"... avevo scoperto l'abisso della rassegnazione, la virtù del distacco, il piacere del pensare pulito, l'ebbrezza della creazione politica, il fremito dell'apparire delle cose impossibili..." Altiero Spinelli
Oggi si svolge a Trento (Facoltà di Sociologia, via Verdi, ore 14.00 - 18.00) un convegno dal titolo "Scenari di guerra - Spiragli di pace" promosso dall'associazione Pace per Gerusalemme. Fra gli intenti dell'incontro quello di interrogarsi sul futuro di una regione la cui destabilizzazione ha conseguenze globali. Sono profondamente convinto che per costruire una via di uscita dal ginepraio mediorientale (e non solo) si debba andar oltre il paradigma novecentesco degli stati-nazione e di questo intendo parlare nel mio intervento, riprendendo fra l'altro l'autorevole opinione di uno dei grandi pensatori viventi, Edgar Morin. Il testo che segue è l’intervento che l’autore ha tenuto al convegno internazionale di Rimini organizzato da Edizioni Erickson all'indomani degli attentati di Parigi (m.n.).
di Edgar Morin
Per capire cosa succede nel mondo islamico è necessario avere una cultura storica: senza storia infatti non può esserci alcuna comprensione degli avvenimenti. Bisogna sapere, per esempio, che nell’antico Califfato c’era piena libertà religiosa sia per i cristiani che per gli ebrei, mentre l’intolleranza più cieca riguardava solo il mondo cristiano: basti pensare alle Crociate, all’Inquisizione, alle persecuzioni anti-ebraiche.
In realtà il vero problema del mondo arabo è stata la sua colonizzazione durata secoli, dalla fine del 400 dopo Cristo alla decomposizione dell’Impero ottomano. Da queste macerie nacque un sogno: il sogno di ricostruire e unificare il mondo arabo, il sogno di Lawrence d’Arabia. Un progetto che però si è andato a infrangere contro le mire egemoniche di paesi europei come la Gran Bretagna e la Francia, che per perseguire i propri interessi nazionali in Medio Oriente “crearono” paesi tra loro diversi: la Siria, il Libano, l’Iraq. Ed è stato un peccato, perché una nazione unificata araba avrebbe potuto svilupparsi in senso multietnico, visto che in ognuno di quei territori avevano sempre convissuto islamici, cristiani ed ebrei. Questa nazione avrebbe potuto consolidarsi, svilupparsi in un clima di libertà religiosa.
Un breve racconto, la sceneggiatura di un film su questo tempo
Nel mese di agosto mi sono recato con mia moglie Soheila Mohebi e mio figlio in Francia. Lì avevamo intenzione di girare un documentario sulla “giungla di Calais”, ormai quasi del tutto smantellata. Quei giorni mi hanno segnato profondamente e ho capito che il cinema non è sufficiente a raccontare ciò che ho visto. Ho deciso così di provare a spiegare Calais e la sua umanità negata attraverso questo breve racconto, conscio del fatto che nessuna lingua e nessun alfabeto potranno mai sopperire alla mancanza d’umanità di quel luogo. Non è possibile raccontare la giungla, ma la giungla racconta moltissimo di noi. Mentre scrivevo questo racconto sono venuto a sapere che durante le riprese del documentario il fratello di uno dei protagonisti è stato ucciso nella giungla assieme ad altre sette persone, accoltellato da alcuni trafficanti, per il semplice fatto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Episodi come questi a Calais erano all’ordine del giorno. Mi sono poi finto un rifugiato che voleva raggiungere la Gran Bretagna e ho parlato con un volontario-trafficante dell’associazione di volontariato inglese Auberge, il quale mi ha fornito informazioni per raggiungere la Gran Bretagna, come i costi e i trafficanti ai quali mi sarei dovuto rivolgere. I dialoghi contenuti in questo racconto sono avvenuti realmente, non il frutto della mia fantasia. (r.m.)
di Razi Mohebi
Un uomo stava ritto in piedi davanti al cancello di Auberge, impietrito e attonito teneva il figlio per mano mentre le sue dita affusolate stringevano quella manina sempre più forte.
“Se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato”. Ecco, dopo aver letto questo intervento di Raniero La Valle (per chi non lo conoscesse, già direttore del quotidiano Il Popolo e di Avvenire, per molti anni parlamentare della Repubblica per la sinistra indipendente, ma soprattutto uno dei pensieri più raffinati della storia moderna di questo paese), mi viene in mente questa espressione di Fabrizio De Andrè tratta dall'album “Storia di un impiegato”. Quello dell'amico Raniero è in realtà qualcosa di più di un intervento sul referendum costituzionale, è un racconto sulla cosiddetta seconda repubblica e su questo tempo nel quale sembra essersi perduta la capacità di comprendere quel che sta avvenendo, all'origine di quel senso di straniamento di cui parla Marco Revelli nel suo viaggio eretico per l'Italia che cambia. Un racconto – quello di Raniero La Valle – che in larga parte condivido, in alcuni passaggi meno (ma conto di tornarci il prima possibile), e che in ogni caso ci fa riflettere. (m.n.)
di Raniero La Valle
Discorso tenuto il 16/09/2016 a Messina nel Salone delle bandiere del Comune in un’assemblea sul referendum costituzionale promossa dall’ANPI e dai Cattolici del NO e il 17/09/2016 a Siracusa in un dibattito con il prof. Salvo Adorno del Partito Democratico, sostenitore delle ragioni del Sì.
Cari amici,
poiché ho 85 anni devo dirvi come sono andate le cose. Non sarebbe necessario essere qui per dirvi come sono andate le cose, se noi ci trovassimo in una situazione normale. Ma se guardiamo quello che accade intorno a noi, vediamo che la situazione non è affatto normale. Che cosa infatti sta succedendo?
Succede che undici persone al giorno muoiono annegate o asfissiate nelle stive dei barconi nel Mediterraneo, davanti alle meravigliose coste di Lampedusa, di Pozzallo o di Siracusa dove noi facciamo bagni e pesca subacquea. Sessantadue milioni di profughi, di scartati, di perseguitati sono fuggiaschi, gettati nel mondo alla ricerca di una nuova vita, che molti non troveranno. Qualcuno dice che nel 2050 i trasmigranti saranno 250 milioni. E l’Italia che fa? Sfoltisce il Senato.
di Roberto Pinter
(18 settembre 2016) I flussi migratori sono uno dei processi che più incidono non solo sull'apertura/chiusura dei confini degli Stati e sulla rinascita dei nazionalismi ma anche sul l'orientamento politico e sui comportamenti dei cittadini. Il fatto che questi flussi non seguano poi la domanda del mercato del lavoro e che assumano un'evidenza e un'emergenza pubbliche intrecciandosi con la minaccia terroristica rende ancor più pesanti le conseguenze. Chi ne paga il prezzo più alto come cambiamento culturale e anche elettorale è la sinistra, che vede proprio nei suoi strati operai e popolari la migrazione verso orientamenti nazionalisti, leghisti o populisti che giocano sull'ambiguità (vedi anche i 5 stelle).
Riprendo questo testo di Leonardo Nesti dal sito www.glistatigenerali.com che mi sembra in sintonia con molte delle mie stesse osservazioni sul referendum di riforma costituzionale sul quale gli italiani si esprimeranno a breve. Mi permetto un solo appunto. Ha ragione l'autore a ricordare come l'idea federalista abbia radici lontane, in primo luogo – aggiungo io –nelle correnti di pensiero che nel Novecento trovarono riferimento in Giustizia e Libertà e nel Partito d'Azione (penso alle figure di Silvio Trentin, nella foto con la figlia, o degli autori del Manifesto di Ventotene come Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi). Malgrado la cultura centralista di buona parte della sinistra italiana, c'è da dire che il federalismo ha trovato successivamente ambiti di testimonianza e di elaborazione. Penso al Movimento Federalista, penso alla mia stessa storia politica, alla sinistra indipendente, alla migliore elaborazione di Democrazia Proletaria, penso ad esperienze locali come Solidarietà dove il pensiero federalista ha rappresentato uno dei tratti costitutivi... e tutto questo ben prima che la Lega se ne appropriasse in maniera indebita. Doveva essere così anche per il PD nel suo intento di raccogliere le migliori tradizioni di pensiero del Novecento e bene fa Nesti a ricordare i riferimenti al federalismo nella carta costitutiva di questo partito, rimasta in effetti (e non solo su questo piano) soltanto un pezzo di carta. (m.n.)
di Leonardo Nesti
(10 ottobre 2016) C'è stato un periodo, in Italia, nemmeno troppo lontano, diciamo qualche anno fa, quando tutti erano federalisti. Il federalismo in Italia è un'idea lontana, che affonda nel Risorgimento, nel dibattito Costituente, nella nascita delle Regioni. Eppure è un concetto che in Italia non ha mai avuto successo.
Il federalismo, spesso declinato anche in maniera piuttosto bizzarra, lo ha poi a un certo punto riportato in auge la prima Lega Nord. In mezzo a un nugolo di idee razziste, retrograde o semplicemente strampalate, la Lega riuscì piano piano a far entrare nel parlamento italiano l'idea che i soldi pagati in tasse sul territorio dovessero restare, il più possibile sul territorio, alimentando cioè il meno possibile il bilancio dello Stato, più o meno quello che avviene per le Regioni a statuto speciale.
Da quasi un anno il Paese iberico vive un'impasse politica di cui non si vede la fine. Dopo la bocciatura in Parlamento di Rajoy, leader di un partito colpito da continui scandali di corruzione, tra rabbia e stanchezza si attendono le regionali in Galizia e nei Paesi Baschi per capire se ci sono alternative a un nuovo voto, il terzo in dodici mesi. I possibili scenari.
di Steven Forti *
Quasi un anno senza Governo. E con poche prospettive di averne uno a breve. Questa è la situazione politica spagnola dopo due tornate elettorali che, pur avendo modificato notevolmente il panorama politico del paese, con l’ingresso nelle Cortes di Madrid di Podemos e Ciudadanos, non hanno però permesso che il cambiamento tanto annunciato si concretizzasse in un’opzione di governo. Il bipartitismo del Partido Popular (PP) e del Partido Socialista Obrero Español (PSOE), che sembrava ferito a morte, regge ancora, ma non ha più i numeri per gestire il paese.
Stallo. Impasse. Queste sono le parole che si ripetono quotidianamente, dal 20 dicembre scorso, nei programmi televisivi, sui giornali, nei bar e nelle strade di una Spagna che sta vivendo una situazione inedita. E che sempre meno persone riescono a capire. C’è stanchezza. Molta. E c’è rabbia nei confronti di una classe politica, sempre più colpita da casi di corruzione, incapace di trovare una via d’uscita credibile. Una rabbia che però difficilmente si tradurrà in partecipazione, come è successo con la nascita di Podemos o delle candidature municipaliste che stanno governando a Barcellona e Madrid, sull’onda lunga del movimento degli indignados. Questa nuova rabbia, mista a stanchezza e impotenza, potrebbe invece convertirsi in un crescente distanziamento dalla cosa pubblica di una parte considerevole della popolazione – in primis i giovani – che porterebbe l’astensionismo – soprattutto a sinistra – a livelli mai visti in caso di terze elezioni. Se ne è avuto un assaggio nei comizi del 26 giugno, quando Unidos Podemos ha perso oltre un milione di voti rispetto a dicembre.
Silenzio,
e un silenzio più intenso
quando i grilli
esitano (leonard cohen)