«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»<br/> Manifesto di Ventotene
Prende il via mercoledì 2 marzo 2022 a Trento un itinerario formativo attorno al libro “Il monito della ninfea. Vaia, la montagna, il limite”.
«... resta pur sempre valido il monito espresso dall’immagine della ninfea
che raddoppia quotidianamente le sue dimensioni,
di modo che, il giorno che precede la copertura dell’intera superficie dello stagno
la metà ne resta ancora scoperta,
per cui quasi nessuno, alla vista di tanto spazio libero,
è portato intimamente a credere all’imminenza della catastrofe.»
Remo Bodei, Limite
Descrizione
Sono trascorsi più di tre anni da quella notte di fine ottobre 2018 quando la furia del vento abbatté 42.500 ettari di bosco e foreste dolomitiche. Si trattò dell'evento di maggior impatto sugli ecosistemi forestali mai avvenuto in Italia, cambiando in questo modo il volto di 494 Comuni, per un territorio complessivo di 2.306.000 ettari spalmati sull'arco alpino orientale. In un contesto nel quale gli avvenimenti si consumano in pochi giorni, a volte in poche ore, il lasso di tempo che ci separa da quel tragico evento può sembrare sufficiente per metterlo in archivio.
Se pensiamo che in questi due anni è accaduto di tutto, non solo il susseguirsi di altri eventi estremi che hanno scosso gli ecosistemi in ogni parte del pianeta ma soprattutto una sindemia che ancora sta devastando la vita di miliardi di persone, il ciclone tropicale Vaia potrebbe oltremodo apparire come un fatto verso il quale non riservare ulteriore attenzione. Questo mettersi le cose alle spalle senza averne colto il monito non va bene.
Allo stesso modo continuiamo a guardare gli avvenimenti come se fossero compartimenti stagni quando invece tutto si tiene. «Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe» scrive Walter Benjamin nel suo Angelus Novus. Un'esortazione che vale anche per questo nostro tempo, che ci dovrebbe aiutare a riconoscere le connessioni fra le cose che accadono e che appaiono solo apparentemente estranee l'una all'altra.
L'aggressione del regime di Putin all'Ucraina ha tolto il velo anche sull'ipocrisia regnata nel Donbass dal 2014 ad oggi. Quello che, secondo le autorità di Mosca, sarebbe il teatro di un genocidio condotto ai danni della popolazione russofona, altro non è che un buco nero mafioso
di Matteo Zola *
(25 febbraio 2022) Lo scorso 21 febbraio la Russia ha riconosciuto l’indipendenza delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk. Il giorno seguente l’esercito russo entrava nelle due repubbliche per una missione di peacekeeping che, da un lato, affermava la sovranità russa sui due territori e, dall’altro, preparava l’invasione del resto dell’Ucraina.
Dopo anni di ipocrisie e falsità, è finalmente caduto il velo dal Donbass. Ripercorrere la storia recente di questa regione significa addentrarsi nei meandri di un conflitto definito “a bassa intensità” ma che, dal 2014, non ha smesso di seminare morte associando alla destabilizzazione politica e al controllo militare, pratiche criminali comuni, traffici, regolamenti di conti e violenza. Quello che, secondo le autorità di Mosca, sarebbe il teatro di un genocidio condotto ai danni della popolazione russofona, altro non è che un buco nero mafioso.
L'editoriale apparso dell'edizione di ieri sul Corriere del Trentino
di Ugo Morelli
(9 marzo 2022) Il grande maestro di scuola Mario Lodi aveva scritto nel 1963 un libro che fece epoca sulle possibilità dell’educazione: «C’è speranza se questo accade al Vho». Il Vho è una piccola località vicino a Piadena, dove Lodi insegnava. In quel luogo l’educazione riusciva a creare anno dopo anno cambiamento ed emancipazione, libertà e civiltà.
Vuoi vedere che un’intera epoca dopo e in un mondo totalmente cambiato, forse non in meglio, si apre una speranza, ancora una volta in un luogo? A leggere la lista dei firmatari e sostenitori del documento: «Un Green deal per le foreste dolomitiche. Vaia da sciagura a opportunità», c’è da rimanere positivamente pieni di stupore e speranza per il numero di firmatari e per la loro rappresentatività. Lo stupore è giustificato ancor più dall’importanza, dalla chiarezza e dalla forza del contenuto del documento. Attivato da Michele Nardelli e Walter Nicoletti, il documento assume i luoghi come fondamento per un cambiamento epocale, il cui riferimento non sono solo i luoghi stessi, ma il pianeta su cui viviamo e la nostra vivibilità.
Quando i luoghi dell’anima, dove gli individui entrano in contatto con la propria natura biologica e spirituale, saranno ridotti a merci qualcuno si arricchirà ma tutti saremo più poveri *
di Diego Cason
Esposti a un’insidia, a un pericolo mortale, a una persecuzione, cerchiamo un riparo. Un refugium, dal latino refugere, che non significa riparare ma rifuggire, da cui rifugiato. Il rifugio che conosciamo meglio è quello alpino. Dove ci si rifugia, appunto, per sfuggire alle minacce della montagna. Deriva dagli antichi “xenodochi”, ospizi gratuiti per forestieri e pellegrini. In tutti i monti del mondo c’è qualche tipo di rifugio. Alcuni nacquero sfruttando pareti aggettanti, grotte, antri erosi dai venti. In Svizzera li chiamano capanne: anche in tedesco Hütte si riferisce a una casupola (Hundenhütte è la cuccia del cane), se vogliamo indicare un rifugio bisogna utilizzare il termine Berghütte (capanna di montagna). I rifugi erano, di norma, luoghi semplici che fornivano un giaciglio e cibo d’emergenza.
Con la diffusione dell’alpinismo e la nascita del turismo moderno nell’Ottocento i rifugi si trasformarono in alberghetti. Oggi, con il turismo alpino di massa, sono pressati da una domanda di servizi un tempo sconosciuta. I primi rifugi moderni servivano come punti d’appoggio per raggiungere obiettivi strettamente alpinistici e, di frequente, furono edificati in luoghi posti già in alta quota per agevolare l’arrampicata verso una o più cime. Spesso furono costruiti su valichi e passi sfruttando edifici precedentemente dedicati ad altro scopo, come ricoveri per i pastori o per carbonai che trascorrevano periodi piuttosto lunghi in alta montagna. Oggi questo tipo di funzione è svolta da bivacchi prefabbricati portati direttamente in elicottero sul posto. I rifugi invece hanno seguito un’evoluzione che li ha in gran parte trasformati in alberghi, più o meno grandi, quasi sempre dotati di un servizio di ristorazione, di bagni e camere individuali al posto delle grandi camerate e dei bagni collettivi.
di Michele Nardelli
(15 giugno 2022) Se ne osserviamo i tratti, i proclami come la conduzione, la guerra in Ucraina potrebbe apparire come un residuo della storia. Alla virulenza dell'armamentario nazionalistico (dalla sacralità dei confini agli sbocchi sul mare, dal fondo genetico di sangue e suolo alle rivendicazioni di terre che nella storia hanno conosciuto attraversamenti e bandiere di diverso colore) corrisponde una guerra casa per casa, villaggio per villaggio, con l'assedio delle città e la distruzione delle infrastrutture civili e culturali... che fanno rivivere scenari novecenteschi.
Di certo dolore, distruzione e tutto quel che già sappiamo della guerra, che pure non viene indagata a dovere, malgrado accompagni da sempre la vicenda umana come presenza archetipica. Tanto che ogni volta ci si stupisce di quanto possa essere profondo l'abisso.
Talvolta si ha la sensazione che il tempo si sia fermato, come se si stesse riavvolgendo una pellicola consunta, in luoghi che hanno continuato a versare lacrime e sangue nel cuore orientale dell'Europa, di questa Europa così presuntuosa da pensarsi immune nonostante sia stata l'epicentro delle due guerre mondiali e del suo tragico ritorno nella regione balcanica e nell'area caucasica.
Un residuo della storia, dunque?
Nel terzo anno della pandemia, nello scomposto agitarsi della comunità internazionale, ci mancava solo il ruggito della guerra per uccidere ogni speranza di uscirne migliori.
di Nicoletta Dentico*
(25 febbraio 2022) Esattamente in questi giorni, due anni fa, il nostro paese scopriva che il nuovo coronavirus aveva trovato la sua agile via di approdo in Italia, da Wuhan. Come, ancora non è dato sapere, visto che il paziente zero non è mai stato identificato. Abbiamo scoperto che SARS-CoV-2 già abitava fra noi il 21 febbraio a Codogno. Per caso, anzi no, piuttosto per ostinazione di una giovane anestesista di Cremona, Annalisa Malara, che in scienza e coscienza ha deciso di violare i protocolli ordinari per la gestione del paziente, ha firmato assumendosi tutte le responsabilità del caso di fronte alla amministrazione sanitaria, e ha ostinatamente eseguito il tampone a Mattia Maestri. Con questo gesto personale non scontato ha ufficialmente decretato il primo focolaio di Covid-19 in Lombardia. Un passaggio denso di significanze: alcuni giornali hanno parlato della “pazzia clinica” di Annalisa Malara.
di Raniero La Valle
Nel discorso inaugurale del suo secondo mandato il presidente Mattarella ha voluto ricordare il significato etico e culturale della dignità che esprime “il valore delle persone e chiama in causa l’intera società”, e per diciotto volte ha invocato la dignità di diverse figure umane che tocca alla politica riconoscere e salvaguardare, dalla dignità dei lavoratori che muoiono sul lavoro, alla dignità delle vittime del razzismo e dell’antisemitismo, dalla dignità delle donne che subiscono violenza e non devono essere costrette a scegliere tra il lavoro e la maternità, a quella dei migranti, dalla dignità che ci impone di combattere la tratta e la schiavitù degli esseri umani, a quella degli anziani, dei disabili, dei carcerati, dei poveri. È per questo richiamo alla dignità che Mattarella è stato oggetto ingiustamente del sarcasmo di chi lo ha sbeffeggiato come “papa laico”, mentre non aveva fatto che appellarsi alla Costituzione.
Ma la Costituzione non è solo la Carta che rivendica la dignità delle persone, essa postula la dignità della stessa Repubblica. E se c’è una cosa che oggi soprattutto deturpa la dignità della Repubblica, una cosa turpe che è esplicitamente causata e voluta dai suoi governanti e che è immediatamente necessario rimuovere è il “memorandum d’intesa” tra l’Italia e la Libia, di cui è caduto nei giorni scorsi, il 2 febbraio, il quinto anniversario, e che un appello levatosi dalla società civile, da decine di organizzazioni italiane, libiche, ed europee chiede che sia revocato.