"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
di Federico Zappini
(4 febbraio 2016) Solitamente quando non mi viene immediatamente voglia di scrivere di una cosa è perché la mia curiosità non è stata particolarmente sollecitata. E’ andata così anche per il report che mi ero impegnato a redigere dopo il seminario nazionale dei Luoghi Idea(li), svoltisi a Parma lo scorso 30 gennaio. Ho riguardato gli appunti – pochi, a essere sincero – e ho provato a ripensare al paio d’ore di dibattito a cui ho assistito e la sensazione che ne traggo è quella di una certa delusione, che ora provo a descrivere brevemente. Delusione che – lo voglio specificare – prende le mosse dalle altissime aspettative che ripongo nell’esperienza proposta da Fabrizio Barca e dal suo gruppo di lavoro.
Sono condivisibili i punti di partenza dell’analisi, che qui sintetizzo ponendo allo stesso tempo anche alcuni appunti critici.
1) Si partiva (e non si è ancora usciti da quella fase) da una situazione che è stata definita di “catastrofe”. In particolare il riferimento è alla crisi del Partito Democratico, ma a ben vedere è l’intero sistema politico, partitico e istituzionale a non attraversare un momento di buona salute.
L’ultimo reportage di Giulio Regeni, su un’affollata assemblea di uomini e donne per la libertà. Iniziative popolari e spontanee rompono il muro della paura nato dopo la speranza della primavera araba.
(5 febbraio 2016) Oggi il Manifesto pubblica l'ultima corrispondenza di Giulio Regeni, dedicata alla realtà dei sindacati indipendenti in Egitto. Come sapete nei giorni scorsi Giulio è stato assassinato e il corpo martoriato dai segni della tortura gettato lungo una strada nella periferia del Cairo. In altri articoli pubblicati in passato da il Manifesto, Giulio Regeni si era firmato per prudenza con uno pseudonimo, dicendo esplicitamente agli amici di temere per la sua sicurezza personale. Che Giulio sia stato vittima della feroce repressione militare in vigore in quel paese dopo il golpe militare che ha deposto il legittimo governo è piuttosto evidente, anche per i tentativi di depistaggio con i quali la polizia ha cercato di ascrivere la morte del giovane ricercatore ad un incidente automobilistico. Ora non c'è che da augurarsi che la verità venga a galla e che la comunità internazionale s'interroghi sulla natura della lobby di potere che governa questo paese cruciale nel quadro del vicino Oriente. Riprendo il testo dell'articolo come un piccolo omaggio verso l'impegno di Giulio e le cose in cui credeva questo giovane studioso.
di Giulio Regeni
Al-Sisi ha ottenuto il controllo del parlamento con il più alto numero di poliziotti e militari della storia del paese mentre l’Egitto è in coda a tutta le classifiche mondiali per rispetto della libertà di stampa. Eppure i sindacati indipendenti non demordono. Si è appena svolto un vibrante incontro presso il Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati (Ctuws), tra i punti di riferimento del sindacalismo indipendente egiziano.
di Giuliano Beltrami *
Uomini e animali, un rapporto millenario e leale. Ci fu un tempo... La prendiamo alla larga per dire (senza romanticismi o nostalgie. Vuoi avere nostalgia per la povertà?), ci fu un tempo, dicevamo, in cui ogni paese dell’arco alpino, in un’economia chiusa, aveva le sue malghe, sempre monticate. E i suoi riti. Come la scelta del “vachèr”, del sottoposto, del “casèr”, degli aiutanti. Per dirla in italiano, il pastore, il casaro e giù giù fino ai bocia. La strada che conduceva ai pascoli e alle malghe in alcuni paesi veniva sistemata attraverso il lavoro degli stessi allevatori, che davano le “ore” (di volontariato) in base al numero di vacche che avevano nella stalla. In quel tempo (sono passati alcuni decenni, ma nemmeno tanti) a metà stagione si faceva la pesa del formaggio, e se ne faceva una (definitiva) alla fine della stagione.
di Federico Zappini
(23 gennaio 2016) Il 2016 sarà l’anno di Netflix, la società americana che offre servizi streaming on demand per la visione di film e serie tv. Presente (o in procinto di arrivare) in più di 190 paesi del mondo fonda il suo successo principalmente su due aspetti. L’accesso personalizzato all’offerta – appunto a richiesta – da un lato e, caratteristica tutt’altro che secondaria, l’alta qualità di ognuna delle proposte contenute nel suo corposo catalogo, in continuo aggiornamento. Netflix porta all’estremo la libertà di scelta per l’utente associandola alla scommessa su scritture originali, dai forti tratti di unicità. Un Festival economico – non potendo seguire fino in fondo una strategia on demand nel costruire il suo calendario di eventi – farebbe bene a concentrarsi maggiormente sulla capacità di mettere a punto la propria “sceneggiatura”.
Scrivo queste poche righe – prendendo spunto a piene mani dal mondo e dal vocabolario dei serial tv – nel giorno in cui viene svelato il titolo della prima puntata della seconda stagione del Festival più famoso di Trento. Seconda perché dopo dieci edizioni, festeggiate nel giugno scorso, era lecito aspettarsi che il comitato organizzatore sentisse il bisogno di rinfrescare un po’ lo show, lavorando su trama (contenuti), personaggi (ospiti) e format.
Uno dei grandi film, sulla shoah e non solo. Train de vie, 1999 del regista rumeno Radu Mihaileanu.
«..."Ridere è un altro modo di piangere" dice il regista, Radu Mihaileanu, la cui famiglia fu internata in un lager. Un dolore atavico il suo, un dolore che viene qua trasfigurato nella risata, ma non per questo sminuito. Nella vita è costante la compresenza di comico e tragico e l'invito pascoliano a cercare nelle cose il loro sorriso e la loro lacrima come due elementi inseparabili è poeticamente vero. Così il regista sceglie di raccontarci in altra forma la tragedia del suo popolo, in modo surreale e ironico, quasi a volerne dissacrare l'orrore. Lo fa ispirandosi all'universo onirico del concittadino Ionesco, al suo teatro dell'assurdo, i cui rimandi la critica ha intravisto, unanime, nel racconto di Mihaileanu, così come ha colto l'evidente richiamo al regista Ernest Lubitsch (ebreo dell'Est come lui) e al suo film "Vogliamo vivere", che nel '42 affrontava per primo in forma di commedia la tematica antinazista, irridendo la tragedia della Shoah...»
http://vk.com/video_ext.php?oid=225133802&id=166640866&hash=151f0c3e94a3c1c6&hd=1
Viviamo giorni drammatici, che ricordano i tempi del 1989, quando tutto cambiò con estrema rapidità. E vi sono inquietanti similitudini con il crollo della Jugoslavia. Un commento del corrispondente da Capodistria di Ossrevatorio Balcani Caucaso (www.balcanicaucaso.org)
(28 gennaio 2016) La sensazione di essere arrivati al capolinea oramai è netta. Le cose corrono veloci. Non accadevano con tanta rapidità dal 1989, quando a crollare era stato il muro di Berlino. Troppo inquietanti le similitudini con la caduta di un altro impero, quello jugoslavo, per evocarle. Ma l’inefficienza delle istituzioni europee, l’incapacità di prendere decisioni rapide e di gestire la crisi fanno tirare un sin troppo facile parallelo con la presidenza collegiale e il governo della federazione jugoslava.
Voglia di muri
Intanto, non senza un certo entusiasmo e con un ampio consenso popolare, cresce in tutto il continente la voglia di sicurezza e di barriere protettive. Chiudersi per difendersi da immani pericoli che potrebbero sconvolgere per sempre la tranquilla vita di ogni giorno. Una nuova cortina di ferro sta nascendo e si fa strada la consapevolezza che se il filo spinato dovesse essere sostituito da una struttura di cemento armato con tanto di torrette di guardia, nessuno si lamenterebbe più di tanto.
Se solo un anno fa qualcuno avesse ipotizzato che un reticolo sarebbe stata eretto ai confini o che sarebbero stati ripristinati i controlli di frontiera tra i paesi dell’Unione sarebbe stato preso per pazzo. Oppure nessuno avrebbe potuto credere che governi democratici avrebbero preso seriamente in considerazione l’ipotesi di sequestrare i beni dei profughi per pagare le loro spese di mantenimento.
di Francesco Picciotto *
(27 gennaio 2016) In questi giorni Gustavo Zagrebelsky ci ripropone una riflessione importante (dico ci ripropone perché la stessa, con qualche piccola variazione, era stata alla base di un suo intervento nel 2012 al Science & Democracy Forum).
Zagrebelsky articola il suo pensiero a partire dalla lettura di un testo che io apprezzo molto (Collasso: la scomparsa della civiltà) scritto da un autore che apprezzo moltissimo: Jared Diamond (la differenza fra molto e moltissimo sta nel fatto che il suo testo che apprezzo di più è “Armi, acciaio e malattie”).
In breve (per quanto sia possibile trattare in breve una tesi così articolata) Zagrebelsky afferma che ciò che è accaduto sull’Isola di Pasqua sia di fatto un “esperimento in vitro” di ciò che potrebbe accadere (e che forse sta già accadendo) sul nostro pianeta. Questa sua affermazione secondo me viene da una lettura un po’ troppo semplificata della teoria di Diamond (d’altra parte Zagrebelsky è un giurista e per quanto ne sappia anche l’unico in Italia che tenti, a partire dal suo campo, una sintesi interdisciplinare coraggiosa fra giurisprudenza, sociologia, antropologia ed ecologia) che nel suo mettere a confronto diverse “esperienze umane” in varie parti del mondo e in varie epoche, riconosce alla componente ambientale ed ecologica una responsabilità fondamentale nell’avvenuto collasso di alcune civiltà o nell’aver trovato, da parte di altre, una soluzione. Ma in uno con la componente ambientale ne riconosce, se non vado errato altre 11, che definiscono una vera e propria matrice che una volta applicata ci dice di più sulle ragioni di successo o di un successo di una civiltà all’interno del proprio contesto storico ed ambientale.