"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Alla commemorazione per i 25 anni dal genocidio di Srebrenica si attendevano centomila persone. Saranno, causa restrizioni Covid-19, molte meno. Le numerose iniziative artistiche e di memoria quest'anno, in assenza di un momento di conforto collettivo, acquisiscono ancora maggiore importanza
di Alfredo Sasso *
I funerali delle vittime identificate negli ultimi dodici mesi – quest'anno in tutto otto - si terranno regolarmente, così come si svolgerà la tradizionale commemorazione dell’11 luglio. Ma il venticinquesimo anniversario del genocidio di Srebrenica si svolgerà in una cornice molto ridimensionata. L'incidenza del Covid, che in Bosnia Erzegovina era stata relativamente contenuta nei mesi primaverili, si è riacutizzata nelle ultime settimane, comportando nuove restrizioni sugli eventi pubblici e sugli arrivi dall'estero.
Prima della pandemia, gli organizzatori prevedevano circa centomila persone e di questi almeno diecimila, provenienti da tutto il mondo, sarebbero stati i partecipanti attesi alla Marcia della Pace. È il cammino di circa cento chilometri che riprende a ritroso quello compiuto da migliaia di bosniaci musulmani nel luglio 1995, che cercarono – solo una piccola parte vi riuscì - di mettersi in salvo dalle milizie serbo-bosniache che avevano appena occupato la cittadina di Srebrenica per poi operare l'eliminazione sistematica di tutti gli uomini adulti catturati, almeno 8.372 secondo l’elenco del Memoriale di Potoari.
Aglaja Veteranyi
Perché il bambino cuoce nella polenta
Keller, 2019
Solo ora, dopo la lettura del libro di Aglaja Veteranyi, ho compreso il senso profondo di quelle parole con le quali l'amico Gheorghe, artista rumeno, qualche anno fa a fronte del mio quasi rimprovero verso le sue superstizioni e paure, aveva chiuso la discussione: “voi – mi disse Gheorghe – non potete capire”.
Ci voleva l'universo parallelo dei circensi rumeni. Ci volevano gli odori, la cucina greve, le file per il pane «che diventa professione», la paura che ti entra nella carne, per farmi comprendere per davvero quelle parole.
Perché il circo è l'immagine appena deformata della realtà, la rappresentazione tragicomica della condizione umana. Puoi fuggire, andartene altrove, ma non te la togli di dosso, ti impregna la vita... Puoi persino elaborarla, ma è sufficiente un poliziotto qualsiasi che esibisce il suo misero potere per riportarti giù, nell'abisso del sopruso.
Per abitare il quale il romanzo di Aglaja Veteranyi è una chiave potente. Un acquerello geniale che ci aiuta a capire la fatica del vivere, in Romania, in Svizzera o altrove, poco importa. «Il circo è sempre all'estero». Nel terrore quotidiano per la madre che volteggia appesa per i capelli esorcizzato dal racconto del bambino che cuoce nella polenta. O, per altro verso, nell'abbandono in collegio, terreno fertile di esercizio di violenza e potere da parte di una qualsiasi signora Hitz che ti ossessiona con i bambini poveri che in Africa muoiono di fame (senza mai essere stata né in Romania, né in Africa). O, ancora, nell'ordinario abisso della vita, dove «l'inferno è dietro il paradiso».
La crisi europea, che si sta svolgendo al confine tra Grecia e Turchia, vista dagli occhi di chi, in passato, si è trovato ad essere rifugiato.
di Aleksandar Brezar *
(marzo 2020) Non è facile parlare di un trauma profondo, che cambia la vita. C'è sicuramente bisogno di tempo. Hai bisogno di processarlo, di passare attraverso un apparente ciclo senza fine di impotenza, repressione, dolore, negazione, colpevolezza e di fronteggiarlo se eventualmente torna alla luce.
C'è bisogno di tempo per accettare che non andrà veramente mai via. Diventa semplicemente più facile conviverci. Se sei fortunato. Persino allora, non puoi prepararti per quando deciderà di colpirti in faccia o di pugnalare il tuo cuore, non molto diversamente da un capriccio.
Jože Pirjevec
Tito e i suoi compagni
Einaudi, 2015
(29 gennaio 2016) E' uno sguardo sul Novecento quello che ci propone Jože Pirjevec in questo minuzioso lavoro di ricerca storica (620 pagine, 1722 note bibliografiche) sulla figura che più di ogni altra ha caratterizzato la vicenda di un paese come la Jugoslavia, sorto e scomparso nel corso del secolo breve.
Non è solo una questione di date. C'è dell'altro, che ben interpreta la lucida follia di questo secolo, le sue “sovrumane promesse” e le grandi tragedie che il Novecento ci ha lasciato in eredità.
Ci si dovrebbe chiedere, semmai, le ragioni che hanno portato un piccolo paese ad essere al centro del mondo. Perché, a pensarci bene, il Novecento nasce e muore a Sarajevo. Perché qui avviene la più forte resistenza popolare al nazifascismo. Perché è la Jugoslavia di Tito a rompere nel 1948 il monolitismo del blocco sovietico. Perché è sempre qui che prende il via l'idea del “non allineamento”, movimento che accompagnerà nel secondo dopoguerra la fine del colonialismo. Perché è ancora qui che negli anni '90, dopo mezzo secolo e nel cuore dell'Europa, riappariranno i campi di concentramento della pulizia etnica. E come anche un piccolo centro possa contenere – lo insegnano gli esoterici – tutto il mondo1.
Dragan Velikic
Bonavia
Keller editore, 2019
«... Si stanno spegnendo gli anni Ottanta. Manca ancora poco perché si crei il ritmo, perché il meccanismo batta il tempo in maniera più veloce e forte, dopodiché tutti loro, poveri e inconsolabili, affonderanno nel tempo eterno della nazione. Si raduneranno sotto le bandiere, lì dove la sconfitta viene cantata come vittoria. Maggiore sarà la sconfitta individuale, maggiore sarà la vittoria per l'intera comunità. La giustizia storica è in arrivo, il tempo della resa dei conti. Una nuova versione della storia. …
L'intelligenza da bar si travasa rapidamente. Gocciola da tutte le parti. La terra si inzupperà di sangue. Finora solo parole vuote che minacciano di soffocare tutto. Siamo solo all'inizio. Incomprensione, confusione, paura. Poi follia. Poco importa se l'origine è nelle soffitte borghesi di Zagabria o nelle pietraie dell'Erzegovina. Quando il primitivismo, il male e la povertà acquistano voce, comincia lo sfacelo. Nulla è più importante. Diventano uguali sia il contadino sia l'inviata in prima linea sul fronte che appare sugli schermi tv con il suo ciuffo viola. E' l'odio che parla. Finalmente anche noi, scarti degli scarti, abbiamo preso la parola. Successivamente prenderemo gli appartamenti e le pensioni da veterani di guerra. Il momento del primo risveglio. Chi lo avverte in anticipo, chi riesce a intuire cosa cantano i cori notturni diventa l'eroe del nostro tempo. Noi, ladri di cadaveri. Insieme ai giornalisti che arrivano da tutto il mondo per una loro porzione di storia, per riempire le taniche di catarsi e consegnarla agli spettatori nei telegiornali di punta. Assoluzione per tutti.
di Predrag Perisic*
Riprendo dal sito di OBC questo racconto originariamente pubblicato dal quotidiano Politika il 27 settembre 2019, selezionato e tradotto da Jasmina Radivojevi
Stavo seduto in un kafic1 che frequento quasi tutti i giorni. Ho ordinato un caffè e mi sono messo a leggere i giornali. Il cameriere mi ha portato il caffè e a voce alta mi ha detto: “Komšija2, perché legge questa spazzatura?” Non vi era cattiveria nella sua voce. Si percepiva persino una sincera preoccupazione per la mia salute mentale. "Loro pubblicano solo inganni e le bugie", e questo lo ha detto già con un tono leggermente più alto. Le persone presenti nel kafic si sono girate verso di me. All’improvviso il clima è cambiato. O ero io ad avere quest’impressione. La gente mi guardava in un modo diverso. Non ero intimorito, solo non mi sentivo a mio agio, cominciavo a percepire uno strano senso di colpa, senza nessun motivo né ragione. Ho compreso di quanto si è ristretto lo spazio della libertà generale e personale. Ho pensato: oggi mi prescrivono cosa devo leggere, domani cosa dire e dopo domani cosa pensare… in quel momento, salvifico fu il suonò del cellulare. "Sono un medico dell’Istituto psichiatrico 'Laza Lazarevic'. È lei il Sig. P?" –"Sì." –"Abbiamo qui un paziente che dichiara di conoscerla e che lei garantirà per lui in caso di dimissioni". - "Come si chiama?" – "Djordje V." – "Non lo conosco." – "È quello che abbiamo pensato… Lui si immagina tante cose, probabilmente così facendo si è inventato anche il suo nome. Scusi il disturbo".