"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Questo articolo è stato scritto da Zygmunt Bauman per la webzine europea Eutopia Magazine promossa da Laterza con altri editori europei, Telecom e la London School of Economics per l'inserto sul crollo del Muro di Berlino che comprenderà, tra gli altri, anche interventi di Ivan Krastev, Valerio Castronovo, Wolfgang Schuller e Gianni Riotta.
di Zygmunt Bauman
(8 novembre 2014) Sulle rovine del Muro di Berlino aleggia lo spettro di un mondo senza alternative. Non è la prima volta che uno spettro simile fa la sua comparsa: la novità fondamentale è che stavolta aleggia sul mondo intero. Nei secoli di sovranità territoriale e indipendenza che hanno fatto seguito alla Pace di Vestfalia, nel 1648, l'assenza di alternative (in sintonia con la formula cuius regio eius religio, dove la religio successivamente sarebbe stata rimpiazzata con la natio) era confinata allo spazio racchiuso nei confini di un singolo Stato; c'erano alternative in abbondanza nelle vaste distese che cominciavano dall'altro lato del confine, e lo scopo principale della sovranità territoriale era quello di impedire a queste alternative, per amore o per forza, di varcare quella linea. Il perforamento e lo smantellamento del Muro di Berlino hanno fuso gli spettri locali dell'assenza di alternative in un unico spettro mondiale.
La decapitazione del Parlamento
di Raniero La Valle
Pubblichiamo il testo dell’audizione di Raniero La Valle, presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione, presso la I Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, il 20 ottobre 2014, in occasione dell’inizio del dibattito della Camera sulle riforme costituzionali
(21 ottobre 2014) Grazie al presidente Sisto e ai colleghi deputati per questo invito. Credo che la cosa più utile che io possa fare sia di farvi conoscere le reazioni alla riforma costituzionale che si sono manifestate in quell’ area di opinione del Paese che si riconosce o è in sintonia con le posizioni espresse dai Comitati Dossetti per la Costituzione di cui io sono il presidente eletto.
Dico, per i colleghi più giovani, che Giuseppe Dossetti è stato un grande costituente, uno dei principali ispiratori della Costituzione e di molti suoi articoli. Per lui la Costituzione non era semplicemente una legge per così dire rinforzata, era un patto non solo politico ma morale tra i cittadini e lo Stato, tra il popolo e le istituzioni; la Costituzione era un bene comune ed era così importante per lui che la mise perfino sopra la sua successiva scelta di vita monastica, tanto che quando la Costituzione fu in pericolo scese dal suo eremo per tornare nella città, nella politica, per difenderla; e ai giovani a cui cercava di insegnare la vita cristiana disse un giorno che se avessero fatto cilecca con i dieci comandamenti, sarebbe già stato molto se fossero rimasti fedeli ai valori della Costituzione.
«Ora non possiamo proporlo, ma sarei favorevole all'abolizione delle Regioni a statuto speciale». Lo ha detto il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, al tavolo di discussione cui ha partecipato alla Leopolda di Firenze. Sollecitata dalle persone che hanno affollato la discussione, Boschi ha precisato: «Se proponessimo adesso l'abolizione delle Regioni a statuto speciale, rischieremmo di non portare a casa il risultato e di incorrere nell'errore degli ultimi 30 anni, cioè che per cercare di avere la riforma ideale non portiamo a casa niente». «Abbiamo messo mano a tante cose - ha detto ancora Boschi - il progetto è ambizioso e ci vede tutti insieme. Per fortuna, l'esperienza della democrazia italiana non finisce qui. Portiamo a casa questo risultato».
Fin qui la nota di agenzia. Che dire? Rimango allibito, senza parole... Mi limito a prendere atto che questo non è il mio governo. E che se non si costruisce rapidamente una diversa prospettiva politica, come andiamo dicendo da tempo, territoriale ed europea, siamo degli irresponsabili.
(21 ottobre 2014) Presenti al proprio tempo. Ho usato queste parole, nel dicembre scorso, a conclusione della mia esperienza, bella e stimolante, alla presidenza del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani. Descrivendo così il tratto distintivo di un percorso nel quale ho – ma è più giusto dire abbiamo – cercato di far uscire la pace dalla retorica banalizzante in cui da tempo si è cacciata.
Un lavoro impervio. Non solo perché oggi la guerra continua ad essere il modo normale con cui si regolano i conflitti, ma anche perché il pacifismo si è arenato nei propri rituali, incapace di rompere gli steccati della propria autoreferenzialità.
Ci abbiamo provato, non so con quale esito. Certamente testimoniando che c'è un modo diverso di declinare la parola "pace", indagando la guerra fin dentro la banalità del male. Una strada originale che ha avuto il merito di intercettare le grandi questioni del nostro tempo, dallo “scontro di civiltà”, al cruciale tema del “limite”, all'elaborazione del Novecento nel centenario del “secolo degli assassini”. "Perturbare la pace" abbiamo detto, riprendendo la straordinaria suggestione di James Hillman.
Ora, nel vedere riproposta la marcia per la pace Perugia Assisi con il suo stanco rituale di parole d'ordine che nella loro astrattezza divengono retorica, provo una distanza crescente. Dietro la festa delle bandiere arcobaleno c'è a guardar bene un vuoto profondo, tanto nell'incapacità di tentare risposte alle aree di crisi in grado di condizionare l'agenda dei governi, come nel dotarsi di una agenda propria per sottrarsi alle continue emergenze e costruire – nel pensiero come nell'agire quotidiano – una consapevolezza ed un sentire diffuso. Per non parlare delle miserie umane che pervadono anche questi luoghi, quasi un tabù per i chierici della pace.
Penso che la pace richieda quello stesso cambio di pensiero di cui ha bisogno l'umanità per immaginare un futuro diverso dalla guerra di tutti contro tutti che la limitatezza delle risorse e l'indisponibilità a rivedere i propri stili di vita pongono in essere. E penso che il mondo della pace non abbia bisogno di anestetici per sentirsi meno solo.
di Michele Nardelli
(24 novembre 2014) Aver lavorato per un paio d'anni nell'elaborazione e nella gestione dell'iter legislativo fino all'approvazione della Legge Provinciale n.5/2012 “Il Trentino libero da amianto” mi ha fatto maturare una particolare sensibilità di fronte alla moderna tragedia rappresentata dall'inquinamento da “asbesto”, un minerale il cui nome viene dal latino asbestus e dal greco asbestos, ovvero “inestinguibile”. E' probabilmente questa l'origine del termine commerciale “Eternit”, la lega di cemento e amianto che all'inizio del Novecento rappresentava uno dei simboli della modernità. Le sue qualità e la sua economicità ne facilitarono la diffusione in ogni parte del mondo (insieme ad altri composti contenenti amianto, vedi allegato), tanto da diventare tragicamente “inestinguibile”.
Nel corso degli anni venne infatti provata la relazione fra l'aspirazione anche occasionale di particelle di fibra di amianto e l'insorgere di una delle più gravi patologie cancerogene, il mesotelioma (pleurico o, più raro, intestinale). Ciò nonostante la produzione e la commercializzazione di prodotti contenenti amianto è proseguita in gran parte del mondo, tranne nei 38 paesi (i 28 dell'Unione Europea e altri dieci stati) che l'hanno messa al bando e dove pure l'utilizzo quale eredità del passato è proseguito malgrado l'asserita nocività.
(16 ottobre 2014) Il Parlamento del Regno Unito vota a larga maggioranza la proposta del riconoscimento dello Stato di Palestina. Un'espressione dal forte valore politico, quand'anche non vincoli l'azione del Governo britannico. Qualche giorno fa era stato il Governo svedese a pronunciarsi per il suo riconoscimento, provvedimento che aveva un'immediata efficacia nelle relazioni diplomatiche fra i due paesi.
In questo modo i paesi che riconoscono lo Stato di Palestina sono 121, mentre altri 30 hanno un rapporto diplomatico con l'autorità nazionale palestinese pur non riconoscendo formalmente lo Stato di Palestina. Fra questi l'Italia. Per questa ragione ho aderito nei giorni scorsi ad una petizione con la quale si chiede al Governo italiano questo passaggio politico formale.
(13 ottobre 2014) Fra le città italiane, Genova è una di quelle che ho più di altre nel cuore. Per la sua storia intrecciata di naviganti e mediterraneo, per quanto ha saputo esprimere sul piano culturale, per la frequentazione che ho avuto della città della lanterna negli anni '80 e le amicizie che pure mi rammarico di non aver coltivato a dovere. Vederla quindi in questi giorni nuovamente piegata dal fango mi addolora.
No, non è la pioggia ad averla ridotta così. Certo, il cambiamento climatico in atto e la sua tropicalizzazione hanno il loro peso, qui come in tante altre parti di questo paese bello e fragile alle prese con un dissesto idrogeologico che l'attraversa di lungo in largo. Ma la fragilità, a Genova come altrove, è il prodotto dell'agire dissennato che in nome dello sviluppo e del profitto hanno cementificato il territorio, reso impermeabili i letti dei corsi d'acqua oltretutto preda dell'incuria, lasciato andare in malora il faticoso lavoro di ingegneria rurale ed urbana che erano i terrazzamenti e i muri a secco, fatto scempio delle antiche “crêuza de mä”1, le mulattiere di mare che portavano alla collina e delle quali ci ha raccontato Fabrizio De Andrè.
Un modello che da tempo ormai si mostra in tutta la sua insostenibilità e sul quale sarebbe bene che avvenisse una riflessione, magari cercando le strade per tornare sui nostri passi. Perché la responsabilità di quanto avviene in queste ore non lascia scampo: riguarda chi ha pianificato il territorio, chi ha fatto lobby per rendere edificabili aree fragilissime, chi ha deciso le cubature ammissibili, chi ha rilasciato le licenze, chi ha fatto le perizie avvallando quelle scelte, gli imprenditori che hanno speculato, la politica che ha lisciato il pelo agli interessi privati, chi doveva esercitare una funzione di controllo, chi non ha avuto il coraggio di tornare indietro.
No, non è solo la mancanza di piani di emergenza che pure hanno a che fare con la partecipazione e la coesione sociale, come l'esperienza della Protezione Civile trentina dimostra. Qui è necessario cambiare rotta, smetterla di associare il futuro alla crescita, lavorare sulla riqualificazione del territorio e delle aree urbanizzate (compreso il patrimonio edilizio), se necessario abbattere e ripristinare le situazioni precedenti. Un altro modo di pensare, rispetto al quale nessuno si può chiamare fuori. Altrimenti correremo dietro a sempre nuove emergenze e grida ipocrite, “rimuovendone l'essenza”.