"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Domitilla Melloni *
«Percepiamo gli altri come un’insidia al nostro spazio vitale. E se il nostro spazio è misero, il tasso di aggressività verso di loro diventa ancora più alto».
Questo, leggermente parafrasato, è il passaggio che più mi ha colpito del brano che ho postato ieri su FB. Il libro da cui è tratto (Sicurezza, di Cereghini e Nardelli) è da leggere e non ha solo passi bui, come quello che ho citato. Anzi, è un libro pieno di idee e di segnali indicatori verso vie d’uscita possibili. (Ma niente spoiler).
Quello che mi preme è sottolineare questa relazione fondamentale tra la miseria dello spazio in cui viviamo e la nostra aggressività verso gli altri.
Ringrazio Enrico Franco, già direttore del Corriere del Trentino, per questo articolo. Veder riconosciuto il proprio impegno fa sempre piacere. Contestualmente devo prendere atto con rammarico nel veder venire meno uno degli elementi essenziali della cultura istituzionale, laddove la funzione legislativa, come sottolinea Enrico, dovrebbe spettare all'Assemblea consigliare e ,aggiungo io, le leggi approvate si dovrebbero applicare, oppure cambiare o abrogare. Alcuni dei provvedimenti legislativi di cui sono stato primo firmatario e approvati dal Consiglio Provinciale sono rimasti infatti lettera morta. I Presidenti del Consiglio dovrebbero esserne garanti. (m.n.)
di Enrico Franco *
Mentre a Trento e Bolzano i presidenti delle Province autonome cercano di comporre il mosaico delle rispettive giunte, con difficoltà diverse ma in entrambi i casi con più tessere a disposizione rispetto ai posti da riempire, gli aspiranti a uno scranno sgomitano. Lo fanno non solo per ambizione e per una più o meno sana brama di potere, ma anche perché convinti che altrimenti sarebbero condannati a cinque anni di irrilevanza.
In nome dell’efficienza di governo, infatti, l’azione dell’esecutivo si è estesa sempre più, al punto che di fatto ha assorbito quasi totalmente anche la funzione legislativa. I consiglieri, così, si sentono ridotti a parti in commedia, chiamati ad alzare la manina quando richiesto, senza concrete possibilità non solo di veder approvato un proprio disegno di legge, ma perfino di riuscire a modificare quelli portati nell’Aula dal governatore o dagli assessori.
E' uscito oggi il nuovo rapporto Censis sulla situazione sociale italiana nel 2018. Come da molti anni il Censis offre uno sguardo piuttosto realistico non solo della condizione sociale ma anche degli orientamenti e delle dinamiche culturali della popolazione. Forse mai come in questa occasione, una fotografia graffiante e disperante di un paese che dal rancore passa alla cattiveria, oltremodo legittimato dall'esito delle elezioni del marzo scorso. Ne riprendo alcuni passaggi in attesa di una lettura più attenta. (m.n.)
Da un’economia dei sistemi verso un ecosistema degli attori individuali
Nell'ultima parte dell'anno scorso e nella prima parte di quello che si va chiudendo, il miglioramento dei parametri economici, la fiducia delle famiglie e delle imprese, le positive dinamiche industriali e dell'occupazione facevano percepire la possibilità concreta di vedere completato il superamento della crisi e dei dubbi sul nostro modello di sviluppo. La ripartenza poi non c'è stata: è sopraggiunto un inciampo, un rabbuiarsi dell'orizzonte.
Guardando agli ultimi mesi, segnati da un rallentamento degli indicatori macroeconomici, da un volgersi al negativo del clima di fiducia delle imprese, da un impoverimento del vigore della crescita, dal rinforzarsi di vecchie insicurezze nella vita quotidiana e dal costituirsene di nuove, verrebbe da pensare che tutto arretra. Specie se si guarda, nella cronaca quotidiana, al rapido affermarsi della convinzione che siamo oggi nel bel mezzo di un annunciato ritorno a una economia dello «zero virgola qualcosa».
... e imitare il salto di Fosbury
di Alberto Winterle e Federico Zappini
Anno 1968. Dick Fosbury vince la gara del salto in alto alle Olimpiadi di Città del Messico. Lo fa stupendo il mondo, modificando per sempre la tecnica di salto. Dalla transizione ventrale si passa a un movimento con l’asticella approcciata di schiena, dopo una rincorsa arrotondata invece che lineare. Un azzardo. Una rivoluzione della tecnica fino ad allora utilizzata.
Osservando il contesto politico e sociale – in Trentino e non solo – risulta evidente l’urgenza di ripercorrere metaforicamente la coraggiosa storia di Dick Fosbury. Un cambio di paradigma, tanto nei contenuti quanto nelle forme, con l’obiettivo di mettere in campo risorse e idee per la definizione di un un nuovo campo possibile per il confronto politico e per l’azione che ne dovrebbe conseguire.
di Federico Zappini
Considerazioni sul voto di domenica scorsa in Trentino riprese da https://pontidivista.wordpress.com/
1 – Niente panico! Il sole è sorto anche questa mattina e – a meno di clamorosi imprevisti, nonostante la giornata insolitamente calda per la fine di ottobre – sorgerà anche domani. La storia non finisce.
2 – Magari fosse un “cigno nero”. Ci permetterebbe di sembrare onestamente sorpresi. Davvero le premesse – e non solo nei mesi successivi al 4 marzo – non erano state colte? Qualcuno immaginava un finale diverso? Solo le proporzioni sono forse più ampie del previsto, ma la caduta era difficilmente evitabile, date le condizioni.
3 – Mi chiedo da chi sia composto quel 15% che ha votato alle Politiche ma non si è preso la stessa briga per le elezioni di massima prossimità per il territorio che abita tutti i giorni. Ho un sospetto sul M5S (quanto possono durare ancora dentro l’ambiguità che li caratterizza?) e sui delusi più marginali (quelli veri, quelli che non incrociamo proprio, mai…).
Considerazioni a margine dell’incontro Anolf-Iscos Toscana, Firenze 22 ottobre 2018
(23 ottobre 2018) Si è tenuta ieri a Firenze una conferenza sulla cooperazione internazionale a partire dall'esperienza di co-sviluppo realizzata fra la Toscana e il Perù nel progetto Alpaca. Riporto qui le interessanti riflessioni di Francesco Lauria, responsabile formazione e progettazione europea della Cisl. A seguire, nei prossimi giorni, qualche mia considerazione sul convegno e lo stato dela cooperazione internazionale. (m.n.)
di Francesco Lauria *
1. L’illusione umanitaria. 2. “Darsi il tempo”. 3. Globali e solidali? 4. Cooperazione sindacale internazionale e sindacalismo glo-cale
L’illusione umanitaria
C’è una bella frase di Albert Camus che recita: “Il male che c’è nel mondo deriva sempre dall’ignoranza, e le buone intenzioni possono fare altrettanto danno della malevolenza, se mancano di discernimento.”. A queste parole si possono affiancare quelle di Saint Just: “Nulla somiglia tanto alla virtù quanto un grande delitto”. Entrambe queste citazioni sono contenute in un libro collettivo che è stato molto importante e per un’intera generazione di attivisti, cooperanti, ricercatori impegnati nel sociale. Si tratta del libro: “L’illusione umanitaria”, curato da Marco Deriu, opera collettiva di un gruppo denominato “AlfazetaObserver”, edito all’inizio del 2001 dalla EMI, l’Editrice Missionaria Italiana di Bologna.
Gennaio 2001 rappresenta, nei tempi super turbo veloci di oggi, un’era geologica lontana: dovevano ancora accadere Genova e l’attentato alle Torri Gemelle, le guerre “umanitarie” in Afghanistan e in Iraq, mentre eravamo appena usciti dagli interventi Nato nei Balcani, successivi al disastro europeo e globale del 1992-1995 nella ex Jugoslavia. La cooperazione internazionale aveva vissuto la crisi negli anni novanta dovuta alle inchieste giudiziarie e alla riduzione delle risorse pubbliche e il conseguente allargamento del campo dell’attività delle organizzazioni non governative.
Quello che segue è il quarto racconto breve che trae spunto dal percorso formativo “Ex Jugoslavia, una guerra postmoderna. Viaggio nel cuore dell'Europa”. Esce in contemporanea sul sito di Osservatorio Balcani Caucaso - Transeuropa (www.balcanicaucaso.org)
di Michele Nardelli
«... Sarajevo è diventata ben presto metafora del mondo.
Il luogo in cui differenti volti del mondo si sono raccolti in un punto
come nel prisma si concentrano i raggi di luce dispersi ...
E' diventata un microcosmo,
centro del mondo che, come ogni centro secondo l'insegnamento degli esoterici,
contiene tutto il mondo»
Dzevad Karahasan
Questo breve racconto non è dedicato ad una persona ma ad una città. Una città che è fatta di tante cose che nel tempo sono diventate genio del luogo: ambiente, storia, cultura, tradizioni, saperi e, ovviamente, persone.
Quelle che ho incontrato e attraverso le quali ho amato e amo una città del tutto speciale che si è presa un posto di rilievo nella storia, in quella più lontana con la S maiuscola, come in quella ancora da elaborare di un infinito presente.
Scrivere di Sarajevo può risultare retorico, perfino banale. Un fiume d'inchiostro è stato versato per descrivere “la polveriera d'Europa” o per altro verso “la culla della cultura europea”, per confermare gli stereotipi o per celebrarne il fascino malgrado ciò che le ha riservato il Novecento. Cosa potrei mai aggiungere di nuovo a quanto già scritto?
Eppure c'è qualcosa che mi spinge a scriverne, perché a ben vedere del suo cuore balcanico (e dunque di sé) questa nostra Europa conosce ben poco. Tanto che ancora oggi, proprio nei giorni del centenario della fine della prima guerra mondiale, sentiamo voci autorevoli affermare stoltamente che l'Europa da settant'anni non avrebbe più conosciuto la tragedia della guerra.