«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»<br/> Manifesto di Ventotene
di Guglielmo Ragozzino *
Nei primi sei mesi del 2015, Volkswagen ha superato la rivale Toyota che deteneva il vertice da qualche anno, avendo approfittato della crisi di General Motors, tradizionale capofila del settore automobilistico. Ma la corsa del gigante tedesco si è infranta proprio nel mercato su cui più aveva puntato.
(3 ottobre 2015) Misurando a spanne, le automobili prodotte ogni anno nel mondo sono, da qualche tempo, 60 milioni o poco più. 18 milioni in Cina, 15 nell’Unione europea, Germania in testa, 8 in Giappone, 4 in Corea e negli Stati Uniti, 2 in India e in Brasile (dati del 2013). In ogni regione l’industria automobilistica e ciò che la circonda è fondamentale per l’economia: la società nel suo insieme e il lavoro in ogni campo. Così l’auto, motore del capitalismo, è dovunque favorita e difesa; ogni opinione contraria è da condannare, come eretica e malsana. Chi attenta all’auto deve essere posto al confino. Si può aggiungere che la Cina è cresciuta in termini automobilistici in dieci anni, passando da uno o due milioni di inizio millennio al livello precipitoso di oggi; che gli europei si vantano di costruire le auto più sicure, veloci e meno inquinanti di chiunque altro; che i giapponesi costruiscono di fatto le auto nel modo più efficiente e lo sanno, mentre gli americani sono convinti che le auto, problema loro, siano fatte per andare a benzina. Ecco quindi rivelarsi lo spirito dei cinesi in procinto di scalare il mondo; quello degli europei, sicuri della loro superiorità ambientale e umana; quello dei giapponesi sprezzanti con le tecniche altrui; e infine degli americani sicuri del petrolio, una loro amatissima invenzione.
Domenica 5 luglio la Grecia andrà al voto per dire un sì o un no alla proposta della troika (Commissione Europea, BCE e FMI) per una soluzione alla crisi finanziaria della Grecia. Un passaggio delicatissimo non solo per quel paese ma per l'insieme dell'Europa, il suo presente ed il suo futuro. Mi è sembrato dunque interessante riprendere l'intervista di Georg Blune all'economista e scrittore Thomas Piketty pubblicata nei giorni scorsi dal settimanale tedesco Die Zeit.
DIE ZEIT: Persino i francesi adesso rendono omaggio ai dogmi della politica tedesca del risparmio. Ce ne dobbiamo rallegrare noi tedeschi?
Thomas Piketty: Assolutamente no. Questo non è né per la Francia, né per la Germania e tantomeno per l'Europa un motivo di gioia. Piuttosto ho paura che i conservatori, soprattutto in Germania, siano sul punto di distruggere l'Europa e l'idea europea, e questo proprio a causa della loro spaventosa mancanza di memoria storica.
ZEIT: Eppure noi tedeschi abbiamo avuto modo di riflettere a lungo sulla storia.
Piketty: Ma non avete riflettuto abbastanza sulla cancellazione del debito tedesco! Eppure il suo ricordo dovrebbe essere molto importante per la Germania attuale. Consideri la storia dei debiti pubblici: Gran Bretagna, Germania e Francia sono già state un tempo nella situazione in cui si trova la Grecia adesso, anzi hanno sofferto un debito ancora più alto. La prima lezione che si può trarre dalla storia dei debiti pubblici è che non siamo di fronte a nuovi problemi. Ci sono sempre state molte occasioni per condonare i debiti. E mai solo una, come Berlino e Parigi vogliono far credere ai Greci.
Secondo l’economista statunitense il premier Tsipras non poteva fare altro che ricorrere agli elettori: “La troika sperava che il governo greco avrebbe ceduto o in alternativa si sarebbe dimesso. Non posso biasimare il premier ellenico per aver rimesso tutta la questione nelle mani degli elettori”.
di Paul Krugman, da Repubblica, 29 giugno 2015
Ad oggi ogni monito riguardo a un’imminente frattura dell’euro si è dimostrato infondato. A dispetto di quanto affermato in fase di campagna elettorale, i governi cedono alle richieste della troika, e parallelamente la Bce interviene per calmare i mercati. Tale dinamica ha permesso di tenere insieme la moneta unica, ma ha al tempo stesso perpetuato un’austerità profondamente distruttiva: non lasciate che qualche trimestre di modesta crescita metta in ombra l’immenso costo di cinque anni di disoccupazione di massa.
Dal 29 maggio al 2 giugno 2015 si svolgerà a Trento la decima edizione del Festival dell'economia dedicata quest'anno al tema della "mobilità sociale". Il programma lo potete trovare cliccando qui http://2015.festivaleconomia.eu/programma oppure sul banner dedicato al Festival nella home page di questo sito. L'inaugurazione alle 15.30 del 29 maggio, alla Sala Depero della Provincia.
Il Festival dell'economia compie dieci anni
di Michele Nardelli
(30 maggio 2015) Il festival dell'economia è giunto alla sua decima edizione e non c'è dubbio che si sia trattato di una manifestazione di successo per le decine o forse centinaia di migliaia di persone coinvolte, per la qualità degli interlocutori coinvolti, per l'immagine di questa terra ed infine anche per l'indotto che ne è venuto attraverso il turismo culturale che rappresenta oggi uno dei segmenti più interessanti dell'economia locale.
Pensiamo al valore prodotto nel corso degli anni dalle proposte museali, dal Mart al Castello del Buonconsiglio, dal Museo storico del Trentino a Castel Thun, dal Filmfestival internazionale della Montagna al Festival dell'economia, per arrivare all'esplosione (di visitatori e di idee) in questo primo anno del Muse. Potremmo affermare che grazie alla cultura (e agli investimenti che l'autonomia le ha saputo riservare) il Trentino ha saputo reggere la sfida del tempo e dei cambiamenti di fondo che chiamiamo crisi.
Nel delirio del fare, emerge il valore della parola, della conoscenza, della relazione. Anche quando, le parole faticano a delineare nuovi pensieri e scenari. Vorrei dire che se in questi dieci anni di festival dell'economia qualcosa non ha funzionato come avrebbe dovuto è proprio questo aspetto, peraltro non marginale: la capacità di visione.
(13 febbraio 2016) Riprendo questo commento di Luciano Imperadori pubblicato qualche settimana fa dal Corriere del Trentino sulla Riforma delle Banche di Credito Cooperativo. Il decreto emanato in questi giorni dal governo italiano risulta più grave di quanto si potesse immaginare, sopprattutto nella parte che apre la possibilità di privatizzare un patrimonio che in quanto cooperativo andrebbe considerato indivisibile. Sembrano esserci margini di modifica prima della conversione in sede parlamentare, ma per questo è necessaria una forte mobilitazione per evitare lo snaturamento di un patrimonio culturale prima ancora che economico.
di Luciano Imperadori *
La cosiddetta riforma delle Banche di Credito Cooperativo, Casse Rurali, rischia di distruggere in un solo colpo 130 anni di storia. Una riforma che finora è stata trattata solo nelle stanze romane senza il coinvolgimento dei soci. Non c'è da stare allegri. Sull'onda degli "scandali" di Banca Etruria e altre si rischia che passi questa controriforma in nome della stabilità, ma i pericoli invece rischiano di aumentare.
Tempi interessanti (10)
Nella società dell'immagine, dove tutto si gioca alla velocità della luce, realtà ed apparenza si confondono fino a non saper più distinguere il falso dal vero. Accade così che in un recente sondaggio alla domanda "Sentite di avere un maggiore controllo sul vostro futuro finanziario?" il 44% degli italiani intervistati (un campione di due mila persone) abbia risposto positivamente, qualche punto in più rispetto alla precedente rilevazione. Sufficiente per far dire ai media (e alla politica interessata ad incassare consenso) che l'Italia sta volgendo al meglio. E questo nonostante gran parte dei dati reali indichino livelli record di disoccupazione (il 12,7%, mai così alta dal 1977), il 43,9% di giovani senza lavoro, una crescita produttiva pari a zero, ampie fasce sociali a rischio di impoverimento. Strani effetti mediatici, ma nel comune sentire c'è aria di ripresa.