"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Care amiche e cari amici,
come sapete il 20 e il 21 settembre prossimi (salvo imprevisti) si vota a Trento per il rinnovo del Consiglio Comunale. Queste elezioni – che avrebbero dovuto tenersi nello scorso mese di maggio ma che la pandemia ha fatto slittare – sono un passaggio importante per la nostra città e non solo.
Trattandosi di elezioni comunali il voto ci dirà quel che i nostri concittadini pensano della loro città, di come è stata amministrata, del suo essere stabilmente ai primi posti delle classifiche sulla qualità del vivere in Italia ma anche delle sue contraddizioni e di come potrebbe cambiare.
Il voto nel capoluogo porta con sé anche altre implicazioni. Non possiamo non cogliere che si tratta del primo test elettorale locale dopo il voto che nell'ottobre 2018 ha consegnato il Trentino nelle mani della destra. E che saranno le prime espressioni di voto “dopo” (ma occorre prudenza considerato che a livello globale siamo nel periodo della sua massima espansione) la tragedia del Coronavirus.
Care amiche e cari amici,
questa nota viene inviata a tutte le persone che in vario modo hanno partecipato agli itinerari / incontri del “Viaggio nella solitudine della politica” (www.zerosifr.eu).
Un viaggio iniziato nella primavera del 2017 con l'intento di indagare pensieri e politiche attraverso i tanti limes europei e mediterranei che hanno segnato e segnano la storia e il nostro tempo.
C'eravamo ripromessi di concludere questa navigazione nel corso del 2020 ma l'insorgere della pandemia ci ha costretti ad interrompere la programmazione che prevedeva gli ultimi quattro itinerari (Apulia, il ponte verso il vicino Oriente; Andalusia, lungo le tracce del califfato e del Don Quijote; il tratto di mare fra la Sicilia e la Tunisia; I luoghi simbolici del delirio del Novecento, da Verdun e la Ruhr, ad Auschwitz per giungere a Chernobyl). Non sappiamo se nei prossimi mesi ci saranno le condizioni per realizzarli, ma in ogni caso – realmente o in maniera virtuale – quelle strade e quei luoghi rientreranno nelle riflessioni di questa nostra piccola comunità di pensiero.
Perché è forse questo – una piccola comunità di pensiero – l'esito di questo viaggio senza meta. Non necessariamente un pensiero comune, ma un comune interrogarsi sulle categorie con cui leggiamo il nostro tempo e la curiosità verso i percorsi individuali e collettivi che lo abitano. E poi il viaggio, come una forma politica collettiva che, a pensarci bene, ha segnato la storia dell'umanità ma che si è andata smarrendo nei rituali come nella metamorfosi della politica.
L'amica Daniela di Modena mi segnala questo suo intervento intorno alla vicenda Covid 19 e ai rischi che l'epidemia si porta appresso. Che volentieri riprendo.
di Daniela Tazzioli *
Fin dal primo giorno di questa epidemia, mentre il governatore della mia regione, Stefano Bonaccini era indeciso se chiudere le scuole o no il 24 febbraio e rimandava dal venerdì al sabato, dalla mattina al pomeriggio, da un'ora all'altra, il suo annuncio in merito, avevo la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato nella comunicazione, che non faceva altro che alimentare confusione e panico. Questo stile poi si è ripresentato non solo in Regione, ma soprattutto a livello centrale nella gestione della comunicazione sull'epidemia e se, nella prima fase, era comprensibile per via dell’impreparazione, della confusione alimentata dall’incertezza, nelle settimane successive è diventato, prima per chi come me ha qualche strumento interpretativo e una certa sensibilità linguistica, poi anche per chi è meno attrezzato, davvero insopportabile.
Raccolgo dal sito www.rivistailmulino.it questa “Cartolina da Bergamo” che mi è stata segnalata dall'amica Luisa.
di Paolo Barcella*
(18 marzo 2020) Vivo nell'epicentro del contagio, a pochi chilometri dall'ospedale di Alzano, cuore del disastro bergamasco. Mi limito a fornirvi qualche dato sul presente in cui vivo, molto materiale, qualora non vi fosse giunto proprio tutto, da Bergamo.
I morti – come sostiene anche il sindaco Giorgio Gori – sono molti più di quelli che vengono conteggiati, perché non tutte le persone che muoiono hanno avuto un tampone. Infatti, già da domenica 8 marzo, gli ospedali della città non riescono più a ricoverare tutti, quindi c'è chi resta – o viene fatto rimanere – a casa a curarsi l'infiammazione fino a quando può. I morti sono così tanti che il crematorio di Bergamo non regge i ritmi e sono terminate le scorte di urne funerarie. Il padre di un fraterno amico rianimatore è morto il 13 marzo e ha avuto come data per la cremazione il 23 marzo. Ci vogliono oggi dieci giorni o più per cremare un uomo, nonostante il crematorio lavori a ritmo serrato. Le bare rimangono nelle case per 4 giorni, perché anche le pompe funebri e gli spazi cimiteriali sono al limite. Nel cimitero di Bergamo accumulano bare su bare, e le piazzano dove possono, in tutti gli spazi coperti a disposizione.
In ricordo di Matteo Di Menna
Le nostre vite sono di corsa, crediamo che il nostro tempo sia infinito e che possa esserci sempre un'altra possibilità. Capita che prendiamo strade che ci portano lontano da persone che ci sono care, oppure che si spezzi qualcosa, che magari ci ripromettiamo di ricomporre senza che poi se ne faccia nulla. Sappiamo che ciò che rimane sono le relazioni profonde e l'amicizia, ma presi come siamo dalle nostre piccole o grandi autoreferenzialità, nemmeno ci accorgiamo di smarrire le cose che contano di più. Insomma, il mestiere di vivere non lo impariamo mai.
Poi all'improvviso una telefonata. “Non ti ho visto al funerale” mi dice Claudio. “A quale funerale?” rispondo io. “Ma come, non lo sai? Davvero non sai niente? Matteo...”.
Mi viene un groppo alla gola. “E' stato nei giorni caldi di luglio, quasi un mese fa. Un infarto, in casa. Eravamo in tanti a salutarlo, il giro dei vecchi amici, i Camei” continua Claudio. “Pensavamo che tu lo sapessi”. Invece non sapevo nulla. L'effetto è quello di una lacerazione, che ti strappa un pezzo della tua stessa vita.
Matteo Di Menna era parte di una generazione di meravigliosi sgangherati, irregolari forse, ma che c'erano sempre dove occorreva esserci e che hanno segnato il tessuto sociale e urbano della città di Trento. C'è stato un tempo in cui con Matteo trascorrevamo giornate intere, giorno e notte, nelle occupazioni che avrebbero cambiato il volto dei nostri quartieri popolari. Una su tutte, quella del vecchio ospedale Santa Chiara che nelle intenzioni dell'amministrazione comunale avrebbe dovuto diventare la copia del centro direzionale “Europa”. Era il mese di giugno del 1975 e l'occupazione sarebbe durata almeno sessanta giorni. Si faceva sempre il mattino, in attesa che arrivasse qualcuno a darci il cambio. E la vincemmo quella partita, anche se poi la dimensione sociale di quel luogo è andata via via scemando. Oggi non c'è nemmeno una piccola memoria che ricordi come quel vecchio ospedale (e prima ancora Monastero di Santa Chiara) e il suo parco debbano la loro destinazione sociale alla lotta di una città, cosa che peraltro avevo richiesto scontrandomi con l'aridità di chi ne aveva la gestione. Senza memoria di sé, una città muore. Beh, se c'è una persona che meriterebbe un ricordo in quel luogo sarebbe proprio Matteo.
di Vincenzo Calì
(12 novembre 2019) Chi l’avrebbe detto, solo un paio di anni fa, che la metamorfosi di cui parla Marco Damilano (Salvini da leader estremista a capo dei moderati italiani) avrebbe dato il via anche in Trentino alla marcia trionfale della Lega?
Si avvicinano le elezioni comunali e non è difficile prevederne l’esito, con la vittoria leghista a Trento e Rovereto a coronamento dei risultati già raggiunti nelle elezioni politiche, provinciali ed europee.
A certificare il saldo insediamento leghista manca solo, in tempi di riscoperta del simbolismo religioso, la risalita in terra trentina delle tre colombe custodi dei martiri d’Anaunia, portatrici del messaggio del leggendario Alberto da Giussano.
di Emilio Molinari
(25 ottobre 2019) Rojava, la tentazione è di farne una lettura congeniale alle nostre speranze. C'è chi la vede come un sogno anarchico, come Barcellona del 1936, chi come il sottoscritto, che anarchico non è mai stato, è tentato di vederla come la Comune di Parigi... ma è altra cosa. Rojava è straordinariamente piantata nel nostro tempo: è universalista, ambientalista, femminista e comunitaria, in regioni dove tutto sembra imbarbarirsi. È entrata nella mente e nei cuori di persone in tutto il mondo, di tutte le idee e anche senza idee. Oggi Rojava, è un sacrificio e un lascito a tutta l'umanità. Ha parlato con il linguaggio di un Mondo da salvare... dalla guerra, dalle discriminazioni, dall'intolleranza.
E Rojava non nasce in Siria e non morirà in Siria. Viene dal passato che nessuno ricorda e dal retroterra della lunga lotta di quindici milioni di curdi di Turchia, del PKK, dal suo dibattito interno e dalla sua maturazione nel corso degli anni. Una lotta di decenni non solo armata e per l'autodeterminazione, ma una rivoluzione culturale, emancipatoria di donne e uomini. Fatta anche di politica, fatta di partecipazione alle elezioni, in vent'anni 15 partiti curdi sciolti e ricostruiti. E di governo di grandi città come Dyarbakir, Batman, Van. E tutto ciò in mezzo ad una guerra tremenda, senza incrudelirsi.