"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli

Editoriali

Eppure una volta eravamo fratelli.
Ali Rashid, Andalusia, 2022

di Ali Rashid

(trentamila morti fa) Corre il tempo e cambiano le idee, i concetti fondamentali e i significati. Come fosse arrivato a compimento la negazione di ogni valore! Dio è morto. Viva l’eroica morte, giusto l’annientamento del “nemico”. Dilaga il nichilismo e trionfa la tecnica.

Vivo in me i racconti di mio nonno. Andava a Safad in Galilea per comprare un fulard di seta dalla comunità ebraica sfuggita all'inquisizione in Portogallo, avevano imparato la tessitura della seta dagli arabi in Spagna.

Mi ricordo di Khaiem, socio di mio nonno in una cava vicino a Gerusalemme. Khaiem non ha potuto salvare la mia famiglia dalla pulizia etnica, ma continuò a mandare alla nostra famiglia in esilio la parte del guadagno dell'impresa finché non morì.

Non ho notizie dei figli di Khaiem, ma ho seppellito mia sorella in Norvegia, un fratello negli Stati Uniti, un mio caro e stimatissimo zio una settimana fa a New York, mentre la salma di mio nonno giace in un anonimo cimitero di Amman.

leggi | 8 commenti - commenta | leggi i commenti
Nella guerra non ci sono vincitori
Ucraina

... Avremmo dovuto comprendere da tempo che nella guerra non ci sono vincitori. Se non i profittatori di guerra, quelli che si arricchiscono, in divisa o in abiti civili. O quelli che le armi le producono sul piano industriale. Ma di indagare la guerra nelle sue molteplici (e talvolta inconfessabili) sfaccettature, comprese le nuove guerre dove finisce il monopolio statuale della violenza, oppure di educazione alla pace e alla nonviolenza neanche parlarne.

Chi sarebbero i vincitori? Quelle centinaia di migliaia di persone che hanno perso la vita e che i propri eserciti negano perché nella retorica della vittoria è meglio nascondere il numero delle “proprie” vittime? Quelli che in una terra avvelenata dagli idrocarburi, dall'uranio impoverito e dall'amianto1 non ci potranno più abitare se non ignari dei tumori correlati? Le generazioni a venire che si troveranno un ambiente devastato talvolta irrimediabilmente? ... O, ancora, quelli che ora vivono nelle baracche fatiscenti di campi profughi destinati a durare negli anni? O forse i reduci, nei dopoguerra segnati dalla violenza in famiglia, dal suicidio o dall'alcolismo, dal silenzio e dalla follia? ...

Il mondo e il compito dell’Europa. Via dalla spirale dei massacri
Guerra in Ucraina e armi italiane

di Mauro Magatti *

Se a livello privato si osserva l’indebolimento dell’empatia, sul piano politico-istituzionale questo tempo segna il ritorno in grande stile del conflitto armato per risolvere le controversie che si moltiplicano nel mondo globalizzato. L’invasione dell’Ucraina ha fatto da evento catalizzatore di processi già avviati negli anni precedenti che adesso stanno però acquisendo natura sistemica. Sono tre le tendenze principali che si vanno rafforzando reciprocamente. Secondo l’ultimo Rapporto disponibile del Stockholm International Peace Research Institute già nel 2021 - cioè prima dell’invasione Ucraina - la spesa militare complessiva a livello mondiale aveva superato (per la prima volta dal 1949) i 2.000 miliardi di dollari annui.

Un’ascesa cominciata nel 2015 e alimentata da cinque Paesi: i due terzi delle spese militari globali sono infatti effettuati da Usa, Cina, Russia, India e Regno Unito. Gli Stati della Ue, più indietro, dopo i fatti ucraini hanno cominciato la rincorsa: la Francia ha annunciato un programma per la difesa di oltre 400 miliardi di euro nei prossimi 7 anni. La Polonia ha annunciato che porterà al 4% del Pil le proprie spese militari e la Germania le raddoppierà sino oltre i 100 miliardi annui. D’altra parte, la guerra in Ucraina proclama che, per “vincere” o almeno non perdere lo scontro bellico, servono armi sempre più sofisticate: in un mondo tecnologico anche la guerra diventa tecnica (anche se a morire sono poi uomini e donne in carne e ossa, a centinaia di migliaia).

Il secondo trend è la costruzione di muri. Anche in questo caso la tendenza è cominciata a ben prima dell’attacco all’Ucraina. Muri e recinzioni costruiti per cercare di separare ciò che in realtà è strutturalmente unito sono ormai diffusi in tutti i continenti. A oggi si contano circa 80 muri per quasi 50.000 km, l’equivalente della circonferenza dell’intero  pianeta. A fine del 2022 sui confini europei si contavano 2.048 chilometri di barriere, quando nel 2014 erano 315 e zero nel 1990. A seguito dell’invasione dell’Ucraina, anche la Finlandia ha cominciato a costruire un muro sulla lunga frontiera con la Russia. E per fronteggiare la questione migratoria qualche mese fa dodici Stati membri (Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Grecia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Slovacchia) hanno chiesto alla Commissione finanziamenti per la costruzione di barriere fisiche di difesa.

 

Aiutiamoli a morire a casa loro
da Avvenire

di Tonino Perna *

L’ennesima tragedia dei migranti che muoiono davanti alle nostre coste, che potevano tranquillamente essere salvati prima, ha provocato una reazione unanime nel governo italiano che è stato ben espresso dalla premier addoloratissima per questo ennesimo naufragio: “Basta. Dobbiamo impedire le partenze”. Le ha fatto da megafono il ministro Piantedosi: “Non dovevano partire”.

Giusto, logico e pragmatico, non fa una grinza. Se nessuno parte su un barcone, gommone o altro mezzo, nessuno muore. Per questa intuizione dovrebbe essere conferito alla presidente del Consiglio, unitamente al suo Ministro degli Interni, uno speciale premio Nobel per la pace, magari con una piccola specificazione: “per la pace eterna”.

Cosa significa “dobbiamo bloccare le partenze”? Significa che milioni di profughi che fuggono dalle guerre, dalla fame, dalla miseria, dalla siccità, dalle inondazioni, devono restare a morire nella propria terra. Ma, stia tranquilla, signora presidente del Consiglio: il 94% dei rifugiati, dei cosiddetti “diplaced people” si spostano all’interno dei loro paesi o in paesi confinanti, come il Niger, il Congo, il Sud Sudan, ecc. Solo il 6% emigra verso altri continenti, non necessariamente in Europa. Quelli che s’imbarcano per raggiungere le coste del Sud Europa sono quelli che non hanno più niente da perdere.

Sono una piccola parte dei 1,3 milioni di siriani rimasti intrappolati in Libano in una spaventosa crisi economica che ha generato una forte pressione per rimandarli in Siria dove li attende a braccia aperte Bashar Assad, per dargli l’estrema unzione. Sono curdi bombardati quotidianamente dal grande mediatore pacifista, il presidente Erdogan, che ricatta persino la Nato per poter giustiziare i leader curdi che si sono rifugiati politici nei paesi scandinavi. Sono tunisini che fuggono dalla miseria che dilaga in questo paese dove le grandi speranze accese dalla “primavera araba” stanno definitivamente tramontando. Chi sale, pagando, su un barcone sovraffollato per venire in Italia, sa perfettamente che rischia la vita, ma non ha alternative, non ha una prospettiva diversa, una piccola fiammella di speranza.

 

Una via d'uscita dall'escalation
Ucraina. Foto Avvenire

Prendiamoci il tempo. Ora.

di Mauro Magatti *

Ricapitoliamo: Putin pensava che l’annessione del Donbass potesse avvenire a seguito di una veloce azione militare (l’«operazione speciale»), che poi un governo filorusso imposto a Kiev avrebbe ratificato, come era già successo con la Crimea. Piano fallito. L’Ucraina ha reagito e ha resistito anche grazie al sostegno dei Paesi occidentali.

Così, col passare dei mesi, l’esercito di Kiev ha avviato un’importante controffensiva, tanto da spingere Zelensky a porre la riconquista della Crimea come condizione per la fine della guerra. A quel punto, Putin ha annunciato una mobilitazione più larga, che ha suscitato obiezioni e reazioni interne, ma ha portato la Russia a fermare l’avanzata ucraina e a riconquistare qualche lembo di terra. E siamo così alla decisione della Nato di inviare alcune decine di carri armati più potenti per sostenere una nuova controffensiva ucraina. Nel contempo, la Russia si prepara a una nuova azione primaverile, forse coinvolgendo la Bielorussia.

A un anno di distanza dall’inizio delle ostilità, una cosa è chiara: la Russia non può perdere, perché la sua disfatta comporterebbe non solo la caduta del regime di Putin ma un trauma identitario i cui esiti sono ignoti. Da una sconfitta militare potrebbe forse nascere un governo più democratico e filoccidentale, ma anche un regime ancora più autoritario e violento. D’altro canto, anche l’Occidente non può perdere. Se dopo aver aiutato l’Ucraina, la Russia dovesse riuscire a sfondare grazie alla superiorità numerica, il disastro sarebbe totale. Il messaggio che si voleva trasmettere a tutti gli autocrati del mondo si tramuterebbe nel suo contrario. Il conflitto, dunque, si avvita su sé stesso. Secondo molti osservatori si va verso una guerra di logoramento di lungo periodo.

 

La rapidità dei cambiamenti ci precipita nell'inedito
Paul Klee

Il settimanale diocesano Vita Trentina a voluto celebrare il decennale del pontificato di Jorge Mario Bergoglio attraverso dieci parole: ambiente, Chiesa, denaro, famiglia, genere, gioia, giovani, povertà, preghiera, vita. Mi è stato chiesto di scrivere un pensiero attorno alla parola “ambiente” a partire da questa frase dell'Enciclica “Laudato si'”:

«Questa sorella [la "casa comune", cioè la Terra] protesta per il male che le provochiamo, a causa dell'uso irresponsabile e dell'abuso che i beni che Dio ha posto in lei. [...] Per questo, tra i poveri più abbandonati e mal trattati c'è la nostra oppressa e devastata terra che «geme e soffre le doglie del parto (Rm 8, 22)»


di Michele Nardelli

«Quello che sta accadendo alla nostra casa». Chiederselo è d'obbligo, descriverlo è doveroso. Francesco nella sua “Laudato si'” pone significativamente queste parole come titolo del primo capitolo. Un interrogarsi difficile, doloroso, inquietante. Ed è comprensibile che si possa preferire girare lo sguardo altrove. Ma ineludibile, anzi urgente. Non per trovare un colpevole. Ma per cambiare in profondità il nostro modo di pensare e di vivere.

In parole povere, potremmo dire così. Il pensiero moderno è figlio del positivismo. Le sue principali declinazioni, il pensiero liberale e quello di origine marxista, pur nella loro opposizione, avevano come cornice la società dell'abbondanza.

 

L'idea di progresso e la sinistra globale
La ginestra del Vesuvio

di Mauro Magatti *

In questi anni si è parlato moltissimo di sovranismo, forma contemporanea del populismo. E dei tanti interrogativi che questa offerta politica porta con sé. Assai meno si è discusso delle trasformazioni pervenute nella sinistra. Quasi dando per scontato che problemi e contraddizioni abbiano a che fare esclusivamente con la destra. Uno strabismo che non fa bene al dibattito.

Per “progressismo” si può intendere la forma più radicale di quella cultura sociopolitica diventata prevalente nella sinistra internazionale a partire dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine del socialismo reale. Nel corso degli anni, e soprattutto a seguito della presidenza Clinton, tale cultura ha preso piede non solo nelle elites dei partiti di sinistra, ma anche nei ceti intellettuali ed economici occidentali che hanno beneficiato maggiormente dei processi legati alla globalizzazione. Abbandonata l'idea di un superamento del capitalismo, il progressismo ha sposato un approccio riformista che lo ha reso capace di assumersi importanti responsabilità di governo. Questa metamorfosi ha però avuto i suoi risvolti problematici. Come si vede nella crescente difficoltà a tenere i contatti con i ceti popolari, che, in Italia ma non solo, guardano sempre più a destra.

 

pagina 2 di 75

123456789101112Succ. »