"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Mondo

La cooperazione malata. Su angeli che diventano demoni, bambini esibiti per impietosire e ordinaria insostenibilità
Incidente?

«Tempi interessanti» (77)

(23 febbraio 2018) Sono passati quasi dieci anni dall'uscita di “Darsi il tempo”, saggio nel quale con Mauro Cereghini ponemmo il tema di un cambio profondo nell'intendere la cooperazione internazionale. La tesi che ponevamo con quel pamphlet era, in buona sostanza, che nella globalizzazione la tradizionale divisione fra paesi sviluppati e sottosviluppati (o in via di sviluppo) era ormai obsoleta, che i luoghi di massima deregolazione (la guerra in primo luogo) rappresentavano il terreno più funzionale alla finanziarizzazione dell'economia, che nel tempo dell'interdipendenza tali processi entravano nella nostra quotidianità a prescindere dalla nostra collocazione geografica, che – infine – la costruzione di relazioni (e non l'aiuto allo sviluppo) avrebbe dovuto rappresentare la nuova frontiera di una cooperazione fra comunità parte – loro malgrado – di un destino terrestre.

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Il Signor Guardia
Teheran

di Soheila Mohebi *

(Gennaio 2018) Non ricordo come si chiamava. Noi lo chiamavamo il “Signor Guardia”. Abitavamo in un condominio di sessantasei appartamenti nel centro – nord di Teheran, e lui viveva in una piccola stanza davanti al cancello. D'estate era un forno e in inverno faceva invece freddissimo. Per il bagno doveva correre nei parcheggi dove c’era un appartamentino per l'amministrazione, la stessa che poteva licenziarlo con una semplice riunione di condominio presieduta dal capo dell'amministrazione.

Era un tipo silenzioso, pochi capelli, con un forte accento, rispondeva con frasi brevi, molto brevi e poi si rifugiava nel suo silenzio, sotto la sua coperta, stesa nella sua stanzetta di due metri per due. Certe volte rimaneva anche quaranta giorni senza cambiare il turno, e poi andava a trovare la sua famiglia che viveva lontano dalla capitale.

Una notte, dopo il terremoto, siamo tutti scesi in strada. Avevano detto che sarebbe stata la via più saggia per proteggersi, ma l’abbiamo fatto anche per istinto e abbiamo passato la notte fuori, nelle automobili, sui marciapiedi.

Per vivere meglio dobbiamo imparare a ridurre
Wolfgang Sachs

di Giuliano Battiston *

Dalla petroliera alla barca a vela. Con questa metafora Wolfgang Sachs spiega il passaggio che abbiamo di fronte. Un passaggio obbligato, se vogliamo sopravvivere: dalla modernità espansiva alla modernità riduttiva. Da una società fondata sull’accumulo, sull’accelerazione, sull’espansione senza limiti, sulla dipendenza da un flusso crescente di materie prime finite, a una società che sappia razionalizzare i mezzi in modo efficiente e soprattutto interrogarsi sui propri fini, sulle proprie aspirazioni, sul “quanto basta?”.

Allievo di Ivan Illich, già membro del Club di Roma e dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, sociologo del Wuppertal Institute for Climate, Environment and Energy e animatore di molte utopie concrete, da decenni Sachs studia come conciliare giustizia sociale ed ecologica. Pensatore di riferimento dell’ecologismo politico europeo, è arrivato a una conclusione: lo sviluppo della civiltà euro-atlantica è dovuto a circostanze storiche uniche e irripetibili, ed è incompatibile con la finitezza della biosfera. Se aspiriamo a una civiltà capace di futuro, quel modello di modernità espansiva va archiviato. Per farlo, occorre mettere in questione innanzitutto la nozione di “sviluppo” che ne è alla base. Da lì siamo partiti, nell’intervista concessa all’Espresso.

Ritorno a casa Bouazizi, culla dell'incompiuta rivoluzione tunisina
La primavera tunisina

Sette anni fa, il martirio di Mohamed Bouazizi diede il via alla cosiddetta primavera araba. “Era un ragazzo che lottava per la vita, ma era stato marginalizzato, come tutto il popolo”, lo ricorda zio Salah. A Sidi Bouzid la situazione non è migliorata. E sono ripartite le proteste

di Simone Casalini *

(1 Gennaio 2018) Sidi Bouzid, sette anni dopo. La rivoluzione dei gelsomini è germogliata qui, nella profonda ruralità tunisina, e si è propagata nel mondo arabo in quello che la pubblicistica occidentale ha classificato “primavere arabe”. Ora l’inverno si espande tra gli olivi e i mandorli di Sidi Bouzid e tra le vite di una rivoluzione interrotta.

Era partita con l’immolazione di Tarek “Mohamed” Bouazizi, il 17 dicembre 2010, davanti alla sede del governatorato. Aveva 26 anni e un carretto per lo smercio di ortaggi e frutta con il quale manteneva la madre e due sorelle (ora trasferitesi in Canada). Quella mattina venne sequestrato dalla polizia con la giustificazione che non aveva la licenza anche se le indagini successive rivelarono che non era necessaria. Poi seguì un’ammenda di 20 dinari (6 euro).

“Mohamed era un ragazzo che lottava per la vita. Ma è stato marginalizzato come la maggior parte del popolo” ricorda Salah Bouazizi, lo zio che conduce una farmacia sull’avenue Burghiba dove giovani studenti, sindacalisti e frammenti di popolo sfilano come onde infrante per contestare la scelta di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Salah è stato l’ultimo a sentirlo. Mohamed lo chiamò, alterato, per dirgli che gli stavano requisendo la bilancia. Gli chiese di temporeggiare qualche minuto, ma la disperazione di Mohamed non attese. Morì il 4 gennaio 2011 nell’ospedale grandi ustionati di Ben Arous e la sua parabola finale coincise con quella del dittatore Ben Ali costretto all’esilio in Arabia Saudita. Da lì s’incamminò la transizione democratica.

La multinazionale e il campo
Un'immagine del campo di concentramento di Omarska nel 1992

«Tempi interessanti» (75)

In queste settimane si è parlato molto della vicenda dell'Ilva di Taranto, il più grande impianto siderurgico europeo, e dello scontro in atto fra il Governo italiano e la Regione Puglia in relazione al rispetto delle prescrizioni relative al disinquinamento dell'area come condizione per il rilancio produttivo da parte della cordata che si è proposta l'acquisto dell'Ilva. (...) Intendo dedicare questa piccola nota alla multinazionale al centro della trattativa per l'acquisto dell'Ilva, l'Arcelor Mittal. Il colosso industriale dell'acciaio anglo-indiano nato nel 2006 dalla fusione di due delle più grandi aziende del settore a livello mondiale (Arcelor e Mittal Steel Company) dislocata in 60 paesi e che produce annualmente 114 milioni di tonnellate di acciaio per un fatturato di oltre 50 miliardi di euro. Fra questi paesi anche la Bosnia Erzegovina, dove nel dopoguerra vennero rilevate l'enorme acciaieria di Zenica e il sistema minerario di Omarska (Prijedor)...

«Presto sarà troppo tardi». Appello degli scienziati sul clima
Superficie terrestre

15 mila scienziati di 184 paesi hanno sottoscritto un solenne messaggio sullo stato del pianeta, invitando l’umanità a cambiare modello di vita per evitare “una perdita catastrofica di biodiversità

di Guglielmo Ragozzino*

“Presto sarà TROPPO TARDI…” Il 13 novembre Le Monde, importante quotidiano francese, poco disponibile al sensazionalismo, apre la sua prima pagina con il titolo, a caratteri di scatola, che abbiamo tradotto. L’occhiello è drammatico: “Grido d’allarme di 15.000 scienziati per salvare il pianeta”. Sotto un lungo catenaccio che spiega come 15.000 scienziati di 184 paesi abbiano sottoscritto un solenne messaggio sullo stato del pianeta. Essi invitano l’umanità a cambiare modello di vita per evitare “una perdita catastrofica di biodiversità”. Il riscaldamento climatico e la deforestazione mostrano come il degrado dell’ambiente naturale abbia cause umane. Infine si nota che dopo tre anni di stagnazione le emissioni umane di CO2 siano tornate ad aumentare nel 2017 per la crescita cinese. Il documento, scritto in lingua inglese, per la rivista BioScience è proposto anche in francese, spagnolo, portoghese. Gli autori dello scritto cui si erano poi aggiunte le altre 15.000 firme, sono otto scienziati: William J. Ripple, ecologo dell’università di stato dell’Oregon (Usa); Mohammed Alamgir, ricercatore di scienze forestali e ambientali di Chittagong (Bangladesh); Ellen Crist del dipartimento di scienze, tecnologia e società dell’università statale della Virginia (Usa); Mauro Galetti ecologo dell’università statale paulista di Sao Paulo (Brasile); William Laurance, professore emerito di biologia della conservazione all’università James Cook (Australia); Mahmoud I. Mahmoud ricercatore della National Oil Spill Detection and Response Agency di Abuja (Nigeria); Thomas M. Newsome, associato al dipartimento di ecosistemi forestali e società dell’università di stato dell’Oregon (Usa) e all’università Deakin di Geelong (Australia); Christopher Wolf , ricercatore di sistemi forestali all’università statale dell’Oregon (Usa). Le altre firme che si sono aggiunte sono di 15.364 studiosi di 184 paesi. Qui vogliamo offrire ai lettori e alle lettrici di sbilanciamoci.info una traduzione italiana.

Non alla servitù, non all'assedio né all'autocrazia
L'onda verde del 2009

di Michele Nardelli

(9 gennaio 2018) L'Iran è un paese cruciale. Lo è per la sua vastità (più di cinque volte l'Italia) e per collocazione geografica (fra mondo arabo e lontano oriente), per la ricchezza del suo territorio e per le sue risorse naturali. Lo è infine per la sua storia che affonda le radici nell'antica Persia e per la cultura che tradizionalmente ha saputo esprimere. Aspetti che, malgrado colonialismo, dittature e guerre, fanno di questo paese un riferimento che va anche oltre lo scacchiere mediorientale.

A ben vedere è dalla rivoluzione del 1979 che depose lo Scià Reza Pahlavi, uno dei peggiori dittatori che la storia moderna abbia conosciuto, che l'Iran è al centro di strategie di destabilizzazione a carattere internazionale. Perché quella rivoluzione rappresentò – dopo la sconfitta del Vietnam – il secondo grande scacco alla politica nordamericana e coloniale nella regione. Tanto da armare l'Iraq in una guerra d'aggressione che durerà nove anni (1980 – 1988) nella quale complessivamente persero la vita un milione e mezzo di persone, con l'unico esito di militarizzare entrambi i paesi e favorire così la formazione di due blocchi di potere che avranno in Saddam Hussein e Mahmud Ahmadinejad la loro espressione. Il primo, da alleato fantoccio diverrà il satrapo da abbattere con due guerre a carattere globale quali furono la prima e la seconda guerra del Golfo. Il secondo, un conservatore fanatico sostenitore del radicalismo religioso da contrapporre al corso riformatore della Repubblica islamica proposto da Kathami e Rafsanjani.