"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Storia

Lepanto. La battaglia dei tre imperi
La copertina del libro
Alessandro Barbero

Lepanto. La battaglia dei tre imperi

Laterza, 2010
 
 

La battaglia di Lepanto (1571) ebbe delle conseguenze, o non servì a niente? La domanda che infastidiva Fernand Braudel viene proposta dallo storico Alessandro Barbero a conclusione di settecento pagine che tracciano un affresco molto vivo di quel passaggio di tempo cruciale che fu il XVI secolo. E la risposta che prova a formulare è che se sul piano politico e militare non ebbe un grande effetto, nell'immaginario collettivo essa segnò - grazie soprattutto alla propaganda che in quella circostanza dimostrò forse per la prima volta dove avrebbe potuto arrivare - una sorta di spartiacque fra oriente e occidente.

Il fatto che Lepanto, ancora ai giorni nostri, rappresenti un riferimento tanto per la destra radicale quanto per la Lega ci racconta di quanto quel mito, la superiorità del cattolicesimo sull'islam, ancora produca i suoi effluvi velenosi.

Un libro interessante non solo per gli appassionati di storia (e dei dettagli, dove si nasconde il diavolo ed altro ancora), ma anche per comprendere la partita che si sarebbe giocata nel Mediterraneo e in Europa nei secoli successivi.

Il destino nelle proprie mani. In ricordo di Guido Pollice
Guido Pollice (con i giornali sottobraccio) in una manifestazione con Massimo Gorla, Emilio Molinari e altri

(23 gigno 2023) E' una generazione che ha avuto il destino nelle proprie mani quella che un po' per volta se ne va. Ed ogni volta è un pezzo della nostra storia, della mia storia, che inesorabilmente finisce nel precario archivio personale e della quale si avrà – nello scorrere del tempo – una ancor più precaria memoria collettiva. Non solo perché si è vissuto fin troppo al presente e nel turbinio di cambiamenti che non sedimentavano il passato, ma anche perché la cultura del limite non ci è appartenuta, così da aver concepito le nostre esistenze dando tutto, come se le stagioni non scorressero anche per noi. Un delirio, generoso nel suo svolgersi ma – lo si deve riconoscere – anche irresponsabile, perché se non ne rimane traccia quella storia non riusciremo a portarla in dono. Per farne tesoro e, se non altro, per evitare che si ripetano gli stessi errori.

Ho conosciuto Guido Pollice negli anni '70, in quel decennio che forse più di ogni altro, nonostante le tracce di piombo che ne hanno sporcato il suo epilogo, ha cambiato in profondità la vita delle persone e il mondo intorno a loro. Non furono solo le grandi riforme (esito, vorrei dire, più della radicalità che dei riformismi) di cui abbiamo beneficiato e delle quali, malgrado tutto quel che è accaduto in seguito, ancora beneficiamo. In quel contesto il cambiamento fu travolgente, entrando più o meno consapevolmente in ogni segmento del nostro quotidiano e della società.

C'era l'astrattezza dell'assalto al cielo ma anche la concretezza dei conflitti sociali: le famiglie non furono più le stesse, i rapporti fra le persone conobbero una rivoluzione che non aveva precedenti. E' difficile persino immaginare come si viveva nelle case dove la violenza era taciuta, dove mancavano i servizi più elementari, dove la radio era un privilegio. Mi vengono in mente le straordinarie immagini della Milano di Enzo Jannacci raccontate in un testo come “Ti te se no” (https://youtu.be/eS2gvssnspI), quella Milano che negli anni Sessanta accolse anche quel giovane di belle speranze che veniva dal Mezzogiorno e che per tutta la vita lo accompagnò nell'impegno politico e istituzionale.

 

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Vittorio Foa, quell'incontro in un bar di via Veneto a Trento

di Michele Nardelli

Non dimenticherò mai la sua passione civile, quando aggrottava la fronte ed avvicinava lo sguardo da sopra gli occhiali, per ascoltare e vedere più da vicino le storie e i volti degli operai che raccontavano la loro condizione in fabbrica, il loro sapere di persone autodidatte ma che conoscevano l’organizzazione del lavoro della loro azienda molto di più di tanti dirigenti.

Sono venuto a prenderti alla stazione...
Massimo Gorla con Joan Haim

«Un giorno, ed era un bel giorno, Massimo mi disse “Franco, secondo me dovremmo fare la rivoluzione”; risposi: “Va bene, facciamola”. In realtà non pensavamo che la rivoluzione fosse vicina e possibile. Tentammo la scalata al cielo, che è impossibile, ma bene abbiamo fatto a tentarla, a sfidare la realtà».

Franco Calamida

(da “Massimo Gorla, un gentiluomo comunista”, Sinnos editrice, 2005)

 

(20 gennaio 2016) Sono venuto a prenderti alla stazione. In cima alle scale, prima ancora di vederti in viso, riconosco il tuo passo leggero, inconfondibile.

I nostri sguardi s'incrociano, alla ricerca di qualche conferma. Poi via, alle Camalghe, e prima di ogni altra attenzione, un vino da scoprire, perché la curiosità non ha a che fare solo con le cose in cui crediamo, ma anche con la gioia dell'incontro.

Non ci dobbiamo convincere di nulla, perché fra noi c'è il rispetto dell'amicizia, che non ci ha mai richiesto di essere d'accordo ma solo (si fa per dire) di riconoscere nell'altro l'onestà intellettuale. E nel comune ritrovarci nelle cose belle che resistono al disincanto e alla fatica del tempo.

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