"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Federico Zappini
(5 luglio 2020) Da due anni gestisco una libreria. Due soci lavoratori, zero dipendenti. Non ci sono i margini per assumere qualcuno. Può essere che io sia una schiappa come imprenditore.
Siamo aperti il lunedì dalle 15 alle 20, da martedì a sabato dalle 10 alle 20. Aggiunto il lavoro preparatorio (leggere, progettare, curiosare), l’impegno nel quartiere e burocrazia varia le giornate si allungano. Credo valga per molti. Ho alzato le serrande di domenica una decina volte, in concomitanza del Natale. Non un aspetto determinante per la mia piccola attività.
Immagino che per supermercati, grande distribuzione (un discorso a parte, che andrà affrontato), ristoranti e bar la situazione sia diversa. E non la sottovaluto.
Trovo però la discussione sulle aperture domenicali e – di riflesso – sul concetto di città turistica fuorviante e non totalmente centrata.
«Tempi interessanti» (104)
La statua di Kappler. Una bella statua di Herbert Kappler potrebbe troneggiare davanti a Caracalla come a suggerire il percorso che conduce alle Fosse Ardeatine. Potrebbe ma fortunatamente non c'è. Avremmo il diritto a buttarla giù oppure dovremmo contestualizzare, magari in modo critico?
La questione si capisce meglio parlando di criminali che ben conosciamo e di crimini che noi consideriamo contro l'umanità. Non avremmo alcun dubbio: Kappler andrebbe tolto.
Il problema è che, per noi, la tratta atlantica, lo schiavismo, la conquista coloniale, lo stupro (rapporti sessuali con persone non consenzienti) o, che dir si voglia, il matrimonio forzato con una dodicenne sono ancora oggi reati minori. E il problema non é se allora fosse "consentito" o meno - pure Kappler ha sempre sostenuto di obbedire alla Legge - ma se oggi quelle statue ancora ci feriscono o se feriscono una parte consistente delle nostre società...
«Tempi interessanti» (102)
Che cosa significa allentare il confinamento (lockdown) mentre ancora la pandemia miete ogni giorno solo in Italia centinaia di vittime? Ho dei cattivi presagi, peraltro confermati dallo studio pubblicato nei giorni scorsi sulla rivista «Nature Medicine» dall’Università di Trento in collaborazione con l’Università e il Policlinico San Matteo di Pavia, l’Università di Udine, il Politecnico di Milano e l’Istituto di elettronica e di ingegneria dell’informazione e delle telecomunicazioni (Ieiit) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). «Pensare di allentarlo ora sarebbe impossibile senza mettere in conto delle conseguenze disastrose» afferma all'Ansa Giulia Giordano, prima autrice dello studio e ricercatrice del dipartimento di ingegneria industriale all’Università di Trento...
... Spero di sbagliarmi ma ho la sensazione che l'opzione immunità di gregge cominci a riprendere quota di fatto, senza dichiararlo (e forse senza nemmeno volerlo): “dovremo ritornare alla normalità convivendo con il virus” è l'argomento usato in questi giorni. Il cinismo di un modello di sviluppo che non può fermarsi. Il virus corona e il virus normalità (che ne è all'origine) si riconoscono...
... E «alla richiesta data dal buon senso: “Riavviamo la produzione il più rapidamente possibile”, dobbiamo rispondere con un grido: “Assolutamente no!” L'ultima cosa da fare sarebbe rifare esattamente ciò che abbiamo fatto prima». Mi rincuora l'assonanza con quanto abbiamo cercato di porre nell'ultimo capitolo del nostro recente lavoro, quando scriviamo: «...tornare sui propri passi non significa rinunciare alle conquiste del sapere, semmai metterle a disposizione per vivere con maggiore consapevolezza il carattere limitato delle nostre esistenze. Significa riqualificare i nostri bisogni sottraendoli dalle logiche di mercato, liberare tempo da dedicare alla cura delle relazioni, dare valore alle cose vere come l’amicizia, la convivialità, il piacere della conoscenza, il dono e la gratuità, riconsiderare la qualità a dispetto della quantità, ovvero fare meglio con meno».
di Francesco Picciotto
(1 aprile 2020) Figlio della mia formazione ambientale ed ecologica ho pensato per lungo tempo che il concetto di resilienza fosse un concetto esclusivamente positivo. L'idea che le comunità naturali, gli habitat, le specie, potessero reagire alle avversità recuperando, in tempi ragionevoli, salute ed equilibrio mi è sempre sembrata la via che Gaia ci indicava per dirci “ecco come si fa...imparate da me e nulla potrà farvi del male in maniera irreparabile”.
Poi ho capito che anche la resilienza stava diventando uno strumento pericoloso in mani di altri. Non ho capito bene cosa ne ha fatto la psicologia, ambito che non conosco e del quale quindi non mi sento di discutere, anche se la sensazione è che il termine in quel campo sia stato utilizzato in maniera esagerata almeno “quantitativamente” parlando.
So però, soprattutto grazie alla lettura di un libro, la sorte che è toccata alla resilienza quando si parla per esempio di cooperazione internazionale. Li il sistema è stato capace di imporre il proprio punto di vista passando da una situazione nella quale, magari maldestramente, si riusciva ad immaginare un mondo più giusto per raggiungere il quale bisognava dare a tutti le stesse risorse e le stesse possibilità ad un'altra situazione (nel tempo appunto della resilienza) nella quale il sistema si rende conto che su questo pianeta non ce ne è per tutti e invece di immaginare una rivoluzione dei consumi, un cambiamento dei sistemi produttivi e degli stili di vita, una (udite udite....che orrore!) decrescita felice, si immagina piuttosto che non è detto che “tutti possano e debbano farcela”. Così si tira fuori dalla manica la resilienza: “tu uomo o donna (meglio donna che dirlo fa figo!) di quello che non chiamo più terzo mondo (perché dirlo non fa più figo!) vuoi salire sul mio carro (ahimè sempre più stretto)? Allora devi dimostrare a me, secondo i miei parametri, che sei resiliente”. In sostanza devi dimostrarmi di essere capace di reagire positivamente ai disastri e alle vessazioni che i miei stili di vita reiterati ed imperituri hanno prodotto alla tua vita e al tuo ambiente e solo allora io ti garantirò uno strapuntino sul mio treno lanciato verso un futuro radioso.
di Federico Zappini *
[Questa sera ho passato tre ore e mezza su Zoom, sia lodato!, per una riunione con altre trenta persone circa. Avevamo tempo – come tutti in queste settimane – e un lungo ordine del giorno da affrontare. E’ stato bello!]
In questi giorni sento un’urgenza totale – allo stesso tempo passionale e ansiogena – di Politica e di fare Politica. Un bisogno primario, un desiderio profondo, di confronto e azione condivisa che prende spinta (non inizia…) dentro quella che è una fase caotica e priva di certezze, se non quella che dovremo far fronte a trasformazioni di tipo epocale e mai viste nel nostro recente passato.
di Federico Zappini *
Nell’ultimo pacco di libri che è arrivato e ho aperto in libreria – ormai due giorni fa, il prossimo sarà immagino tra diverso tempo – c’era Un’altra fine del mondo è possibile, scritto a sei mani (e una miriade di cervelli) da Pablo Servigne, Raphaël Stevens, Gauthier Chapelle. Non è un testo pessimista, anzi. Si trova nella collana Visioni, scelta editoriale lungimirante dell’Istituto Treccani. Una serie di volumi importanti, alcuni fondamentali.
“Alcune cose si vedono bene solo con occhi che hanno pianto”. La citazione di Henri Lacordaire – illuminante – che introduce un ragionamento articolato che tenta di partire da dove siamo (sull’orlo di un precipizio, da prima della comparsa del Covid19) per metterci nelle condizioni di arrivare a un’altra fine, intesa non come tragedia ineluttabile ma come opportunità di attivarsi per un Mondo diverso e migliore. “Per ripensare il modo in cui vediamo il mondo, cioè l’essere nel mondo.” La chiamano collassosofia.