"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Adel Jabbar
(13 ottobre 2015) Nello scorrere del tempo l'intreccio di saperi, di conoscenze e di esperienze ha spesso costituito lo sfondo alla nascita delle città. Le città rappresentano la prova delle tante storie che le hanno plasmate, lasciando tracce nello stile urbanistico, nell’arredo urbano, nel patrimonio artistico, nella gastronomia, nell’uso dei tessuti, nelle lingue e nelle credenze.
Tramite la conoscenza sedimentata nello spazio urbano è possibile indagare il passaggio e i lasciti del tempo. Le città sono come dei cantastorie narranti le vicende delle genti che le hanno abitate, attraverso i segni visibili di innumerevoli cimeli e di vaste eredità. Segni che compongono quella che viene chiamata memoria, anche se spesso tale memoria viene presentata e letta secondo interpretazioni parziali, in cui prevalgono visioni ideologiche a edificare un ben precisa coscienza collettiva, più funzionale alla congettura del presente che alla vera conoscenza della complessità della storia.
E ora?
Dopo la notte di terrorismo che ha lacerato una città come Parigi, lasciando sulle strade, nei teatri e nei locali pubblici un altissimo numero di vittime, ci troviamo immersi nella paura.
Beirut non è più una città lontana che si può anche far finta di non vedere, è intorno a noi. Ora forse possiamo capire come Damasco e Baghdad, città antiche che nella storia sono state la culla della civiltà, per anni teatro di guerra e di terrore, possano vivere il loro presente.
E possiamo capire quanto fosse funesta e fuorviante la sciagurata idea dello “scontro di civiltà”, nel dover prendere atto che questo teatro non è lontano migliaia di chilometri ma sotto casa, nei luoghi che abitualmente frequentiamo.
L'innocenza l'abbiamo persa da tempo, quando l'occidente ha pensato di poter trasformare il vicino Oriente in un inferno di fuoco che veniva dal cielo. A guardar bene prima ancora, quando ci siamo troppo sbrigativamente assolti dalla tragedia dell'olocausto.
(7 dicembre 2015) Quando lo capiremo che innalzare le bandiere nazionali in un contesto che richiede visione globale e territoriale è una grande sciocchezza? Che il nazionalismo è stato il delirio del Novecento, ovvero del secolo degli assassini, nel quale sono morti in guerra un numero di persone tre volte maggiore che nei 19 secoli precedenti? Che rispondere con la Marsigliese al terrorismo significa guardare ad un contesto nuovo con lo sguardo rivolto ad un passato che ha lasciato una inquietante eredità? Che la “grandeur” è l'opposto del progetto europeo? Che la logica delle armi ha prodotto immani disastri nel mondo intero di cui oggi paghiamo le conseguenze? Che la sinistra guerrafondaia degli Holland e dei Blair (come del resto quella dei Chavez e dei Maduro) è parte del problema? ...
di Guglielmo Ragozzino *
Nei primi sei mesi del 2015, Volkswagen ha superato la rivale Toyota che deteneva il vertice da qualche anno, avendo approfittato della crisi di General Motors, tradizionale capofila del settore automobilistico. Ma la corsa del gigante tedesco si è infranta proprio nel mercato su cui più aveva puntato.
(3 ottobre 2015) Misurando a spanne, le automobili prodotte ogni anno nel mondo sono, da qualche tempo, 60 milioni o poco più. 18 milioni in Cina, 15 nell’Unione europea, Germania in testa, 8 in Giappone, 4 in Corea e negli Stati Uniti, 2 in India e in Brasile (dati del 2013). In ogni regione l’industria automobilistica e ciò che la circonda è fondamentale per l’economia: la società nel suo insieme e il lavoro in ogni campo. Così l’auto, motore del capitalismo, è dovunque favorita e difesa; ogni opinione contraria è da condannare, come eretica e malsana. Chi attenta all’auto deve essere posto al confino. Si può aggiungere che la Cina è cresciuta in termini automobilistici in dieci anni, passando da uno o due milioni di inizio millennio al livello precipitoso di oggi; che gli europei si vantano di costruire le auto più sicure, veloci e meno inquinanti di chiunque altro; che i giapponesi costruiscono di fatto le auto nel modo più efficiente e lo sanno, mentre gli americani sono convinti che le auto, problema loro, siano fatte per andare a benzina. Ecco quindi rivelarsi lo spirito dei cinesi in procinto di scalare il mondo; quello degli europei, sicuri della loro superiorità ambientale e umana; quello dei giapponesi sprezzanti con le tecniche altrui; e infine degli americani sicuri del petrolio, una loro amatissima invenzione.
Duemilacinquecento giovani agricoltori provenienti da 120 paesi del mondo a Terra Madre giovani, quattro giorni di informazione, esperienze, proposte a confronto nella cornice di Expo 2015. Quello che segue è il saluto di Carlo Petrini ai partecipanti.
di Carlo Petrini
(3 ottobre 2015) Entrando in questa sala provo la sensazione straordinaria che mi viene nel vedere come le nostre idee, i nostri progetti, il nostro futuro è in buone mani. In buone mani. Nelle vostre mani, nei vostri volti, nelle vostre persone… Quando è nata l’idea di Terra Madre molti di voi erano bambini. Anno per anno si è sviluppata in ogni angolo del pianeta. E se è stato possibile We feed the planet in così poco tempo, è perché la rete funziona, il cuore della rete esprime questa intelligenza affettiva. E voi siete la testimonianza che questa idea andrà avanti per tanto, tanto tempo. Grazie per essere arrivati a Milano.
L'8 settembre scorso Il Parlamento Europeo, con 363 voti favorevoli, 96 contrari e 231 astenuti ha approvato la risoluzione proposta dall'eurodepuata irlandese del Sinn Fein Lynn Boylan che ha dato seguito alla petizione di iniziativa dei cittadini europei "L'acqua è un diritto" (Right2Water). La risoluzione, che potete trovare in allegato, è un importante risultato a fronte di un processo di privatizzazione dei servizi idrici sempre più pericoloso e diffuso e che, nonostante l'esito referendario, investe anche l'Italia. Le considerazioni che seguono sono dell'amico Emilio Molinari proprio attorno all'approvazione da parte del Parlamento Europeo di questa risoluzione e al ruolo dei movimenti e della politica.
di Emilio Molinari
(15 settembre 2015) In questi giorni il PE ha votato una risoluzione sul diritto all’acqua che considero in netta controtendenza alle leggi del governo Renzi e sul piano internazionale al TTIP (Trattato transatlantico USA – UE). Non c’è stato nessun grido di vittoria e non so spiegarmi il perché. Pongo perciò una riflessione.
Viviamo tempi in cui sembra impossibile opporsi alla potenza dei poteri economici. Tempi nei quali la gente si sente schiacciata dall’enormità dei problemi e dalla forza di quel 1% che detta le regole nel mondo, in cui si finisce con il non credere alla possibilità di resistere.
Spesso però, siamo anche noi, parte attiva della società civile, che alimentiamo questo senso d’impotenza, non valorizzando i risultati e le vittorie che produciamo. Spesso non ne cogliamo la portata politica e quindi non seminiamo la consapevolezza dei risultati. Sul referendum dell’acqua, continuiamo a sostenere che non ha spostato di una sola virgola la realtà di questo paese e per certi versi anche noi alimentiamo la frustrazione nel popolo. Misuriamo i risultati attraverso le nostre aspettative, non valorizziamo la realtà e cioè che il referendum ha bloccato l’ingresso dei privati nelle gestioni dei servizi idrici e questo, è un elemento di resistenza che oggi viene messa continuamente in discussione dal governo.