"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Michele Nardelli
«Noi ci domanderemo se il perdono
non cominci laddove esso sembra finire,
laddove esso sembra im-possibile …
il perdono, se ce n'è,
deve e può perdonare solo l'imperdonabile...»
Jacques Derrida
C'è un incubo in cui sono finiti i popoli di quel paese che un tempo si chiamava Jugoslava dal quale è necessario uscire. Ne ho parlato in un mio precedente racconto. La “guerra dei dieci anni” si è conclusa da più di un quarto di secolo ma è proprio quell'incubo a covare sotto la cenere e a paralizzarne il futuro. E nel quale, paradossalmente, ci si può accomodare. L'adrenalina e il rancore possono fornire ragioni di vita. Un incubo che ciascuno si coltiva chiuso dentro la propria narrazione, il dolore, il rancore, il silenzio. O, semmai, dentro la propria nostalgia verso un passato mitizzato che quasi mai viene associato a ciò che è avvenuto in seguito.
No. Non credo ci sarà alcun processo significativo di elaborazione di quanto accaduto nell'ultimo decennio del secolo scorso nel cuore balcanico dell'Europa. E temo che questo non avverrà nemmeno quando il tempo avrà creato una certa distanza da quei tragici avvenimenti.
di Francesco Prezzi
(2 marzo 2019) Per inquadrare la grande questione delle trasformazioni dei luoghi in relazione al clima e al peso dell’ingerenza umana sull’ambiente, non è inutile risalire a contesti lontanissimi nel tempo.
In epoca protostorica, individuabile come fase delle gesta umane precedenti alla scoperta della scrittura, l’umanità aveva diretto rapporto con la natura fisica dei luoghi, il Sahara era verde, il ricambio tra piogge e periodi di secche non sbilanciava l’equilibrio naturale.
Di quell’epoca rimangono a testimonianza i disegni rupestri ritrovati dalle ricerche degli archeologi. In quell’ambiente si era evoluta la presenza e l’attività umana fino a giungere alla formazione di grandi città come Cartagine e con la conquista romana di Leptis Magna, entrate nella Storia con la grandezza delle loro gesta e dei loro monumenti. Erano dotate di un’enorme marineria per la quale servivano grandi risorse arboree. Ogni nave aveva bisogno di remi, ogni remo significava un intero albero abbattuto. Per ogni nave, serviva un piccolo bosco dei monti dell’Atlante dai quali provenivano anche gli elefanti con cui Annibale avrebbe attraversato la Spagna fino alle Alpi.
Il reportage del decimo itinerario del "Viaggio nella solitudine della politica" dal titolo "Esiti del cambiamento climatico. Nelle Alpi devastate dagli eventi atmosferici" (15- 17 febbraio 2019)
di Micaela Bertoldi
Alberi con i piedi per aria
tronchi schiantati,
riversi
su pendii privati di chiome
alopecia di monti feriti.
Mortificato,
lo sguardo sorvola
i cimiteri tristi dove natura
giace sconfitta.
Alberi e sogni sono caduti.
Smarriti e soli. Silenti.
Natura che ignora i confini e si ibella alle prepotenze umane
Di sconfitte e sogni, abbiamo parlato nel decimo itinerario del “Viaggio nella solitudine della politica”, incontrando persone addolorate per gli eventi catastrofici che si sono riversati sui territori Dolomitici e delle Alpi Carniche lo scorso 29 ottobre: un nuovo limes che la ribellione della natura ci sottopone attraverso il lamento della montagna e di chi ci vive.
Sindaci e amministratori locali, rappresentanti delle Proprietà collettive e delle Comunità di Regola, lo Scario della Magnifica Comunità di Fiemme, i responsabili dei servizi forestali provinciali, regionali, demaniali delle province di Belluno, di Udine e di Trento, rappresentanti di associazioni ambientaliste o cooperative che operano nel settore legno: in ogni incontro abbiamo parlato con cittadini preoccupati non solo per come si affronta il presente – con le opere di primo rimedio ai guasti franosi, con la pulizia di ettari di bosco devastati, con il ripristino della viabilità – ma anche e soprattutto sugli scenari oltre l'emergenza che investono il tema cruciale della montagna.
Si è spenta venerdì 1 marzo a Trieste Melita Richter, una voce importante e un punto di riferimento per chi si occupa di cultura transfrontaliera, migrazioni ed ex Jugoslavia
Con Melita se ne va un’altra parte di noi. Non è facile definire questo “noi”. Penso a tutta quella rete di relazioni e amicizie, intelligenze e saperi, esperienze e vissuti tra le due sponde dell’Adriatico. Un Noi che da tempo ormai ha iniziato a disperdersi. L’avevo percepito con la morte di Predrag Matvejevi, per il quale Melita aveva scritto “Grazie Maestro”, si era rafforzato con la scomparsa di Piero Del Giudice, al quale ancora Melita sempre sulle nostre pagine aveva scritto un bel ricordo.
Con l’addio a Melita, questo Noi diventa ancora più piccolo, il nostro cerchio si stringe. Sociologa, saggista, poetessa, docente universitaria, mediatrice culturale, molto attenta al tema del confine, delle migrazioni, alla questione femminile, ai nazionalismi che ben ha conosciuto negli anni Novanta, lei che veniva da Zagabria e si era trasferita a Trieste.
(23 febbraio 2019) Come forse saprete nei giorni scorsi si è svolto il decimo itinerario del "Viaggio nella solitudine della politica", in questo caso ambientato nelle Alpi devastate dagli eventi atmosferici dell'ottobre scorso ed in particolare nelle Dolomiti bellunesi, nel Cadore, in Carnia, in Val di Fassa, nell'area di Carezza, in Valle di Fiemme e nel Lagorai.
Un viaggio ricco di immagini, incontri, riflessioni attorno a realtà molto diverse fra loro per caratteristiche naturali, assetti proprietari ed istituzionali, condizioni economiche ed altro. Ma accomunate da un territorio montano che per la sua fragilità richiede attenzione e cultura del limite. E che, anche per questo, fatica ad entrare nelle agende politiche.
Ne verrà, come in in ognuno dei nostri itinerari, un reportage, uno o più racconti scritti e fotografici per giornali e riviste, un incontro con alcuni dei protagonisti del viaggio che pensiamo di realizzare entro il mese di marzo a Trento. Forse un film.
E, nell'immediato, un video con le splendide immagini di Razi Mohebi e Soheila Javaheri che i lettori possono già trovare qui: https://youtu.be/ymOQCYjIxvY (con preghiera di diffusione).
La sinistra attualmente sembra incapace di parlare a strati ampi dell'opinione pubblica. Un interessante commento del saggista Mauro Magatti
di Mauro Magatti *
In tutto il mondo si assiste a una crisi verticale dei partiti di sinistra. In fondo, i successi della nuova destra, in Italia come all’estero, sono dovuti più all’inconsistenza degli avversari che non ai reali meriti dei nuovi protagonisti. Se non altro i partiti populisti, nelle loro diverse manifestazioni, hanno preso atto che il tempo storico è cambiato. E che sia perciò necessario cercare di trovare nuove vie. Giuste o sbagliate che siano. La cosa sorprendente è che i partiti di sinistra — che negli ultimi decenni si sono autoproclamati «progressisti» — non sembrano in grado di comprendere le trasformazioni in atto. Con risultato che oggi la destra si afferma perché riesce a coagulare il malcontento che serpeggia tra ceti medi e popolari.
di Roberto Spagnoli *
Il 10 febbraio si celebra il “Giorno del ricordo” istituito nel 2004 per conservare e rinnovare «la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati italiani dalle loro terre durante la Seconda guerra mondiale e nell’immediato secondo dopoguerra, e della più complessa vicenda del confine orientale».
Purtroppo ogni anno il 10 febbraio viene preso in ostaggio da forze politiche a cui non interessa rinnovare la memoria della complessa vicenda del confine orientale ma solo usare in maniera strumentale la tragedia delle foibe e il dramma dell’esodo. Del resto una sorta di “peccato originale” è insito nella stessa legge che ha istituito questa solennità dove si parla “dell’esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati italiani dalle loro terre”. Quelle terre, tuttavia, non erano soltanto loro.