"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Storia

Dalla Conferenza di Messina all'Unione Europea
1955, la Conferenza di Messina

 

1955 - 2015, il sessantesimo anniversario della "Conferenza di Messina"

Quattro giorni di celebrazioni, conferenze, dibattiti per celebrare il sessantesimo anniversario della Conferenza di Messina e per riflettere sull'Europa (e sul Mediterraneo) del nostro tempo.

 

La conferenza di Messina si tenne nel 1955, dal 1º al 3 giugno. Fu una riunione interministeriale dei sei stati membri della CECA. Parteciparono alla conferenza i ministri degli esteri dei sei paesi.

La conferenza, iniziata in un clima non particolarmente felice per la recente bocciatura da parte del Parlamento francese dell'accordo sulla CED (Comunità europea di difesa), proseguì non senza qualche difficoltà nei primi due giorni dei lavori, ma sorprendentemente il terzo giorno, alla conclusione della conferenza venne resa nota quella che viene conosciuta come "dichiarazione di Messina" (ovvero Risoluzione di Messina), attraverso la quale i sei paesi enunciavano una serie di principi e di intenti volti alla creazione della Comunità Europea dell'energia atomica (o Euratom) e di quella che diverrà, nel volgere di due anni con la firma dei Trattati di Roma del 1957, il Mercato Europeo Comune (MEC, poi CEE e quindi Unione europea).

Spesso nei momenti difficili dei rapporti tra gli stati membri dell'Unione Europea è stato volto lo sguardo e l'attenzione verso quello spirito, lo spirito di Messina, che animò la conferenza ed i padri fondatori della Comunità Europea che a quella conferenza parteciparono.

Oggi, l’Unione Europea ha bisogno di un nuovo slancio, di affrontare le nuove sfide che la storia ha posto sul suo cammino. Soprattutto, ha bisogno di ripensarsi, partendo dalle sue radici culturali che affondano nel bacino del Mediterraneo con tutte le sue contraddizioni, ma anche con la sua storia millenaria.

Quarant'anni fa finiva la guerra del Vietnam
La foto che divenne uno dei simboli della guerra in Vietnam

(30 aprile 2015) Con la conquista di Saigon da parte del Fronte di liberazione nazionale si concludeva quarant'anni fa una delle pagine più tragiche del Novecento, la guerra del Vietnam.

Il 30 aprile 1975 ebbe fine una guerra durata quindici anni i cui numeri, per quanto approssimativi, ci possono aiutare a comprenderne la dimensione:

- più di sette milioni fra morti e feriti, 4 milioni i civili morti e più di un milione i combattenti vietnamiti;

- sul Vietnam sono stati usati più esplosivi di quelli usati su tutti i fronti durante la Seconda guerra mondiale, oltre un’enorme quantità di armi e defolianti chimici;

- tre milioni saranno i soldati americani che si sono alternati in Vietnam, 58.226 vennero uccisi in azione o classificati come dispersi in combattimento, 303.704 soldati furono i feriti;

Il ricordare è il nostro perdono
Eccidio di Marzabotto

(25 aprile 2015) Il 4 ottobre 2009, in occasione del 65° anniversario della strage di Marzabotto, Massimo Cacciari tenne una orazione che ho pensato di riprendere come riflessione in questo giorno a ricordo della liberazione.

di Massimo Cacciari

Buongiorno a tutti, ai miei colleghi e a voi e un ringraziamento in particolare al Sindaco di Marzabotto che mi ha onorato con questo invito. Ho riflettuto al significato che poteva avere questo invito e ho pensato che si dovesse a un’idea, che io sia in grado di aiutare un po’ tutti, me per primo, a riflettere su questa strage, sull’evento tragico che ha colpito questi luoghi.

È un giorno di ricordo e di pianto, perché i morti, soprattutto i morti ammazzati in questo modo, si piangono. Però c’è lacrima e lacrima. Ci sono lacrime che offuscano lo sguardo, che confondono, che impediscono di vedere, e ci sono le lacrime che tengono l’occhio sgombro, pulito, e che fanno vedere meglio. E dobbiamo piangere così. E così hanno pianto gli amici e i colleghi che mi hanno preceduto.

Di quale crimine parliamo? Perché è essenziale chiedercelo. È evidente che non si tratta di omicidi, o di semplici omicidi di massa. L’omicidio colpisce l’individuo. L’omicidio è qualcosa di facilmente definibile e determinabile. È un atto che colpisce una persona o un insieme di persone. Qui non siamo di fronte ad un omicidio, lo comprendiamo subito, non è una questione semplicemente quantitativa. Può esserci anche un omicidio di cento persone, di duecento persone, di mille persone, se si intende colpire l’individuo. Qui no. Qui anzitutto sono degli omicidi che sono avvenuti su un teatro, in un teatro, all’interno di una guerra. Sono allora crimini di guerra? Si tratta di crimini di guerra? No, perché il crimine di guerra, così come è definito anche nel diritto di guerra – perché, ahimé, vi è anche un terribile, tremendo, diritto di guerra, che le comunità internazionali hanno sempre riconosciuto, riconoscendo con ciò che la guerra è in qualche modo inevitabile… Vi è un diritto di guerra. Ma ci troviamo di fronte ad un crimine che offende il diritto di guerra? Il diritto di guerra regola i rapporti tra eserciti, regola il modo in cui vengono trattati i prigionieri. Qui noi ci troviamo di fronte sì a una guerra, ma non alla violazione del diritto di guerra, non ad un crimine di guerra.

 

Genocidio armeno, la necessità di fare i conti con la storia
genocidio armeno

di Michele Nardelli

(14 aprile 2015) Decine di conferenze, incontri, interventi scritti: ho ripetuto fin quasi alla noia che le celebrazioni per il centenario dell'inizio della prima guerra mondiale avrebbero potuto diventare l'occasione per elaborare le tragedie del secolo breve, affinché l'elaborazione di ciò che è accaduto nel Novecento ci mettesse al riparo dal ripetersi di quegli orrori.

Così non è stato e probabilmente non sarà. Non ci predisponiamo ad imparare, questo è il problema. Il nostro sguardo distratto sorvola, preferisce non fare i conti con il dolore della storia, nemmeno quella a noi più vicina. Oppure dar credito ai luoghi comuni, al sentito dire, alle fanfare che ci raccontano quel che vogliamo sentirci dire. In realtà non siamo mai stati così ignoranti.

La piccola Europa
Ilidze, Sarajevo. Inizio \'900

 

Quella che segue è una delle due post-fazioni all'ultimo lavoro di Micaela Bertoldi "Intrecci. Stralci di narrazioni familiari sullo sfondo della 'piccola' Europa", edito dalla Fondazione Museo Storico del Trentino e presentato nei giorni scorsi di fronte ad un folto pubblico alla Biblioteca comunale di Trento. S'intitola "La piccola Europa”, nell'intento di ricostruire la cornice storica e, perché no?, geografica che faceva da sfondo alle "piccole" storie di vita di cui racconta Micaela nel suo prezioso libro. 

 

di Michele Nardelli

 

«Questo non ha nulla a che vedere con la religione degli austriaci, caro il mio muderis-efendija, è piuttosto una questione di interessi. Loro non scherzano e non perdono tempo nemmeno quando dormono,sono sempre attenti ai loro affari. Adesso non è ancora tutto chiaro ma lo sarà tra un mese o un anno. Diceva bene il defunto Šemsi-bey Branković: “Le mine degli austriaci hanno una lunga miccia”. La numerazione delle case e il censimento degli uomini servono, almeno a me così sembra, per mettere nuove imposte o richiamare gli uomini per qualche corvée o per la guerra; magari per tutte e due le ragioni...».

Ali-hodža, il vecchio imam di Visegrad nel romanzo di Ivo Andrić “Il ponte sulla Drina”[1]

 

Alcune delle pagine più belle di Ivo Andrić nel romanzo “Il ponte sulla Drina” sono quelle in cui il premio Nobel per la letteratura 1961 narra lo stupore degli abitanti della cittadina di Visegrad, lungo il confine che separava già allora la Bosnia Erzegovina dalla Serbia, nel vedere all'opera gli austriaci che avevano da poco sottratto quel territorio alla dominazione ottomana. Gli abitanti della cittadina bosniaca a grande maggioranza musulmana proprio non capivano il significato del lavoro con il quale i funzionari austroungarici numeravano sistematicamente ogni cosa, le case e le persone in primo luogo, pur intuendone i cattivi presagi. Immagini che ci aiutano a comprendere lo spirito del tempo, quel fervore modernizzante che caratterizzava l'impero asburgico, un territorio multinazionale che si estendeva attraverso l'Europa e il cui nome ufficiale era “Die im Reichsrat vertretenen Königreiche und Länder und die Länder der heiligen ungarischen Stephanskrone”, ovvero “I regni e le terre rappresentate nel concilio imperiale e le terre della corona di Santo Stefano”.

 

La moviola
Prima guerra mondiale, partenza dalla stazione di Trento

 

Di nuovo lo sferragliare dei carri armati in Europa. E' lo scorrere della "moviola balcanica" che ancora non abbiamo elaborato. Figuriamoci quella del 1914 di cui celebriamo, senza averne imparato nulla, il centenario. O quella dei campi della morte, mentre rinascono ovunque nuovi fascismi e permangono vecchie rimozioni. Come per l'inferno del gelo, quei gulag sui quali ancora oggi, in Russia e altrove, è ritenuto sconveniente parlare. I fantasmi del Novecento, le immagini di guerra che ci giungono dall'Ucraina, il libro di Paolo Rumiz.

 

Artisti e soldati, devozione popolare e ribellione nelle trincee della grande guerra
Una delle opere della mostra

L’EUROPA IN GUERRA. TRACCE DEL SECOLO BREVE

 

Conversazione–dibattito

 

Giovedì 29 gennaio 2015, ore 18.00

Magazzino delle idee, sala conferenze

 

Intervengono

Laura Dal Prà, direttrice Castello del Buon Consiglio, Trento; Gianni Torrenti, assessore alla cultura Regione Friuli Venezia Giulia; Tiziano Mellarini, assessore alla cultura Provincia Autonoma di Trento; Isabella Reale, conservatrice, direttore dei Musei di Pordenone; Luciano Rivi, storico dell’arte, docente; Giuseppe Ferrandi, direttore Fondazione Museo Storico del Trentino; Sergio Germani, giornalista, critico cinematografico; Michele Nardelli, ricercatore sui temi della pace ed esperto dell'area balcanica; Franco Rotelli, consigliere regionale; Stefania Grimaldi, cooperativa La Collina

 

«La storia dell’arte italiana del Novecento non ha presenze consapevoli e/o apertamente contro la guerra. Se si esclude Giuseppe Scalarini e, a fine conflitto, Alberto Helios Gagliardo, non c’è un’arte della rappresentazione della guerra contro la guerra. Eppure la Grande guerra è il big-bang del secolo, lo sturm che spazza via generazioni di giovani, scardina assetti sociali, induce il crollo di quattro imperi, apre a due grandi rivoluzioni sociali.

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