"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Al di là di una visione etnocentrica dell'untore
di Marcello Flores *
La diffusione del Coronavirus ha suscitato, come era inevitabile e naturale, un confronto con le grandi pandemie ed epidemie del passato. Manzoni è stato probabilmente il più citato e continui sono stati i richiami anche alla Grande peste – o Peste nera – della metà del Trecento, ma è stata soprattutto l’epidemia di influenza «spagnola» che ha colpito quasi al termine della Prima guerra mondiale e si è protratta fino alla fine del 1920 a rappresentare il termine di confronto più continuo.
Le pandemie del passato sono state ricordate, molto spesso, perché provenivano «anche loro» dalla Cina, come quella attuale. Della «spagnola» (di cui solo talvolta è stato ricordato che non è stata originata in Spagna, ma che quel Paese, non partecipe alla guerra, aveva un’informazione più libera e non sottoposta alla censura, e ne poté quindi parlare per primo) ci hanno detto più volte che ha avuto il suo epicentro in Europa (per via della guerra), dimenticando gli oltre quindici milioni di morti (su una cinquantina totali) dell’India.
di Neri Pollastri *
La filosofia nasce dal thauma, dall’inquieto stupore prodotto da qualcosa che mette in mora quanto normalmente dato per ovvio, obbligando a riflettere e a trovare un significato diverso alla realtà. Questo atteggiamento che si assume di fronte al turbamento è anzi proprio ciò che caratterizza la filosofia: c’è chi si spaventa, chi si deprime, chi cerca aiuto, chi prova a rimuovere, chi cerca spiegazioni ad hoc e chi, invece, s’interroga riflessivamente e, in tal modo filosofando, fa tesoro di una spiacevole esperienza inattesa.
Da oltre un mese siamo tutti di fronte a un thauma: il SARS-CoV-2, alias coronavirus, è un’inattesa e inedita minaccia per chiunque (anche se i più a rischio sono gli anziani e i debilitati), della quale non sappiamo quasi nulla tranne ciò che impariamo convivendoci – non ne conosciamo caratteristiche biologiche, effetti di lungo periodo, farmaci antagonisti e forme di contenimento – e per fronteggiare la quale non abbiamo potuto far altro che cambiare largamente i nostri modi di vivere per cercare di non infettarci. Va sottolineato che questa lacuna conoscitiva riguarda tutti, semplici cittadini ed esperti; questi ultimi, in effetti, ne sanno qualcosa in più, possono aggiornarsi con maggiore rapidità e sono in grado di utilizzare meglio le analogie con altri fenomeni simili, ma ciò non fa di loro dei “portatori di verità”, visto che questa, sul SARS-CoV-2, oggi ancora non c’è.
di Francesco Picciotto
(1 aprile 2020) Figlio della mia formazione ambientale ed ecologica ho pensato per lungo tempo che il concetto di resilienza fosse un concetto esclusivamente positivo. L'idea che le comunità naturali, gli habitat, le specie, potessero reagire alle avversità recuperando, in tempi ragionevoli, salute ed equilibrio mi è sempre sembrata la via che Gaia ci indicava per dirci “ecco come si fa...imparate da me e nulla potrà farvi del male in maniera irreparabile”.
Poi ho capito che anche la resilienza stava diventando uno strumento pericoloso in mani di altri. Non ho capito bene cosa ne ha fatto la psicologia, ambito che non conosco e del quale quindi non mi sento di discutere, anche se la sensazione è che il termine in quel campo sia stato utilizzato in maniera esagerata almeno “quantitativamente” parlando.
So però, soprattutto grazie alla lettura di un libro, la sorte che è toccata alla resilienza quando si parla per esempio di cooperazione internazionale. Li il sistema è stato capace di imporre il proprio punto di vista passando da una situazione nella quale, magari maldestramente, si riusciva ad immaginare un mondo più giusto per raggiungere il quale bisognava dare a tutti le stesse risorse e le stesse possibilità ad un'altra situazione (nel tempo appunto della resilienza) nella quale il sistema si rende conto che su questo pianeta non ce ne è per tutti e invece di immaginare una rivoluzione dei consumi, un cambiamento dei sistemi produttivi e degli stili di vita, una (udite udite....che orrore!) decrescita felice, si immagina piuttosto che non è detto che “tutti possano e debbano farcela”. Così si tira fuori dalla manica la resilienza: “tu uomo o donna (meglio donna che dirlo fa figo!) di quello che non chiamo più terzo mondo (perché dirlo non fa più figo!) vuoi salire sul mio carro (ahimè sempre più stretto)? Allora devi dimostrare a me, secondo i miei parametri, che sei resiliente”. In sostanza devi dimostrarmi di essere capace di reagire positivamente ai disastri e alle vessazioni che i miei stili di vita reiterati ed imperituri hanno prodotto alla tua vita e al tuo ambiente e solo allora io ti garantirò uno strapuntino sul mio treno lanciato verso un futuro radioso.
Un numero speciale del settimanale Vita Trentina è in edicola da giovedì 9 aprile 2020. Si intitola “Nella stessa barca”. Scrive Vita Trentina:
«La preghiera di papa Francesco “in tempo di epidemia”, in piazza San Pietro, ha colpito credenti e non credenti. Abbiamo chiesto un contributo di riflessione a partire da quelle parole e da quei gesti a quindici amici del settimanale: Stefano Zeni, Comunità monastica Piccola Fraternità di Pian del Levro, Ivan Maffeis, Claudio Bassetti, Micaela Bertoldi, Michele Nardelli, Maria Teresa Pontara Pederiva, Ruggero Valentini, Maurizio Gentilini, Andrea Tomasi, Silvano Zucal, Piergiorgio Bortolotti, Antonia Menghini, Paolo Rasera, Nadia Scappini».
“Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti”.
Papa Francesco, 27 marzo 2020, momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia
Per leggere queste riflessioni potete accedere gratuitamente al settimanale VT a partire da questo link: http://vitatrentina.ita.newsmemory.com/
Secondo uno studio dell’Università di Harvard condotto dall’italiana Francesca Dominici, sul lungo periodo basta un piccolo aumento nei livelli medi di polveri sottili per far salire la mortalità del 15%
di Elena Tebano *
Gli effetti di Covid-19 sono più letali nelle zone dove c’è un maggior inquinamento atmosferico da polveri sottili. È quanto emerge da una ricerca dell’Università di Harvard guidata dall’italiana Francesca Dominici, una delle massime autorità in materia. «Abbiamo scoperto che sul lungo periodo basta una differenza di un microgrammo nella media di pm 2,5, il particolato ultrasottile, per aumentare il tasso di mortalità del nuovo coronavirus del 15%» spiega la professoressa Dominici al telefono da Boston. Le pm 2,5, chiamate anche «polveri sottili» sono micro particelle inquinanti e cancerogene prodotte per esempio (ma non solo) dagli scarichi industriali, delle auto e dei riscaldamenti, così piccole che riescono a penetrare negli alveoli dei polmoni e poi nel sangue, e quindi a danneggiare l’organismo. Non è la prima volta che viene riscontrato un legame tra inquinamento dell’aria e pericolosità del Cov-Sars-2, ma lo studio di Harvard poggia su solide basi numeriche. Si tratta infatti di un’analisi di «biostatistica», la disciplina che impiega calcoli statistici su grandi quantità di dati per la ricerca medica e biologica.
LETTERA - APPELLO APERTA
al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella -
al Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte
ai Ministri dell’Agricoltura, del Lavoro, dell’Interno, della Salute e del Sud
“Agire subito per tutelare la salute dei migranti costretti negli insediamenti rurali informali e nei ghetti”
L'Italia è alle prese con una grave emergenza sanitaria. La pandemia di Covid-19 mette a dura prova il Paese, l’Europa e il pianeta nel suo complesso. Una drammatica situazione che richiede un impegno straordinario ad ogni livello della società, dalle istituzioni ai singoli. Oggi abbiamo più che mai bisogno tutti di fare riferimento ai principi di giustizia sociale e solidarietà insiti nella Costituzione per fare fronte a una minaccia inedita.
Come rappresentanti dei sindacati, organizzazioni del terzo settore impegnate nel campo dell'ecologia, della tutela dei diritti umani, sociali e civili, esprimiamo profonda inquietudine e sentimenti di estrema preoccupazione per le migliaia di lavoratori stranieri che abitano nei tanti ghetti e accampamenti di fortuna sorti nel nostro Paese. Molti di loro sono impiegati nel settore agricolo, più che mai indispensabile per la sicurezza alimentare della cittadinanza e la tenuta collettiva.
Se n’è andato alla soglia della sua 87esima vendemmia. Un cultore della tradizione, viticola anzitutto. Curava i suoi vigneti con ritmi ancestrali, usando legare le viti con le ‘strope’, per rispettare l’habitat, per non disperdere la gestualità rurale e pure per non inquinare con qualche legaccio sintetico
di Nereo Pederzolli *
Ha raggiunto la quota suprema. Quella riservata agli angeli. Giulio Poli, patriarca tra i Mastri Distillatori del Trentino è salito lassù, tra quegli spiriti alcolici che evocano l’ebbrezza, gioia effimera, ma anche lungimiranza e devozione.
Ha lasciato alla sua famiglia, il figlio Mauro al comando, gestire la loro micro quanto suggestiva distilleria, nel cuore del borgo grappistico per eccellenza. Quella “Piccola Nizza de Trent” rinomata già ai tempi del Concilio, ameno enclave tra Castel Toblino, l’omonimo lago e le montagne che guardano la Paganella. Borgata alchemica per eccellenza. Dove il peccato “alto grado” dei contadini senza speranza è condiviso anzitutto da ben cinque distillerie, tutti con Poli nel nome. Una rarità, un modo d’interpretare l’evoluzione della vite e dimostrare l’autorevolezza distillatoria tra le Dolomiti, e non solo.