"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Una lettera di Aldo Bonomi intorno al libro di Marco Revelli "Non ti riconosco" (Einaudi, 2016)
Caro Marco,
ti scrivo, come spesso accaduto anche in passato in analoghe circostanze, per ragionare insieme della discontinuità che attraversa il sociale, l’economia e la politica. Nelle passate occasioni mi era più chiaro comprendere le linee di discontinuità che andavano delineandosi. Nel passaggio dal fordismo al postfordismo mi era chiara la discontinuità tra le voragini urbane e sociali lasciate dalla FIAT a Torino e l’emergere della fabbrica diffusa, del capitalismo molecolare, orfani nella scomposizione sociale del soggetto operaio massa. Il motivo di questa mancanza di chiarezza credo risieda nel fatto che non di discontinuità dobbiamo parlare oggi, ma di vero e proprio salto d’epoca.
Guardando a ciò che resta dei modelli di sviluppo, loro la chiama crescita, della società e della politica, mi domando se non ci resti che sussurrare, o urlare, “non ti riconosco più” e ritirarci in buon ordine nel racconto di microcosmi e di territori resilienti, magari facendo rete con Magnaghi e la sua rete dei territorialisti alla ricerca del “vento di Adriano” o di un’altra globalizzazione “dal basso”, oppure se valga la pena di alzare lo sguardo e continuare a cercare per continuare a capire oltre l’invito di Candido “Dobbiamo coltivare il nostro orto”, evocato in un tuo scritto sul Manifesto. O ancore se valga la pena continuare nella fatica di Sisifo dello scomporre e ricomporre il farsi della società nel salto d’epoca dell’accelerazione, con lo sguardo delle lunghe derive braudeliane del potere, del mercato e della civiltà materiale.
Con l'avvio del nuovo anno anche una nuova rubrica in questo che vuole essere uno spazio di pensiero aperto al contributo di tutte le persone che hanno a cuore il presente ed il futuro della politica trentina e non solo. Un invito, dunque ad utilizzarlo...
(27 dicembre 2016) Il detto popolare “non svegliare il can che dorme” bene si attaglia alla pattuglia degli iscritti al PD del Trentino che hanno messo nero su bianco la richiesta ai garanti di intervenire disciplinarmente su esponenti del PD con cariche pubbliche che si sono espressi per il No alla controriforma costituzionale.
Comprensibile la preoccupazione del segretario provinciale Gilmozzi che, non vedendo l’ora di andare oltre la vicenda referendaria per affrontare i nodi strutturali del partito sia in sede locale che nazionale, ha consigliato ai sostenitori del Si di abbassare i toni. Roba da congresso, dichiara Gilmozzi, il dibattito sulle linee strategiche: una verità lapalissiana, specie alla luce dei nodi sempre più ingarbugliati delle vicende regionali e non solo.
Questioni rinviate alle calende greche, a partire da quella dell’assetto del partito: Federato al partito nazionale (una minestra riscaldata) o soggetto autonomo legato a Roma da un patto, come prevederebbe l’impianto federalista dello statuto? Senza questa scelta convinta di radicamento territoriale il partito non ha futuro.
di Steven Forti*
«Caro ministro Poletti,
sono davvero indignato per le Sue parole riguardo alle migliaia di giovani italiani che vivono all’estero: “conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi". Non so che persone conosca sinceramente, mi piacerebbe me lo spiegasse guardandomi negli occhi.
Un ministro non può, né deve permettersi di rivolgersi con tale arroganza e cafonaggine a chi ha abbandonato, per volontà propria o per necessità, il proprio paese perché questo non ha saputo dargli la possibilità per realizzarsi o, ancora più semplicemente, per vivere dignitosamente. Ancora più visto il ruolo che Lei ricopre e viste le Sue responsabilità rispetto all’attuale situazione del mondo del lavoro in Italia: oltre a dimostrare un minimo di rispetto, dovrebbe preoccuparsi di questa continua emorragia di giovani in un’Italia sempre più vecchia e, ormai da anni, stagnante economicamente e culturalmente. Sono centinaia di migliaia i giovani che hanno lasciato il nostro paese per cercare un lavoro e un futuro altrove.
di Soheila Javaheri Mohebi
Per elaborare un discorso sulle donne afghane questa volta ho deciso di andare oltre la trascrizione delle mie sensazioni, rivolgendo una domanda ad un gruppo stretto di amici e conoscenti, persone di cui stimo pensieri e ammiro le opere artistiche nei campi più diversi, dalla letteratura alla fotografia, dalla saggistica al teatro. Il risultato è stato sorprendente e nello scritto che segue provo a raccontare di un Afghanistan immaginario che è emerso dalle nostre discussioni.
La mia domanda era così posta: «Dopo la caduta di Kabul del 15 agosto 2021 e la frammentazione del paese, dove potrebbe essere il punto Sifr-Zero, di partenza per il movimento dell’emancipazione femminile in Afghanistan?»
Roghia Hassanzada pensa che non esista un punto Sifr-Zero per il movimento dell’emancipazione femminile. La caduta di Kabul era il momento cruciale per quella voglia di cambiare le regole del gioco a favore delle donne, una voglia che insieme alle sue conquiste è stata sepolta viva. Roghia viveva a Herat e faceva parte del circolo letterario e artistico della città, dopo la caduta di Kabul, insieme a sua figlia è scappata in Iran e vive in una condizione precaria e vulnerabile a Mashhad. La sua vita e quella di sua figlia è fuori pericolo, ma è preoccupata per i suoi due figli maschi rimasti a Herat.
In ricordo di Ottorino Bressanini
di Michele Nardelli
Paolo Burli mi chiama mentre sono a Roma nel quartiere Ostiense, poco prima di incontrare lo scrittore Eraldo Affinati nell'ambito del mio (e ora di tanti altri) “Viaggio nella solitudine della politica”. Mi dice che Ottorino Bressanini è alla fine del suo percorso e che sarà questione di giorni. Improvvisamente un'infinità di immagini mi si affollano per la mente come se lungo il percorso di una vita ciascuno dei nostri momenti d'incontro avesse rappresentato un'occasione perduta per dirci qualcosa di più o per scambiarci un gesto di amicizia.
Avevo saputo dell'insorgere della sua malattia poco meno di un anno fa, a Baitoni di Bondone, in occasione della festa dello Spi Cgil dove mi avevano invitato con Paul Renner e Vincenzo Passerini a parlare della guerra mondiale in corso e che quotidianamente rimuoviamo. Nello sconcerto dei tanti amici e compagni presenti quel giorno e che qualche anno prima avevano dovuto salutare Milena Demozzi, dirigente della Cgil del Trentino e compagna di Ottorino, anche lei portata via a soli 52 anni da un tumore.
Dopo di allora avevo rivisto Ottorino una sola volta e i segni della malattia già iniziava a portarseli addosso. Ma sfuggiva via, come a non voler parlare di sé, lasciandomi l'impressione che già si fosse rassegnato come a voler considerare conclusa la propria vicenda.
Lauca Rastello non è più di questo mondo. Luca non era solo un intellettuale, scrittore, giornalista e persona impegnata nella solidarietà e nella cooperazione internazionale... Luca era uno di noi. Ci ha lasciato tante cose, lo sguardo sul mondo, il rigore, l'ironia, il sorriso. Anche una significativa produzione letteraria: La guerra in casa (Einaudi, 1998), Piove all'insù (Bollati Boringhieri, 2006), Io sono il mercato (Chiarelettere, 2008), La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani (Laterza, 2010), Binario morto (Chiarelettere, 2012) e il suo ultimo romanzo pubblicato, I buoni (Chiarelettere, 2014) la cui recensione di Mauro Cereghini potete trovare nella home page. Grazie, Luca, per tutto questo e per il tempo che abbiamo vissuto insieme.
di Michele Nardelli
(7 luglio 2015) Guardo in maniera strana il filodendro che ho in camera da letto. Qualche anno fa gli abbiamo dato un taglio radicale per tanto grande era diventata questa pianta, ma niente, ora sembra più forte che mai. Così ieri, dopo aver avuto la notizia che non avrei voluto ricevere, la osservavo con una certa diffidenza perché di quella pianta Luca mi confessò imbarazzato aveva timore, tanto che una sera di molti anni fa mi chiese di poter dormire in un'altra stanza.
Una possibile lettura della protesta dei richiedenti asilo in via Brennero
di Soheila Mohebi, Razi Mohebi e Nicole Valentini
(4 aprile 2016) Il primo aprile alcuni richiedenti asilo residenti a Trento hanno organizzato una manifestazione di protesta che ha bloccato il traffico di via Brennero per qualche ora. I manifestanti hanno esibito dei cartelli nei quali reclamavano i loro diritti alla protezione, alla giustizia e alla salute. Un giovane manifestante interrogato sui motivi della protesta ha affermato di voler solo avere il diritto di studiare e di lavorare. Ha poi aggiunto che alcuni richiedenti bisognosi di cure devono aspettare fino a due settimane per andare dal medico. Il Presidente della Provincia Ugo Rossi ha affermato che nove richiedenti che sono stati identificati verranno espulsi dal programma di accoglienza.
Questa la premessa dei fatti, ma chi sono queste persone e cosa li ha spinti ad organizzare questa protesta? I protagonisti di questa vicenda appartengono tutti ad un gruppo di richiedenti asilo ospitati presso la Residenza Brennero, eppure in comune non hanno solo il domicilio. Come affermato dagli stessi, molti di loro sono in attesa di una risposta da almeno due anni. Cosa è accaduto in questo tempo? Non abbiamo dati o testimonianze disponibili, possiamo però ricostruire alcuni eventi attraverso gli articoli apparsi in questi due anni sui giornali trentini e aventi come protagonisti i richiedenti della Residenza Brennero. Forse qui potremmo trovare, se non la risposta a queste domande, almeno uno spunto che inviti alla riflessione. Rivediamo quindi questi eventi in ordine cronologico: