"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Azra Nuhefendić, corrispondente da Sarajevo di Osservatorio Balcani Caucaso
(31 gennaio 2014) Trenta anni fa, dall'8 al 19 febbraio, si svolse a Sarajevo la XIV edizione dei Giochi Olimpici Invernali. Pochi anni dopo le strutture olimpiche, simbolo di una storia e vita comune, furono bersaglio dei bombardamenti
Un metro di neve e venti gradi sotto zero! Nessuno ci faceva caso in Bosnia. Si pulivano le strade principali, si scavava un sentiero nella neve per collegare la casa o il portone con la strada, e la nostra vita procedeva come al solito.
Talvolta già all’inizio di ottobre nevicava. Si andava al ristorante per una cena e quando si usciva, nelle ore piccole, ci aspettava la prima neve. Tap-tap, sulle punte delle scarpe leggere ed eleganti, cercavi di passare per la strada imbiancata, senza scivolare o cadere. La neve rimaneva fino ad aprile, qualche volta anche di più. Capitava che sulle montagne intorno a Sarajevo nevicasse in piena estate. I giornali locali riportavano la notizia, ma nessuno si stupiva.
(23 novembre 2013) La cosa che più mi stupisce nelle celebrazioni del cinquantenario dell'assassinio di John Fitzgerald Kennedy è come una società che vive nel mito di essere paladina della democrazia nel mondo non abbia affatto elaborato quel che accadde il 22 novembre 1963.
Tanto è vero che ancora oggi il direttore dell'"Assassination Records Review Board" (l'agenzia istituita nel 1992 con il compito di raccogliere e pubblicare tutti i
documenti governativi relativi all'assassinio di JFK) Jeremy Gunn afferma di "non sapere cosa successe quel giorno". Credo sarebbe interessante indagare questa sorta di schizofrenia, il tenere vivo il mito di JFK e lasciare nell'oblio quella pagina oscura della storia americana.
Al di là di come siano andate le cose quel giorno a Dallas - le inchieste e le ricostruzioni cinematografiche hanno fornito un quadro radicalmente diverso da quello della Commissione Warren - possiamo dire che quell'assassinio (e quelli immediatamente successivi di Bob Kennedy e di Martin Luter King) rappresentarono l'azione di una potente lobby militare, industriale e politica trasversale che cambiò il corso della storia in quel passaggio cruciale che ebbe al centro la guerra nel Vietnam e la strategia golpista in Centroamerica e in America Latina.
Mito ed oblio, del resto, hanno accompagnato da sempre la storia americana. Quel che oggi fa specie, a cinquant'anni da quei drammatici istanti in cui s'infranse il "sogno americano", è che quel grande paese non abbia saputo fare i conti con se stesso.
E' incredibile come ritorni, sotto ogni latitudine, il tema dell'elaborazione del conflitto (o della storia) come condizione cruciale per guardare al futuro.
Novembre 2004. Nei giorni successivi la morte di Yasser Arafat, l'amico Ali Rashid scrisse un importante articolo dal titolo "Le sfide del dopo Arafat", un pensiero che - alla luce di un decennio - mantiene tutto il suo valore progettuale soprattutto per quanto riguarda la dialettica politica che allora s'intravvedeva nel mondo arabo e palestinese. Parlò anche delle ombre che gravavano sulla morte del leader palestinese, ombre che in questi giorni sono state confermate dalle ricerche seguite alla riesumazione del cadavere e dalla conferma dell'uso del polonio come fattore determinante nel rapido processo degenerativo che portò alla fine di Arafat. Ecco l'articolo.
Le sfide del dopo Arafat
di Ali Rashid
Per molto tempo ancora Arafat occuperà la memoria, i pensieri, la politica dei palestinesi: anche intorno al suo letto di agonia si sono affollate le più diverse proposte di senso e rivendicazioni di eredità molto simili alle controversie che aveva suscitato da vivo, prima e durante la prigionia nella Mukata.
(26 febbraio 2014) Quel che sta avvenendo nelle ultime ore in Ucraina è ancora più inquietante delle immagini di scontri e repressione che per giorni e giorni abbiamo visto nelle piazze di Kiev. Unità dell'esercito russo sono entrate in azione a Sebastopoli, sul Mar Nero, dove da anni è insediata una delle più importanti basi navali della Russia, con il sostegno della popolazione che inneggiava alla madre patria e alla secessione. Insomma, è come rivedere un film già visto, dove i simboli etnico religiosi nascondono le contraddizioni tipiche dei paesi post comunisti e leadership corrotte che non hanno mai smesso di fare affari d'oro. Come afferma Francesco Prezzi nella scheda storica che qui riportiamo, sembra proprio che non impariamo mai nulla dal passato, anche recente. Richiederebbe elaborazione più che atteggiamenti manichei. (m.n.)
di Francesco Prezzi
Pare di capire che la guerra civile nell’ex Jugoslavia non abbia insegnato all’Europa assolutamente nulla. La politica europea in questi anni non ha saputo nemmeno cogliere le primavere arabe, il fallimento delle quali ha provocato l’isolamento della Comunità Europea in un cerchio di fuoco e di guerre civili.
Eppure sarebbe bastato leggere e conoscere la storia di questi paesi per comprenderne il significato. L’iniziativa europea in Siria ha dato come risultato l’aumento del terrorismo, mentre in Ucraina ci si sta drammaticamente avviando verso la guerra civile in un paese che possiede tecnologie nucleari. L’Ucraina, repubblica dell’Unione Sovietica, era anche membro fondativo delle Nazioni Unite.
Forse non tutti sanno che il termine Russia (Russ) nasce a Kiev e non in Moscovia. Non tutti sanno che il cristianesimo di rito bizantino nasce a Kiev e poi si è diffuso nella Moscovia.
(11 luglio 2013) Srebrenica. Che cosa è rimasto nella coscienza collettiva dei cittadini europei di quanto accadde nel cuore dell'Europa l'11 luglio 1995? A ragion del vero è un po' l'insieme di quella tragedia che concluse il Novecento europeo che oggi appare rimossa, incasellata nella categoria di "guerra etnica", segnata dal pregiudizio dell'ignoranza e dei luoghi comuni, sterilizzata dalla falsa coscienza di un'Europa incapace di riflettere su se stessa e infine dimenticata, come se non avesse nulla di importante da dirci.
Tutto questo rende il genocidio di Srebrenica, quelle 8372 (o forse più) vite spezzate sotto gli occhi di una comunità internazionale distratta, quando non complice, se possibile, ancora più doloroso. Perché se per i famigliari delle vittime la ferita più aperta è quella di dare riconoscimento e sepoltura a quanti ancora giacciono nelle fosse comuni e, insieme, il desiderio di avere giustizia (se pensiamo che le condanne comminate per quanto accadde a Srebrenica diciott'anni or sono si contano sulle dita di due mani), l'aspetto che più in generale risulta insopportabile è rappresentato dal fatto che il nome di questa antica città non rappresenti motivo di riflessione per l'insieme della coscienza civile europea e mondiale.
di Andrea Rossini
(20 maggio 2013) Amici e familiari hanno posto una stele nel luogo della strage dei tre pacifisti italiani Guido Puletti, Sergio Lana e Fabio Moreni, uccisi il 29 maggio di venti anni fa mentre portavano aiuti alla popolazione bosniaca.
"Voglio condividere con voi la memoria di quel giorno." Agostino Zanotti, uno dei due sopravvissuti alla strage del 29 maggio, inizia un lungo racconto. Davanti a lui ci sono alcune decine di parenti e amici delle vittime, italiani e bosniaci, i rappresentanti delle autorità locali e dell'Ambasciata d'Italia.
di Dejan Atanackovic *
In questi giorni a Firenze una mostra dedicata all'Ulisse venuto dai Balcani: Bekim Fehmiu. Pubblichiamo il discorso tenuto all'inaugurazione da Dejan Atanackovic, docente e artista che si divide tra Firenze e Belgrado
(20 novembre 2012) Non ho meritato l'invito per dare un mio contributo
all'inaugurazione di una mostra dedicata a Bekim Fehmiu per la conoscenza del suo lavoro. Al contrario, per me la sua è un'immagine un po' leggendaria, un volto d'infanzia, un simbolo "pop" della mia adolescenza. E in effetti, di lui si sapeva poco.