«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani». "Manifesto di Ventotene"
Aglaja Veteranyi
Perché il bambino cuoce nella polenta
Keller, 2019
Solo ora, dopo la lettura del libro di Aglaja Veteranyi, ho compreso il senso profondo di quelle parole con le quali l'amico Gheorghe, artista rumeno, qualche anno fa a fronte del mio quasi rimprovero verso le sue superstizioni e paure, aveva chiuso la discussione: “voi – mi disse Gheorghe – non potete capire”.
Ci voleva l'universo parallelo dei circensi rumeni. Ci volevano gli odori, la cucina greve, le file per il pane «che diventa professione», la paura che ti entra nella carne, per farmi comprendere per davvero quelle parole.
Perché il circo è l'immagine appena deformata della realtà, la rappresentazione tragicomica della condizione umana. Puoi fuggire, andartene altrove, ma non te la togli di dosso, ti impregna la vita... Puoi persino elaborarla, ma è sufficiente un poliziotto qualsiasi che esibisce il suo misero potere per riportarti giù, nell'abisso del sopruso.
Per abitare il quale il romanzo di Aglaja Veteranyi è una chiave potente. Un acquerello geniale che ci aiuta a capire la fatica del vivere, in Romania, in Svizzera o altrove, poco importa. «Il circo è sempre all'estero». Nel terrore quotidiano per la madre che volteggia appesa per i capelli esorcizzato dal racconto del bambino che cuoce nella polenta. O, per altro verso, nell'abbandono in collegio, terreno fertile di esercizio di violenza e potere da parte di una qualsiasi signora Hitz che ti ossessiona con i bambini poveri che in Africa muoiono di fame (senza mai essere stata né in Romania, né in Africa). O, ancora, nell'ordinario abisso della vita, dove «l'inferno è dietro il paradiso».
Bruce Levine
La Guerra civile americana
Una nuova storia
Einaudi, 2015
«Nel 2008 Barack Obama viene eletto presidente degli Stati Uniti d'America. Per la prima volta un uomo con la pelle del colore degli schiavi guida il più potente paese al mondo, dove pure vigevano fino agli anni '60 leggi segregazioniste. Cambio di scena e nel 2016 al suo posto sale alla Casa Bianca Donald Trump, espressione nemmeno troppo nascosta del white pride, l'orgoglio bianco. Com'è potuto accadere?
Guardando in quali Stati dell'Unione Trump ha avuto la maggioranza, emerge una geografia politica non dissimile a quella che nel 1861 portò alla Guerra di secessione americana. Alabama, Arkansas, Carolina del Nord e del Sud, Florida, Georgia, Louisiana, Mississipi, Texas e Virginia rappresentavano l'America profonda che si batteva contro l'abolizione dello schiavismo, molto diffuso proprio al sud.
Oggi questi stessi Stati hanno permesso l'elezione di Trump, esprimendo un orientamento politico-culturale conservatore quando non apertamente razzista. E' sempre in questi territori, tra l'altro, che il richiamo alla sicurezza personale si traduce nel maggior indice di diffusione delle armi da fuoco. Diverse possono essere le ragioni – dalla struttura economica a quella demografica – ma tra esse va tenuta in considerazione la mancata elaborazione delle vicende storiche, tanto della pulizia etnica verso le popolazioni native quanto della segregazione razziale».
Mauro Cereghini, Michele Nardelli
“Sicurezza” (Edizioni Messaggero, 2018)
Ora, con l'approssimarsi delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti d'America e di fronte al clima di scontro senza esclusione di colpi che polarizza non solo la campagna elettorale ma anche l'elettorato nordamericano, ho cercato di approfondire una delle pagine più tragiche della pur breve storia di quel paese, considerato che quella più antica e profonda è stata praticamente cancellata dai coloni europei. Parlo della guerra di secessione o, come viene chiamata negli USA, della guerra civile americana che dal 12 aprile 1861 al 23 giugno 1865 provocò più di un milione di morti. Una guerra che anticipò – nel rapporto fra tecniche belliche e rivoluzione industriale (l'introduzione delle armi automatiche) – il secolo degli assassini.
Beirut
Storia di una città
Einaudi, 2009Di fronte alle tragiche imamgini di queste ore, un piccolo omaggio alla città di Beirut raccontata magistralmente da Samir Kassir, uno degli intellettuali più prestigiosi del mondo arabo che della sua primavera fu protagonista e vittima.
«Da sempre Beirut, tra i bagliori di una città aperta - al tempo stesso orientale e occidentalizzata, cristiana e musulmana, moderna ma profondamente radicata in una storia che ha visto passare Pompeo, Saladino, i Pascià Jazzar e Ibrahim - e gli incubi di un luogo esposto di continuo alla guerra, con i suoi abitanti di svariata provenienza, i suoi scrittori e artisti, i suoi contrasti ed eccessi, continua ad alimentare limmaginario piú variegato.
Restituendo alla città i mille volti della sua storia, Samir Kassir ci racconta le grandi contraddizioni della prima metropoli del mondo arabo. Spesso idealizzata in passato per lo scenario felice e la natura lussureggiante, nella seconda metà del Novecento Beirut vive la sua età delloro, ponendosi al centro di interessi economici che superano i confini della piccola Repubblica Libanese.
Amitav Ghosh
La grande cecità
Neri Pozza Editrice, 2017
«La leggerezza e l'agilità della scrittura di Ghosh riescono a mantenere tutta l'urgenza e le ombre di qualcosa che non riusciamo davvero a guardare: il destino dell'umanità». Giorgio Agamben
Franco Cassano
L'umiltà del male
Laterza, 2012
Nella partita contro il bene, il male parte sempre in vantaggio grazie all'antica confidenza con la fragilità dell'uomo. Chi vuole annullare quel vantaggio deve riconoscersi in quella debolezza, invece di presidiare cattedre morali sempre più inascoltate.
Eric Gobetti
E allora le foibe?
Edizioni Laterza, 2020
Per anni ho cercato di affrontare la tragedia che si è consumata nel corso del Novecento in quell'incrocio particolare di storie, culture, popolazioni che è – a seconda degli sguardi – il confine nord orientale, oppure quello nord occidentale, l'Alto Adriatico, la soglia dei Balcani o il limes fra latinità, slavismo e mondo tedesco, rifuggendo da letture manichee e nazionaliste.
E bene fa Eric Gobetti nel suo “E allora le foibe” uscito nelle scorse settimane a proporre come incipit del suo lavoro la necessità di rivedere i concetti che sin qui sono prevalsi nella lettura di quegli avvenimenti (e più in generale nella vecchia geografia politica), a cominciare da quello di “stato-nazione” rivelatosi tanto perverso da segnare tragicamente il secolo che così disinvoltamente quanto sbrigativamente ci siamo messi alle spalle.
Soprattutto per chi ha avuto in sorte di nascere lungo quel limes, è difficile prescindere da quell'intreccio (o meglio sarebbe dire da quell'ingorgo) identitario, fra improbabili radici nazionali, anagrafi storpiate, toponomastiche piegate al volere del potere di turno, appartenenze e narrazioni ossessive.
Nella mia terzietà, ho cercato di non eludere il conflitto, parlandone senza cadere nella vulgata spesso retorica delle parti, gettando ponti quasi sempre non voluti e poco apprezzati, iscrivendo gli avvenimenti nel contesto storico e geopolitico in cui si è consumata questa complessa vicenda, dando credito per quanto possibile alla verità dei fatti e riconoscendo il dolore di ciascuno. Avvalendomi del prezioso lavoro di chi, con analogo approccio e ben maggiore capacità di ricostruzione storica, ha dedicato alla vicenda di cui stiamo parlando una parte significativa del proprio impegno.
Remo Bodei
Limite
il Mulino, 2016
«... resta pur sempre valido il monito espresso dall'immagine della ninfea che raddoppia quotidianamente le sue dimensioni, di modo che, il giorno che precede la copertura dell'intera superficie dello stagno, la metà ne resta ancora scoperta, per cui quasi nessuno, alla vista di tanto spazio libero, è portato intimamente a credere all'imminenza della catastrofe...»
(8 novembre 2019) La notizia arriva attraverso il notiziario radiofonico di Rai 1 di stamane. E' morto il filosofo Remo Bodei. La cosa mi colpisce oltremodo, non solo perché ne conoscevo il valore e una piccola parte delle sue opere, ma perché in questi giorni uno dei suoi ultimi lavori stava sulla mia scrivania, per aiutarmi nella scrittura del libro al quale sto lavorando e dedicato a Vaia, la tempesta che un anno fa ha devastato migliaia di ettari di bosco nelle Dolomiti.