«Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»
Manifesto di Ventotene
Sono mesi che non scrivo sulle guerre in corso. Un po' per l'angoscia nel vedere le rovine del progresso. Un po' perché ripeterei più o meno le stesse parole, in larga misura inascoltate.
Partecipo con fatica alle manifestazioni o non partecipo affatto, nemmeno alle attività del Cantiere di pace che pure ho contribuito a costruire. Doveva servire ad evitare che la guerra in Ucraina dividesse le persone più sensibili alla pace, ma non è stato così.
Immaginavamo un'altra agenda, per quanto improbabile con l'intensificarsi del contesto di guerra, proponendoci uno sguardo capace di andare al cuore dei conflitti, un percorso formativo rivolto in particolare al mondo della scuola sull'educazione alla contemporaneità, una diplomazia delle città come condizione per dar vita ad una rete europea di relazioni guardando alla ricostruzione, materiale e non solo...
Un movimento di liberazione di natura costituente. Reportage da Belgrado.
di Michele Nardelli
Ho voluto essere a Belgrado, in mezzo ad una folla immensa di trecento o forse quattrocentomila persone, arrivate a piedi, in bicicletta, in moto, con i bus, le auto e i trattori dalle città e dai villaggi della Serbia profonda come da quartieri popolari di quella grande città, malgrado il blocco del trasporto pubblico imposto da Vucic. Un fiume ininterrotto che ha invaso la capitale sin dalla sera precedente e per tutta la giornata del 15 marzo, fino a notte inoltrata. Che scorreva accanto ai due grandi fiumi (d'acqua) che costituiscono uno dei più affascinanti ecosistemi europei dietro le nazioni [1].
Un fiume che scorre da mesi e che per i giovani di questo paese rappresenta forse un'ultima speranza, quella della dignità di poter immaginare un futuro nella terra in cui si è nati prima di scomparire in un altro e più doloroso fiume, quello del migrare. E che il quindici marzo duemilaventicinque ha conosciuto una sua metamorfosi sociale in un evento di dimensioni e caratteristiche forse mai viste prima nei Balcani.
Che questo sia avvenuto grazie in primo luogo agli studenti che con i simboli rancorosi e vittimistici del passato non hanno sostanzialmente nulla a che fare, in una mobilitazione capillare che da mesi ha invaso le città come i territori tradizionalmente poco inclini al cambiamento, e tutto questo in nome della verità contro la corruzione, della democrazia contro le mafie che hanno invaso le istituzioni, dell'amore per la propria terra svenduta alle multinazionali delle terre rare in nome dello sviluppo, ci racconta di una società ancora capace di reagire.
Il 20 dicembre scorso si è riunito da remoto il Collettivo di scrittura nato attorno al libro “Inverno liquido”. Pur trattandosi di un incontro piuttosto informale di fine anno è stato comunque denso e partecipato1. Quella che segue è una sintesi di quanto ci siamo detti.
Una comunità di pensiero
Questo cerchiamo di essere. E non è poca cosa. Perché in questo tempo disgraziato, aver dato vita ad uno spazio che si propone di alzare lo sguardo sull'impatto delle crisi sugli ecosistemi, non è in effetti cosa da nulla. L'approccio dei più è quello di rincorrere gli eventi, inevitabile esserne subalterni. Quando invece sappiamo che i cambiamenti profondi, culturali in primis, richiedono tempi distesi. Come scrive Paolo Conte “ci va il tempo che ci va”.
Eppure, dall'osservazione del reale emergono segnali inequivocabili, che l'accanimento terapeutico dei finanziamenti pubblici non riesce a nascondere, come ad esempio la continua moria di imprese nel settore impiantistico o l'inutilità degli impianti per l'innevamento artificiale quando le temperature sono troppo elevate. O, ancora, nel susseguirsi di eventi estremi che seccano le centrali di approvvigionamento idrico o che mettono sott'acqua intere regioni, senza che tutto ciò porti ad interrogarsi sull'insostenibilità del modello di sviluppo che si è imposto nel tempo.
«Non ci si salva da soli. Occorre incrociare gli
sguardi, condividere le conoscenze, tessere le
trame di alleanze ampie e plurali, dando vita
a sempre più strutturate comunità di pensiero
e azione. Per essere interpreti di un cambio di
paradigma non più rimandabile. Per pensare
insieme il mondo a venire. Questo libro va
inteso come un numero zero, il primo passo
di un collettivo di scrittura attorno ai nodi del
passaggio epocale che stiamo attraversando».
Nel gennaio 2023 è uscito il libro di Maurizio Dematteis e Michele Nardelli “Inverno liquido. La crisi climatica, le terre alte e la fine della stagione dello sci di massa” (Derive & Approdi, Roma, 300 pagine, 20 euro), lavoro arricchito dalla prefazione di Aldo Bonomi, editorialista del “Sole 24 ore”, e dalla postfazione di Vanda Bonardo, presidente di Cipra Italia e responsabile della Carovana dei ghiacciai di Legambiente.
Rimbalza sui social l'opera realizzata dal canale di divulgazione culturale NovaLectio, che con una serie di interviste descrive le allarmanti condizioni sociali in un territorio alpino inascoltato, sofferente per lo spopolamento e la crisi dei servizi pubblici. Una provincia che per anni aveva tentato un dialogo (inascoltato) con il Trentino
di Zenone Sovilla*
Delle battaglie autonomistiche ultra decennali della vicina provincia dolomitica di Belluno l'Adige si è occupato spesso, fin dal primo referendum cosiddetto secessionista. Era il 2005 quando il Comune di Lamon, nell'area sudoccidentale del Bellunese, al confine con le aree trentine del Vanoi e del Tesino, fu l'apripista di una serie di votazioni, su base costituzionale, animate in particolare dal movimento Bard (Belluno autonoma Regione Dolomiti), allo scopo di portare finalmente al centro dell'attenzione del legislatore nazionale la questione di questo fazzoletto alpino pesantemente svuotato di strumenti istituzionali
Dopo Lamon seguirono decine di territori confinanti, specie con il Trentino, ma anche con l'Alto Adige, cioè dell'area bellunese impropriamente denominata "ladina storica", quasi a nobilitarla rispetto ai municipi vicini e appartenente alla medesima minoranza linguistica ma non già all'Impero asburgico.
Nella gran parte dei casi vinsero i sì all'addio alla matrigna Regione Veneto colonizzatrice; ma per ragioni alquanto oscure, l'unico via libera parlamentare fu ottenuto da Sappada, comune germanofono bellunese di nordest che nel 2017 passò al Friuli Venezia Giulia. Una regione, quest'ultima, che peraltro in materia di politiche per la montagna non si distingue gran che dal Veneto, entrambe prevalentemente di mare e di pianura.
Ci fu anche un comune, quello di San Pietro di Cadore, dove in municipio si fece presente l'impossibilità di indire il referendum, perché l'unico confine non bellunese è con l'Austria...
Collettivo di scrittura
Puy de Champanesio (CN), 5 - 8 settembre 2024
A quasi un anno dall'incontro di Marettimo, nel magnifico scenario di Puy de Champanesio, si è svolto nei primi giorni di settembre un nuovo incontro in presenza del Collettivo di scrittura nato intorno alla realizzazione e alle presentazioni del libro “Inverno liquido”.
La biodiversità delle terre alte alpine, i piccoli borghi abbandonati che stanno con fatica rinascendo, memoria materiale di saperi e di ingegno antichi, oggi coniugati con la sensibilità di conservare un patrimonio altrimenti destinato all'incuria e al degrado: questo sono Puy de Champanesio e gli altri insediamenti sui monti della Valle Varaita, in provincia di Cuneo.
Quindi un grande ringraziamento a Maurizio Dematteis per averci proposto questa scenografia, per la deliziosa ospitalità e per averci dato l'opportunità di incontrare tante belle persone impegnate nella rinascita di quei luoghi.
Sarà stata la magia del luogo o l'alchimia che talvolta si crea fra il pensiero e il vissuto delle persone, ma l'incontro del Collettivo di scrittura – malgrado la pioggia e le difficoltà di partecipazione – è stato molto proficuo. Tanto è vero che anche le persone che mano a mano ci hanno raggiunto (e che del Collettivo non conoscevano nemmeno l'esistenza), si connettevano con naturalezza alla nostra discussione, che ruotava nella mattinata del venerdì attorno ai temi dell'energia come bene comune e del futuro delle comunità delle terre alte e dei nuovi montanari.
"Un viaggio di ritorno, un libro scritto a metà, una comunità di pensiero" (26 giugno - 3 luglio 2024). Il racconto.
di Domenico Sartori
Emozioni e paure
Partiamo dalla fine. “La mia follia è rimanere qui”. Incontriamo Darko Cvijetic al motel Le Pont. Insieme al “condominio rosso” dove ancora abita è il suo rifugio quando ritorna a Prijedor, in quella parte di Bosnia Erzegovina chiamata Republika Srpska. Poeta, scrittore, drammaturgo, attore, Cvijetic ha appena pubblicato l’ultimo romanzo della trilogia aperta con L’ascensore di Prijedor (uscito in Italia con Bottega Errante Edizioni). Il protagonista è un criminale di guerra, che ritorna dopo venticinque anni di galera. “Il criminale è cambiato, tutto il resto è rimasto come prima”. E la comunità non può accettarlo: è uno specchio che ne riflette l’immagine. “Perché” dice il romanziere “il criminale di guerra è un potenziale che ognuno di noi ha dentro”. Michele sorride, ne parla spesso nelle sue riflessioni sulla guerra.
E’ il tema, enorme, dell'elaborazione del conflitto. Senza, le guerre non finiscono mai. Elaborare. Conoscere. Guardarsi dentro. E’ fatica, dolore. Qui sta la tragedia. Il passato che non passa. Lo scontro solo “congelato” dagli accordi di Dayton (fine 1995) che hanno fermato le granate e la guerra in Bosnia Erzegovina. Un equilibrio precario dentro la geopolitica globale, l'altra guerra mai risolta fra Serbia e Kosovo, quelle in Ucraina e in Palestina, l’Europa dove risorgono sovranismi, fascismi e nazionalismi, gli Usa a rischio guerra civile. Un “equilibrio” che pare stare bene a tutti i principali attori. Se non altro perché, dentro la tregua, il grande business nei Balcani continua: quello delle privatizzazioni e delle delocalizzazioni, dell’energia e delle materie prime, dei traffici e del real estate. Ne è emblema la cementificazione del lungofiume di Savamala a Belgrado, voluta dall’attuale presidente della Repubblica, Aleksandar Vucic. Dalla fortezza di Kalemegdan, l’imponenza del gigantesco affare immobiliare, il progetto Belgrade Waterfront, taglia l’orizzonte: hotel di lusso, il più grande centro commerciale dei Balcani, 10 mila appartamenti riservati alle élite, 4 miliardi di euro di investimento, la Eagle Hills Company di Abu Dhabi protagonista.
La lettera che illustra le ragioni del viaggio
«Noi palestinesi e amici della Palestina porgiamo la mano a tutti coloro che hanno detto no alla guerra e che hanno condannato il terrorismo in tutte le sue forme. In modo particolare la porgiamo ai cittadini israeliani (purtroppo ancora una minoranza) e a tutti gli ebrei nel mondo che non hanno concesso il loro nome ai criminali di guerra.
La carneficina in corso contro il popolo palestinese, la pulizia etnica antica e recente, la colonizzazione e le spedizioni terroristiche dei coloni contro la popolazione autoctona, come lo sradicamento degli alberi, la distruzione delle case e la confisca della terra, oltre ad abbattere ogni ponte di dialogo, ledono gravemente l'immagine e la storia di tutta una comunità e rilanciano di nuovo l’antisemitismo, che offende ogni popolazione di origine semita, quella ebraica come quella palestinese. E, nei fatti, rendono Israele il luogo meno sicuro per la popolazione ebraica e per tutti i suoi cittadini.
La battaglia per la libertà del popolo palestinese è la stessa battaglia per la libertà della popolazione ebraica e della nostra libertà.
Lo Stato può diventare una gabbia. Il nazionalismo è stato il cancro della modernità. La fratellanza è un vasto spazio di umanità libera.
Per questo non vogliamo rinunciare al sogno di un unico paese fondato sullo stato di diritto e sull'uguaglianza delle persone a prescindere dalla loro appartenenza e dal loro credo religioso. Siamo ancora in tempo. Iniziamo con il cessate il fuoco e poi cominciamo a guardare alla Mezzaluna fertile del Mediterraneo con altri occhi».
Ali Rashid, Aida Tuma (deputata del Knesset israeliano), Issam Makhluf (già deputato del Knesset, presidente del fronte democratico per la pace e eguaglianza in Israele), Mohammad Bakri (regista arabo israeliano), Renato Accorinti, Mario Agostinelli, Marta Anderle, Sergio Bellucci, Gianna Benucci, Gianfranco Bettin, Mario Boccia, Loris Campetti, padre Nandino Capovilla, Sergio Caserta, Beatrice Cioni, padre Fabio Corazzina, Fiammetta Cucurnia, Massimo De Marchi, Nicoletta Dentico, Tommaso Di Francesco, Stefano Disegni, Patrizio Esposito, Silvano Falocco, Rania Hammad, Adel Jabbar, Dina Ishneiwer, Raniero La Valle, Mimmo Lucano, Fiorella Mannoia, Serena Marcenò, Rino Messina, Emilio Molinari, Erica Mondini, Michele Nardelli, Mario Natangelo, Silvia Nejrotti, Azra Nuhefendic, Moni Ovadia, Maurizio Pallante, Nino Pascale, Dijana Pavlovic, Tonino Perna, Daniele Pulcini, Gianni Rocco, Michele Santoro, Stefano Semenzato, Vauro Senesi, Sergio Sinigaglia, Gianni Tamino.
di Ali Rashid
(settantacinquemila morti fa) Corre il tempo e cambiano le idee, i concetti fondamentali e i significati. Come fosse arrivato a compimento la negazione di ogni valore! Dio è morto. Viva l’eroica morte, giusto l’annientamento del “nemico”. Dilaga il nichilismo e trionfa la tecnica.
Vivono in me i racconti di mio nonno. Andava a Safad in Galilea per comprare un fulard di seta dalla comunità ebraica sfuggita all'inquisizione in Portogallo, avevano imparato la tessitura della seta dagli arabi in Spagna.
Mi ricordo di Khaiem, socio di mio nonno in una cava vicino a Gerusalemme. Khaiem non ha potuto salvare la mia famiglia dalla pulizia etnica, ma continuò a mandare alla nostra famiglia in esilio la parte del guadagno dell'impresa finché non morì.
Non ho notizie dei figli di Khaiem, ma ho seppellito mia sorella in Norvegia, un fratello negli Stati Uniti, un mio caro e stimatissimo zio una settimana fa a New York, mentre la salma di mio nonno giace in un anonimo cimitero di Amman.
Nel settembre scorso si è svolto un nuovo capitolo del “Viaggio nella solitudine della politica” che aveva come titolo “Dal Meriggio alla Mezzanotte”. Un viaggio ispirato al pensiero di Albert Camus, al quale avevamo reso omaggio lo scorso anno proprio a conclusione del precedente itinerario.
Avrei voluto scriverne a caldo, ma fra una cosa e l'altra non è stato possibile. In compenso le immagini e le sensazioni si sono sedimentate, così come il senso di questo nostro viaggiare. Lo spazio e il tempo per aiutarci a comprendere come cambia il mondo e come cambiano i nostri occhi.
Per stare al mondo in maniera curiosa e responsabile.
§§§
di Michele Nardelli
«Quale miglior paragone
alla speciale intelligenza di questo popolo,
del tremolar della marina?
Badate: i Greci sono colonizzatori. Sempre stati.
Ma colonizzano le spiagge:
in Asia minore, in Italia, a Marsiglia.
Non s'inoltrano.
Sanno che a perder di vista il mare,
si perde il tremolar della marina:
si perde l'intelligenza”»
Alberto Savinio
“Dal meriggio alla mezzanotte”. Era questo il titolo dell'ultimo itinerario del “Viaggio nella solitudine della politica” giunto così alla sua quattordicesima puntata1. Che ci ha portati ad attraversare il cuore prometeico dell'Europa, quegli imperi (tedesco e austroungarico) che costituirono l'ossatura del Terzo Reich e quelle terre che vennero segnate dal delirio di potenza che caratterizzò tragicamente il Novecento.
L'incontro inaugurale del Collettivo di scrittura nato attorno a “Inverno liquido”
(Marettimo, 5 – 8 ottobre 2023)
di Michele Nardelli
Le Dolomiti, nel mare
Marettimo è di una bellezza che ti avvolge ma soprattutto è un'isola vera, che non ti liscia il pelo. Una montagna di settecento metri di altitudine che esce dal mare, pareti dolomitiche che vi si rispecchiano e che si modellano con le maree disegnando una morfologia unica e spettacolare.
Non aspettatevi negozi o fronzoli per i turisti, qui non si viene per lo struscio o per ostentare vanità. Un'infinità di barche invece, eredità di quando questo luogo era abitato quasi esclusivamente da famiglie di pescatori. Ce ne sono ancora di pescatori, ma quei pochi che sono rimasti integrano questa attività con l'accompagnamento in barca di chi vuol visitare Marettimo nei suoi meandri altrimenti raggiungibili solo a piedi. Qui, del resto, di strade ce n'è una sola, che collega il borgo al cimitero. Il resto sono sentieri per chi ama camminare.
La più piccola e lontana isola delle Egadi nel corso degli ultimi cinquant'anni ha perso buona parte delle persone che l'abitavano. Sono rimasti in meno di duecento. Difficile viverci per l'intero arco dell'anno: una scuola elementare con un'unica pluriclasse di nemmeno dieci bambini, la scuola media chiusa da tempo. La stessa cosa si può dire per i servizi sanitari e così, quando qualcuno sta proprio male, non resta che chiamare l'elisoccorso.
(23 aprile 2025) Immagino che in molti, nell'assistere a quell'ultima apparizione in piazza San Pietro nel giorno di Pasqua, abbiamo pensato che quello avrebbe potuto rappresentare un ultimo saluto. Se la sentiva, papa Francesco, che non sarebbe durato a lungo e penso che la scelta di stare fino all'ultimo respiro vicino alla propria gente sia stata coerente con il suo Magistero.
Coerenti nelle proprie vite non lo si è mai. La coerenza è una ricerca continua, che ci mette alla prova quotidianamente, dalla quale usciamo il più delle volte sconfitti. Semplicemente perché nessuno di noi è sovrano. Ma nel suo percorso Francesco ha saputo interpretare un tempo particolarmente complesso, nel quale l'intreccio delle crisi richiedeva una riconsiderazione, ad un tempo più umile e più ricca, del nostro posto nella natura.
Un percorso di riconciliazione con il mondo che ci ospita ben lontano dalle logiche con le quali i potenti della Terra esercitano il proprio dominio, senza comprendere che in un contesto interdipendente non ci si può salvare da soli. E dunque inviso, nel corso del quale abbiamo toccato con mano la grande solitudine di papa Francesco. Quegli stessi potenti che ora, di fronte al concludersi del tragitto terreno di quest'uomo, danno l'ennesima prova di ipocrisia.
Nei messaggi di condoglianze gli aggettivi rituali si sprecano, ma ben pochi s'interrogano sul valore e la pregnanza di un papato che ha indicato l'insostenibilità dell'attuale modello di sviluppo, evidenziandone – in occasione dell'Esortazione Apostolica “Laudate Deum” del 4 ottobre 2023 – il carattere di peccato strutturale.
di Federico Zappini
Sicurezza. Non c’è espressione più scivolosa e spesso fraintesa.
Non potrebbe essere altrimenti, perché chiunque voglia occuparsene dovrebbe aver chiara la distanza tra ciò che il termine dovrebbe rappresentare (la giustizia cui faceva riferimento John Rawls, il patto sociale su cui i cittadini possono contare) e ciò che negli ultimi decenni è diventato. Campo privilegiato per la speculazione elettorale sotto la spinta costante degli imprenditori della paura, così come li chiamò per primo Marco Revelli.
Da quando ho memoria politica – vent’anni almeno – l’uso strumentale della sicurezza c’è sempre stato, rinfocolato da una classe politica (a destra, ma non solo) che ha costruito sulla retorica dell’emergenza e della pericolosità dei contesti urbani le proprie fortune. Un gioco cinico che continua a produrre danni.
Ogni rilevazione statistica ci dice che l’epoca che stiamo vivendo è tra le meno violente della storia dell’umanità. Gli omicidi in Italia sono passati da 711 a 330 annui nel ventennio tra il 2004 e il 2023, dopo che a inizio anni ’90 raggiungevano la cifra record di 1.700. Unica fattispecie in controtendenza è quella dei femminicidi il cui dato è addirittura in leggera crescita negli ultimi anni. Se allarghiamo lo sguardo agli altri reati contro persone o patrimonio (aggressioni e lesioni, furti e rapine) anche qui troviamo cifre in calo che non descrivono un Paese sotto scacco della criminalità. Viene da chiedersi allora perché sia ancora così forte il racconto di una sorta di apocalisse urbana – anche per la città di Trento – caratterizzata, così si dice, da interi quartieri fuori controllo.
Capire come la dimensione estetica e creativa funzionano nella mente chiarisce le ragioni dell’attitudine simbolica tipica degli esseri umani, ma non solo. Indagare questi temi significa anche ragionare sui presupposti fondamentali della relazionalità, della socialità, dell’educazione per la tenuta della democrazia e della pace.
A cura di Neve Mazzoleni *
Ugo Morelli è saggista, scrittore, professore di scienze cognitive applicate alla vivibilità, paesaggio e all’ambiente, di Psicologia del lavoro e dell’organizzazione e di Psicologia della creatività e dell’innovazione. Per nove anni è stato il Direttore del master in Management dell’arte e della cultura (MAC) della Trentino School of Management, fra i primi percorsi di formazione che mettevano in relazione discipline scientifiche, umanistiche e creative con elementi di gestione e sviluppo organizzativo, con lo scopo di diffondere la valorizzazione delle istituzioni e delle industrie creative italiane, settore che ha un impatto rilevante nel nostro Sistema Paese. (...)
Morelli da qualche mese ha pubblicato il fondamentale volume “Cosa significa essere umani?” (Cortina, 2024), scritto a quattro mani con il neuroscienziato Vittorio Gallese. Un testo altrettanto enciclopedico, multidisciplinare, modulare e nello stesso tempo onnicomprensivo, facile ed erudito, che risponde al quesito posto nel titolo sotto diversi punti di vista: dalle neuroscienze, alla biologia, all’evoluzionismo, fino alla psicologia, l’estetica, l’educazione, infine l’etica. Abbiamo avuto la possibilità di conversare con lui su un tema attuale e doloroso: la guerra.
Professor Morelli le vorrei porre una domanda scomoda: come è possibile che la mente umana, capace di empatia, creatività e bellezza, produca anche orrore, violenza e la guerra?
La guerra è l’altra faccia della bellezza, come racconta l’antico mito dell’attrazione passionale fra Ares e Afrodite. Non è possibile comprendere una senza l’altra. C’è bellezza anche nella distruzione assoluta. Non possiamo dare una spiegazione naturalistica completa della mente, senza tenere conto anche di questo aspetto. La guerra è una delle vie possibili ed effettive nella regolazione delle relazioni entro la specie umana. Se osserviamo scimpanzè e macachi, ovvero i primati superiori comparsi sul pianeta oltre venticinque milioni di anni fa, riscontriamo in loro forme di esperienze proto-estetiche, nonché forme di distruttività intraspecifiche. Essendo i nostri antecedenti evolutivi, possiamo dedurre che nell’uomo, comparso circa sei milioni di anni fa (e solo da circa trecento mila anni nell’attuale forma sapiens) ci siano forme simboliche più sofisticate, fra le quali ricadono anche la violenza, l’orrore, la guerra.
lunedì, 28 aprile 2025 ore 17:30
L'importanza di farsi carico di altri luoghi e altre storie e acquisire consapevolezza di sé e del contesto globale
Ne parlano
Michele Nardelli, scrittore e promotore di iniziative di cooperazione comunitaria tra il Trentino, l'Europa e il Mediterraneo,
e i candidati nella lista del Partito Democratico per il Comune di Trento
Vincenzo Calì, Annalisa Tomasi e Federico Zappini
Lunedì 28 aprile 2025, ore 17.30
Trento, Parco Duca d'Aosta (laterale di via Veneto)
Trento, Parco Duca d'Aosta (a lato di Via Veneto)
Aleksandar Hemon
Il mondo e tutto ciò che contiene
Crocetti, 2023
Bejturan se uz ruzu savija,
vilu ljubi Derzelez Alija,
vilu ljubi svu noc na konaku,
po mjesecu i muntu oblaku *
Spesso parlo del Novecento come di un secolo non ancora elaborato. Non significa che non si siano spese parole, tutt'altro. E anche molte pagine straordinarie per comprenderne il messaggio, complesso e contraddittorio, che “il secolo dell'ambivalenza” ci ha consegnato. A che cosa mi riferisco, allora?
Penso alle pagine che ancora rimangono sospese sul piano dell'elaborazione collettiva, quel passato che incombe sul presente proprio per non aver scavato a fondo dentro verità ritenute sconvenienti e dolorose. Ma che il trascorrere del tempo (e ancor più la rimozione), infettano.
Non penso solo alle due guerre che devastano l'Europa e il Mediterraneo, entrambe esito di questa incapacità di fare i conti con la storia e del delirio nazionalistico che ancora pervade il presente.
Spero di far cosa gradita nel riportare il mio intervento in occasione del convegno “Terre Alte e Restanza. Buone idee e buone pratiche – L’esempio di Ostana” (Carbonare, 12 ottobre 2024)
di Michele Nardelli
Sono felice di essere qui. In primo luogo per l'argomento che stiamo affrontando, che ritengo di particolare attualità. E poi perché queste sono state e vorrei che continuassero ad essere occasioni di incontro generative, come lo è stato il convegno che svolgemmo proprio il 12 ottobre di cinque anni fa a Nosellari. In quella occasione incontrai Maurizio Dematteis con il quale nacque in seguito un sodalizio germinato in un libro come “Inverno liquido”, un lavoro a più mani che ha ispirato a sua volta la nascita di un “Collettivo di scrittura” per dar vita ad una Collana editoriale attorno al tema cruciale dell'impatto delle crisi sugli ecosistemi. In un passaggio di tempo segnato dall'incertezza e spesso dallo smarrimento si delineano così linee di pensiero, sintonie di azione e reti di persone che ci aiutano ad essere meno soli nella crisi dei corpi intermedi.
di Aldo Bonomi
Abbassare lo sguardo al territorio per commentare un lavoro di ricerca come quello portato avanti da Legambiente nel suo monitoraggio annuale sullo stato dell’industria della neve nella montagna italiana può apparire esercizio velleitario, perché la crisi ecologica morde, ma non certo quanto la crisi da riarmamento, che sostenibile non potrà mai esserlo per definizione.
Il rapporto sullo stato dell’inverno liquido ha il merito di porre in luce il confronto tra due visioni della comunità locale in evoluzione dialettica sui territori alpini e appenninici. Da un lato, ciò che resta dell’industria fordista che insegue sempre più in alto la ritirata delle nevi a suon di investimenti, non sempre razionali a quanto pare, in nuovi impianti di risalita e in bacini artificiali di raccolta delle acque per alimentare la produzione di neve a quote medie. Dall’altra, tracce di comunità in itinere che partendo dalla coscienza di luogo sperimentano modalità dolci di fruizione turistica della montagna cercando di tradurre anche sul piano degli interessi materiali le istanze di un cambiamento strutturale reso necessario dal cambiamento climatico.
di Paola Caridi *
(25 marzo 2025) Dormo di meno. Notizia irrilevante, in tempo di genocidio, il genocidio di Gaza. Notizia irrilevante, chiusa nella biografia di una singola persona, se non fosse che, a condividerla con le altre e gli altri, a non rimanere in silenzio, si scopre che non sei la sola. Che, da Roma a Parigi a Torino a Palermo, è un sussurro. “Non dormo la notte, penso ai miei figli”. “Comunque la vita mi è cambiata”. “No, non sto bene, anche se sto bene”. “Ma cosa possiamo fare? Noi non contiamo niente”. “Lo sai? Non ce la faccio più a guardare le immagini che arrivano da Gaza. Me ne vergogno, ma io non ce la faccio più a guardarle”. “Non riesco neanche a piangere”.
In questo anno e mezzo di incontri pubblici, presentazioni di libri, zoom, viaggi, treni e aerei, piccole condivisioni di parole, dediche sui libri (“mi scriva qualcosa sulla pace, non ha importanza il mio nome”), ho compreso che il disagio è un sussurro. Una colonna sonora.
Non riesce a diventare gesto, manifestazione, massa critica. Ma è così rilevante che non diventi ciò che pensiamo possa veramente contare, in chiave politica? Me lo domando, da giorni settimane mesi. Per ora (ma solo per ora, oggi), mi basta che ci sia, e non per conforto. Probabilmente lo lego, e alcuni dei miei amici che si occupano di Egitto mi capiranno, a quello che Asef Bayat, acuto sociologo iraniano-americano, aveva definito in un suo libro bellissimo e famoso, life as politics. “La vita come politica”. Non prepolitica, non a-politica. La vita come politica.
di Federico Zappini *
(7 marzo 2025) È difficile rimanere indifferenti di fronte alla proposta di Michele Serra di organizzare una manifestazione continentale a sostegno dell’Europa nel momento in cui l’intero Mondo sembra sull’orlo di una crisi irreversibile. E’ bene però che di una chiamata alla mobilitazione così urgente e ambiziosa si riconoscano tanto il valore quanto le contraddizioni, insieme l’innegabile passione e la potenziale ingenuità.
Il primo fattore di rilevanza riguarda evidentemente la contingenza internazionale. L’amministrazione Trump ha accelerato una serie di dinamiche che rischiano di rimodellare l’ordine mondiale secondo i rapporti di forza e non invece rispettando le norme del diritto. La “gestione” muscolare della guerra in Ucraina (e in parallelo di quelle in Medio Oriente) e le conseguenti molteplici tensioni internazionali, i dazi commerciali usati come arma di pressione su nemici e alleati, l’accantonamento degli accordi sul clima sono solo alcune dei dossier aperti sul tavolo. La minaccia, in generale, è che la politica su scala planetaria si sviluppi più per ricatti e accordi di opportunità che per la condivisione di valori e attraverso la cooperazione e il confronto.
Ernesto Rossi - Altiero Spinelli
Il Manifesto di Ventotene Prefazione di Eugenio Colorni«Guardavo sparire l'isola nella quale avevo raggiunto il fondo della solitudine, mi ero imbattuto nelle amicizie decisive della mia vita, avevo fatto la fame, avevo contemplato - come da un lontano loggione - la tragedia della seconda guerra mondiale, avevo tirato le somme finali di quel che andavo meditando durante sedici anni, avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili... nessuna formazione politica esistente mi attendeva, né si prestava a farmi festa, ad accogliermi nelle sue file... con me non avevo per ora, oltre che me stesso, che un Manifesto, alcune tesi e tre o quattro amici...».
Simone Malavolti
«Nazionalismi e “pulizia etnica” in Bosnia Erzegovina – Prijedor (1990 – 1995)»
Pacini Editore, 2024
«Nazionalismi e “pulizia etnica” in Bosnia Erzegovina – Prijedor (1990 – 1995)» è un libro di grande valore. Un lavoro rigoroso e raro, per la ricerca delle fonti e per l'accuratezza della ricostruzione di un passaggio storico manipolato dalla propaganda nazionalista e da narrazioni separate.
Scavare dentro i conflitti e le guerre non è mai un compito facile, richiede di prendersi una distanza anche emotiva dagli avvenimenti e dalla logica manichea che tende ad identificarsi con una parte. Questo non significa non saper distinguere fra aggressori ed aggrediti, senza però mai dimenticare che la guerra (come la sua fine, chiamata frettolosamente pace) non è mai giusta. In questo scavare dentro i conflitti (e le parole), con Mauro Cereghini parlammo di “equiprossimità”, il riconoscere la tragedia delle vittime a prescindere dalla loro appartenenza nazionale, religiosa o etnica1. A questo compito Simone Malavolti offre un contributo significativo, uno studio di caso per raccontare come sono andate le cose in una delle aree più segnate dalla “pulizia etnica” nella guerra dei dieci anni che ha segnato l'Europa alla fine del secolo scorso.
Per chi ha vissuto quella tragedia in prima persona, questo libro rappresenta una forma di risarcimento, nel riconoscimento del dolore delle vittime ma anche verso chi – a prescindere dalla propria appartenenza – si è opposto al delirio nazionalistico. Anche per questo, richiederebbe di venir tradotto in serbo-croato-bosniaco e presentato nei territori che facevano parte della Jugoslavia. Cosa non facile, se consideriamo che ancor oggi, a distanza di trent'anni dagli avvenimenti raccontati nel libro di Malavolti, ci sono aree nelle quali le autorità locali tendono a boicottare ogni narrazione diversa da quella ufficiale, ovvero quella di chi ha “vinto” nella separazione etnica della Bosnia Erzegovina. Ne sanno qualcosa quei pochi intellettuali che coraggiosamente hanno “tradito” le loro appartenenze o presunte tali.
A scuola di complessità ibridando i saperi del nuovo umanesimo
di Mauro Ceruti *
Non c’è alcun dubbio che la scuola viva una crisi profonda. «La scuola prepara i ragazzi a vivere in un mondo che non esiste», ebbe a dire a suo tempo Albert Camus, e questo vale a maggior ragione oggi, sebbene in forme molto diverse.
Sono proprio le nuove generazioni «iperconnesse» a percepire e segnalare, con le loro inquietudini e i loro disagi, la “sconnessione” del sistema scolastico con la realtà dei problemi sociali e vitali del nostro tempo. Un malessere che fagocita gli studenti e, per osmosi, anche gli insegnanti, ostacolati sempre più nei loro compiti di ascolto educativo da una pletora insensata di adempimenti burocratici.
La diffusione straordinaria di nuovi veicoli di comunicazione e di informazione, sempre più versatili e veloci, tende ad annullare ogni mediazione fra il locale e il globale e mette ogni persona a contatto immediato con numerosissime informazioni, diversi linguaggi e molteplici culture. Ma ciò accade per lo più in modo frammentario, senza alcun filtro interpretativo e senza alcuna prospettiva educativa in grado di interconnettere le molteplici esperienze e il percorso formativo complessivo di ogni singola persona.
Enzo Tiezzi
Tempi storici, tempi biologici
Con una nuova introduzione venticinque anni dopo
Donzelli editore, 2001
Mentre con lo schiudersi del nuovo millennio la scienza celebra i fasti di risultati fino a ieri semplicemente inimmaginabili, è nello stesso tempo davanti agli occhi di tutti una crisi radicale del nostro rapporto con la natura. …
La modernità di Tempi storici, tempi biologici sta proprio nell'aver intuito l'intreccio fra economia sostenibile e fisica evolutiva, tra valori etici e politica ambientale, tra estetica e scienza della complessità.
«I tempi che ci interessano sono quelli biologici, ma la rapidità con cui i parametri di oggi si muovono è di gran lunga superiore a prima. Le modificazioni naturali, che prima avevano tempi di millenni, oggi per il duro impatto delle moderne tecnologie possono avere tempi brevissimi»
Intervista allo storico Ilan Pappé (ebreo israeliano antisionista, uno dei principali "nuovi storici" che hanno rivisitato in chiave non-sionista la storia di Israele) pubblicata da Francesca Paci su "La Stampa" di ieri.
(2 ottobre 2024) Su Tel Aviv piomba la risposta degli ayatollah e il Medioriente si blinda, l'orizzonte prima della pioggia. Il commento dello storico israeliano Ilan Pappé, critico irriducibile del sionismo a cui è dedicato anche il suo ultimo libro “Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina” (Fazi), è lapidario: «Israele non avrà mai pace né sicurezza finché non metterà fine all'occupazione di milioni di palestinesi». Nessun cedimento alla memoria del 7 ottobre, all'alba del primo anniversario.
Pappé scuote la testa canuta: «La pulizia etnica iniziata nel '48 è la causa, la guerra la risposta». Chiusa lì, occhio per occhio.
L'invasione del Libano, i missili iraniani su Israele. Siamo già oltre il baratro? «Alla fine l'Iran dovrà trattenersi, non può affrontare una guerra regionale. In Israele invece la leadership politica è convinta che il potere militare sia l'unica strada, non considera alcuna soluzione diplomatica e vede il controllo dell'intera Palestina storica come l'unica chance di pacificare un Paese spaccato tra religiosi e laici. Per questo, come in Libano, Israele insisterà con la forza: non so se schiaccerà la terza intifada iniziata il 7 ottobre, ma non rimuoverà il vero ostacolo alla pace che non è Hezbollah né l'Iran bensì l'occupazione di milioni di palestinesi».
Nel libro racconta una società lacerata tra lo Stato d'Israele, che difende il proprio essere democratico, e lo Stato di Giudea, in odor di teocrazia. L'abbiamo vista nelle proteste del 2023 contro Netanyahu che però sta recuperando. Che Paese è oggi Israele?«Un anno dopo il 7 ottobre Israele è quel che era prima, un Paese fratto dove lo Stato di Giudea guadagna terreno. I più laici stanno facendo le valigie e quelli che restano si condannano al silenzio, perché rifiutano la teocrazia ma non hanno un piano per la Palestina. Israele è ormai guidato da una élite messianica che sogna di modellare il nuovo Medioriente con la complicità di un mondo sempre più a destra e in spregio delle Nazioni Unite».
di Federico Zappini
Il grande pregio del film/documentario di Andreas Pichler “Pericolosamente vicini” è la capacità di restituire coralità a un racconto – quello attorno alla presenza degli orsi in Trentino – che negli ultimi anni è proceduto per strappi e contrapposizioni durissime, sfibrando le comunità e rendendo il dibattito pubblico spesso molto faticoso, talvolta addirittura dannoso.
Non deve essere stato facile partire da un fatto di cronaca che ha segnato la storia recente di un’intera valle alpina (l’uccisione da parte di un’orsa di Andrea Papi, nei boschi di Caldes), esplorare con quanta più delicatezza possibile il dolore di una famiglia che ha perso improvvisamente un figlio, ascoltare senza utilizzare un filtro giudicante la rabbia di una comunità che percepisce un crescente senso di incertezza e da qui percorrere – a ritroso con la memoria e in avanti con l’immaginazione – l’evoluzione di un progetto che reintroducendo l’orso lì dove per mano dell’uomo si era di fatto estinto non descrive “solo” un ambizioso esperimento ecologico/faunistico ma interroga in profondità il modo del genere umano di stare in Natura, non più esercitando un presunto potere assoluto ma riconoscendo la propria fragilità e parzialità.
(12 settembre 2024) Qualche giorno fa la comunità di Tezze Valsugana ha accompagnato Doriano Stefani nel suo ultimo viaggio. Tante persone, a testimonianza della gratitudine verso quanto Doriano ha donato alla sua gente insieme all'incredulità per come all'improvviso se ne è andato.
Con Doriano non ci vedevamo da chissà quanto, ma agli amici della Valsugana chiedevo spesso di lui e nelle occasioni di incontro in valle speravo di intravvederlo in un angolo remoto, schivo com'era quando lo conobbi nei primi anni '80.
Doriano era parte di quel gruppo di giovani di Tezze – un tempo passaggio di confine fra l'Impero asburgico e il Regno d'Italia, oggi ultima propaggine trentina prima di entrare in Veneto – che all'inizio del 1983 decisero di rompere l'isolamento di quel luogo così lontano dai palazzi della politica e ai limiti dell'emarginazione. Così la prima cosa da fare sarebbe stata quella di dare uno scossone anche sul piano dell'amministrazione locale.