(31 dicembre 2015) L'anno che se ne va, a pensarci bene, non è stato un granché, anzi possiamo dire senza essere presi per gufi – peraltro animali considerati nell'antichità saggi ed eruditi – davvero pessimo.
C'è in corso una guerra mondiale, se non ce ne siamo accorti. Che non è l'insieme delle tante piccole guerre che si combattono nel mondo in forma più o meno tradizionale, ma una guerra di tipo nuovo nella quale ciascuno di noi è coinvolto, vittima e carnefice in un mondo che si contende la difesa del proprio spazio vitale immaginato in sottrazione verso l'altro da sé e che si combatte nel nome di stili di vita considerati non negoziabili.
Non è iniziata nell'anno che ci stiamo mettendo alle spalle – per la verità – ma forse è in questo tempo che si è andata palesando in forma più acuta attraverso le sembianze delle carrette del mare, dei cambiamenti climatici, dell'overshoot day, della scomparsa delle biodiversità, dell'esclusione sociale e di uno “scontro di civiltà” tanto evocato da farlo inverare. E del cinismo, prima ancora che della violenza e del terrorismo.
Di nuovo e positivo c'è che queste cose non sono più la narrazione inascoltata di chi ritiene necessario un cambio profondo di paradigma ma anche di qualcuno che, dall'alto della sua autorevolezza, lo ripete quasi ossessivamente, forse temendo anch'egli di non essere preso sul serio o semplicemente che il veleno sia entrato fin troppo in profondità.
Dopo la fine di una storia di cui pure dovremo prendere atto magari facendone tesoro, occorre darsi il tempo per costruirne una nuova, meglio al plurale per non essere cieca, meglio capace di prudenza per non spingerci oltre il limite, meglio consapevole dei caratteri umani per evitare nuovi fantasmi.
Ecco, per l'anno che viene mi basterebbe che questa nuova consapevolezza potesse crescere e che la politica non continuasse ad esserne estranea.