"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Federico Zappini *
E' simbolico – e importante – tornare a parlare della dimensione territoriale dell'azione politica proprio nel momento in cui siamo vittime di regole che impongono il distanziamento, che ci impediscono di riunirci. "La politica è assembramento" ci ricorda Luigi Manconi. Senza la possibilità del confronto partiamo svantaggiati. Perso il valore dell'incontro ci troviamo disarmati, inermi, soli.
Non è un caso che della crisi della democrazia nella sua forma più prossima ai cittadini si discuta oggi nel momento in cui istituzioni e politica – a livello planetario – faticano a far fronte alla pandemia. Nei suoi impatti sanitari (spesso per i gravi errori commessi proprio nella gestione della medicina territoriale), socio-economici (dove la fragilità del modello neoliberista scarica le proprie esternalità negative sul tessuto sociale più fragile) e comunitari, dove al non riconoscimento reciproco si accompagna una crescente solitudine.
di Federico Zappini
“Si sta vicini per fare miracoli, / non per ripetere il mondo che già c’è. / Che già siamo”.
Questo il monito di Franco Arminio, poeta e paesologo, al termine del suo risveglio poetico nel Tempio Civico di Trento. Un modo diverso e prezioso di cominciare la giornata.
Fare insieme, per trasformare l’esistente. Questo è il compito della Politica, l’orizzonte di una comunità. Una comunità consapevole di essere artefice principale dell’elaborazione delle strategie che la tengono insieme e le permettono di desiderare il futuro.
Se tutti condividiamo il fatto che stiamo vivendo tempi straordinari – con il Covid19 a sparigliare ulteriormente le carte di un mazzo già impazzito – appare chiaro che il nostro agire dovrà possedere tratti inediti e spirito generativo. Non basta ripartire, se rimettendosi in moto non si mette in discussione il contesto precedente allo stop pandemico. Il sovrapporsi di tre crisi – sanitaria/ambientale, economico/sociale, politico/istituzionale – rende urgente cambiare i paradigmi che hanno retto fin qui la nostra società, proponendone di migliori.
di Federico Zappini
Provo a intervenire nel dialogo iniziato da Giuliano Muzio e dal direttore Paolo Mantovan sulle pagine de Il Trentino. Mi ha molto colpito il sondaggio proposto da La Repubblica nell’edizione di domenica. Un elettore su quattro si dice attratto dal “partito” delle Sardine. Lasciando da parte qualunque tipo di speculazione, è interessante interrogarsi sul significato della rilevazione statistica offerta da Ilvo Diamanti.
Che due settimane di mobilitazioni sanamente pre-politiche determinino un tale scostamento in termini di consenso – almeno potenziale – ci dice di un tessuto sociale frammentato e incerto, di un’opinione pubblica che reagisce in maniera adrenalica e scomposta a sollecitazioni che basano il proprio successo su quella che Anne-Cécile Robert chiama “strategia dell’emozione”. Una reattività umorale che mette in secondo piano – quando non lo esclude – il tempo necessario dell’analisi. E’ il primato della percezione. Il prevalere del “sentire” sul pensare, che prende il posto di un dialogo fecondo tra ragione e sentimento, di un vicendevole – e generativo – completamento tra le componenti fondamentali dell’essere umano.
di Federico Zappini
(31 ottobre 2019) E’ un dato di fatto. Le elezioni che indicheranno il prossimo Sindaco di Trento si avvicinano senza la vitalità che ci si aspetterebbe da una scadenza così importante. Certo per fragilità dei partiti, ma parallelamente per il colpevole immobilismo della società civile trentina. Alla città servirebbe una scossa che liberi energie, incrini consuetudini, predisponga spazi. Servirebbe ricercare l’inedito più che affidarsi al conosciuto, al già visto. Non è un’invocazione al cambiamento per il cambiamento, ma la richiesta di interpretare adeguatamente l’urgenza di ri-definire il ruolo della Politica e con essa dell’essere Comunità.
Non volendo dare vita – per mancanza di spazio, necessità e probabilmente capacità – all’ennesimo soggetto politico che rivendica la propria carica innovativa e assoluta indispensabilità vale la pena fare i conti con la realtà. Perché il tempo stringe e – di settimana decisiva in settimana decisiva – arriverà il momento in cui ognuno sarà tenuto, se non per coraggio almeno perché costretto, a spiegare quale sarà la geografia politica che ci accompagnerà fino a maggio 2020 e quali saranno gli obiettivi che, in una proiezione temporale speriamo più lunga e ambiziosa, ci si vorrà dare per il governo della città capoluogo di Provincia e, contestualmente, del territorio che la circonda. Ci sveglieremo una mattina con il nome (a mio modo di vedere non decisivo, almeno in prima battuta) del candidato Sindaco e con la definizione dei contorni della sarà coalizione di centro-sinistra.
di Francesco Pallante *
La vocazione maggioritaria, ancora lei. Era il 2007, al Lingotto di Torino. Walter Veltroni, segretario in pectore del nascente Partito democratico, usò una oscura espressione: «Il Partito democratico deve avere in sé un’ambizione, al tempo stesso, non autosufficiente ma maggioritaria». E continuava: «… L’elettorato è razionale, mobile, orientato a scegliere la migliore proposta programmatica e la migliore visione. Fiducia in questa vocazione maggioritaria significa oggi lavorare per rafforzare l’attuale maggioranza. Io rispetto e stimo i nostri partner della coalizione».
Sappiamo bene come andò a finire: con rispetto e stima, il Pd mise i partner della coalizione sotto schiaffo del voto utile e, correndo da solo alle elezioni del 2008, ottenne il loro annichilimento. Da quelle votazioni scaturì la più grande maggioranza parlamentare della storia repubblicana: a favore di una coalizione di centrodestra. La cosa straordinaria è come una storia di così clamoroso insuccesso sia stata assunta a mito fondativo dell’esperienza politica del Partito democratico. Un po’ come la sconfitta subita per mano dell’esercito ottomano a Kosovo Polje nel 1389 è assurta a vicenda caratterizzante il nazionalismo serbo. Gli elettori saranno forse razionali (ne siamo proprio sicuri?); i gruppi dirigenti sembrerebbe di no.
E’ possibile portare l'autonomia speciale del Friuli Venezia Giulia fuori dalle secche del gioco politico di propaganda?
di Giorgio Cavallo *
(12 settembre 2019) Una premessa. Ho comunque apprezzato il tentativo di M5S e PD di dare vita ad un governo di rottura con la deriva antipolitica a rischio autoritario della coalizione precedente. Le affinità dei capitoli di programma di questa maggioranza sono più vaste di quelle del contratto di governo. E, fino a prova contraria, le forze di destra (Lega, FdI e Forza Italia, più Casa Pound e Forza Nuova) non rappresentano nessuna maggioranza del paese, nemmeno alle elezioni europee di primavera (49,9% del 56% dei votanti), e tanto meno alle politiche del 2018 (37% del 72,9% dei votanti). Le urla scomposte di questi giorni segnalano un vuoto mentale che gioca sulla bassa predisposizione del “popolo” per la matematica, confondendo numeri immaginari per reali. Tuttavia come ha detto la senatrice Segre ci siamo fermati sull’orlo dell’abisso, ma non siamo certo in un “porto sicuro”. E il panorama intorno non è fatto da amene colline.
Se tutto si riduce a un interrogativo giuridico, a chi crede nella politica resta l’amaro in bocca
di Donatella Di Cesare *
La disobbedienza civile non vale solo nei regimi dispotici. È, anzi, il sale della democrazia.A provocarla è, come ha scritto Hannah Arendt nel 1970, «l’incapacità del governo di funzionare adeguatamente». I cittadini sono assaliti dal dubbio sulla legittimità di una legge. Non sanno, però, come esprimerlo, perché l’opposizione è affievolita o tace del tutto. Il timore è di restare inascoltati, mentre il governo insiste in quelle iniziative «la cui legalità e costituzionalità suscitano molti interrogativi».
Parlare di «ribellismo» è pretestuoso. Sarebbe comodo «ridurre le minoranze dissidenti a un’accozzaglia di ribelli e traditori». Ma chi disobbedisce si muove nel quadro dell’autorità costituita. Non viola la legge — la sfida. E la sfida in nome di una legge più alta, di una Costituzione tradita, di una giustizia mancata. Articola il disaccordo pubblicamente e opera per il bene comune, assumendosi la propria responsabilità. Certo che la legge non può giustificare la violazione della legge! Perciò i disobbedienti si muovono ai margini, dove il diritto è chiamato in causa dalla giustizia.