PIL. Ma su questo piano non c'è che dire, il festival dello scoiattolo rappresenta una kermesse di successo, misurabile dalla capacità di attrazione e di pubblico presente, dall'indotto sull'economia locale, dalla qualità dei relatori provenienti da tutto il mondo e, infine, dall'aver fatto di Trento la città del Festival dell'Economia.
di Francesco Picciotto
Il mio amico Michele Nardelli ha cominciato il suo viaggio nella “solitudine della politica”. Intendo accompagnarlo. Almeno per un pezzo del tragitto.
In questo “orribile” tempo preelettorale, mi piace immaginarci come due viandanti muniti di zaino che percorrono una via sacra, una di quelle ormai perdute nella memoria della gente, una via che attraversa città dove si svolgono incredibili feste pagane. E noi impegnati, con la nostra mappa ormai scolorita, con la nostra bussola un po’ smagnetizzata, a cercare quel sentiero oramai ricoperto dall’asfalto, quella traccia perduta sotto strati e superfetazioni.
E’ così che me lo immagino il “nostro viaggio”, il nostro “Pellegrinaggio in Oriente”, Caro Michele, ma come tutti i cammini sacri che si rispettino ci sono alcune condizioni da rispettare, alcuni presupposti dei quali bisogna tenere conto.
(29 marzo 2017) Ulivi centenari, talvolta millenari. Come in Palestina, anche nel Salento la prima sensazione che ho provato avvicinandomi a queste meraviglie della natura è stata la fragilità delle nostre esistenze, quel profondo rispetto che provi verso le cose più grandi te, come se delle piante potessero infonderti il senso del limite.
Vedere – come avviene in Palestina – queste sculture naturali tagliate come segno di disprezzo per qualcosa che rappresenta la storia degli altri o – come accade in questi giorni nel Salento – strappate dalla terra per far posto alle magnifiche sorti di un progresso che non sa interrogarsi sulla propria insostenibilità, prova in me un senso insieme di dolore e di indignazione.
«Il viaggio a me sembra la forma d'intimità per eccellenza, forse perché consente il dialogo ma accoglie anche il silenzio: rispetta le solitudini, lascia spazio al discorso interiore e alla contemplazione. Il paesaggio che scorre cattura lo sguardo, è un pensiero condiviso. Così l'andare insieme assomiglia molto al vivere insieme: c'è un rapporto di coppia, un percorso più o meno accidentato, il tempo necessario ad arrivare in fondo»
Paolo Cognetti, "A pesca nelle pozze più profonde" (Minimum fax)
di Federico Zappini
(17 febbraio 2017) Se non fosse già stata usata in mille altre occasione si potrebbe far riferimento alla metafora biblica della traversata del deserto. Bene si adatterebbe alla solitudine da cui abbiamo deciso di partire, se non fosse che il contesto politico dentro il quale ci muoviamo non è caratterizzato solo da un'interminabile serie di vuoti (linguistici, valoriali, organizzativi) ma anche e soprattutto da un livello di saturazione ("l'abbagliante luce prodotta dalla modernità", così come la descrive Huberman [1]) che opprime e che disorienta. Lo spazio della riflessione, dell'approfondimento, dell'analisi e del confronto - alla base di qualunque sistema politico e sociale che pretenda di funzionare - è oggi quanto di meno praticabile e accogliente si possa immaginare. Saturo appunto, in un mix letale di conformismo e indifferenza.
Una lettera di Aldo Bonomi intorno al libro di Marco Revelli "Non ti riconosco" (Einaudi, 2016)
Caro Marco,
ti scrivo, come spesso accaduto anche in passato in analoghe circostanze, per ragionare insieme della discontinuità che attraversa il sociale, l’economia e la politica. Nelle passate occasioni mi era più chiaro comprendere le linee di discontinuità che andavano delineandosi. Nel passaggio dal fordismo al postfordismo mi era chiara la discontinuità tra le voragini urbane e sociali lasciate dalla FIAT a Torino e l’emergere della fabbrica diffusa, del capitalismo molecolare, orfani nella scomposizione sociale del soggetto operaio massa. Il motivo di questa mancanza di chiarezza credo risieda nel fatto che non di discontinuità dobbiamo parlare oggi, ma di vero e proprio salto d’epoca.
Guardando a ciò che resta dei modelli di sviluppo, loro la chiama crescita, della società e della politica, mi domando se non ci resti che sussurrare, o urlare, “non ti riconosco più” e ritirarci in buon ordine nel racconto di microcosmi e di territori resilienti, magari facendo rete con Magnaghi e la sua rete dei territorialisti alla ricerca del “vento di Adriano” o di un’altra globalizzazione “dal basso”, oppure se valga la pena di alzare lo sguardo e continuare a cercare per continuare a capire oltre l’invito di Candido “Dobbiamo coltivare il nostro orto”, evocato in un tuo scritto sul Manifesto. O ancore se valga la pena continuare nella fatica di Sisifo dello scomporre e ricomporre il farsi della società nel salto d’epoca dell’accelerazione, con lo sguardo delle lunghe derive braudeliane del potere, del mercato e della civiltà materiale.